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Un’università allo stremo

E’ coralmente accettato che l’Università italiana è allo stremo. Al di là di sporadiche voci a difesa dettate da interessi di bottega, gli osservatori indipendenti – a cominciare dal Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi – concordano sul decadimento della nostra accademia. Nelle graduatorie internazionali non vi è traccia delle università italiane: scomparse. Non ve ne è alcuna tra le principali dieci al mondo; ma neanche tra le principali dieci in Europa

È coralmente accettato che l’università italiana è allo stremo. Al di là di sporadiche voci a sua difesa dettate da interessi di bottega, gli osservatori indipendenti – a cominciare dal Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi – concordano sul declino della nostra accademia.
Nelle graduatorie internazionali non vi è traccia delle università italiane: scomparse. Non se ne trova alcuna tra le principali dieci al mondo; ma neanche tra le principali dieci in Europa (sette inglesi, due francesi e una svizzera). Se si consulta la classifica di Webometrics oppure quella del Times degli atenei del mondo, dopo innumerevoli bandiere a stelle a strisce, diverse bandiere di sua maestà britannica, qualche tricolore francese e un certo numero di bandiere tedesche, si scorge una bandierina bianca rossa e verde al centocinquantatreesimo posto. Tiriamo un sospiro di sollievo? Sì, ma solo per poco: è l’Universad Nacional Autonoma de Mexico. La prima italiana, Bologna, appare al centonovantaquattresimo. È la stessa che nel XIII e XIV secolo era la miglior accademia al mondo e attraeva studenti da tutta Europa, oggi è ridotta al rango di università di provincia.
Alcuni anni fa, durante una visita all’università felsinea, mi fu riferito che l’allora rettore stimava il distacco del suo ateneo dalla frontiera della ricerca accademica in 30-50 anni. Significa che la ricerca che oggi produce in media la miglior università italiana è del livello di quella che Harvard – la frontiera odierna – produceva tra il 1950 e il 1970.
È come se nel 2006 la Fiat fosse solo in grado di progettare e immettere nel mercato l’850 color caffèlatte senza marmitta catalittica o, al meglio, la Fiat 127: gloriose (forse) allora, invendibili oggi. Ma le auto caffèlatte sono finite fuori mercato, i professori no. Non c’è mercato che li minacci, non c’è concorrenza che li disciplini. Anzi, controllando gli accessi sono anche in grado di eliminare pericolosi concorrenti, ovvero i ricercatori più bravi, come Roberto Perotti ha più volte documentato su questo sito.

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Una ricetta semplice

Capire le cause del collasso è utile e molti lo hanno fatto. Ma più importante è dire come rimediare. Un bel rompicapo anche per un ministro di buona volontà e di talento come l’onorevole Fabio Mussi.
In un articolo sul Sole-24Ore di qualche giorno fa, Luigi Zingales ha proposto di risolvere il problema nell’unico modo possibile: iniettando dosi di concorrenza nel sistema universitario. La proposta di Zingales vuole fornire gli incentivi giusti per accrescere ciò che più manca alle nostre università: la qualità. Se gli studenti pagano (usando il prestito statale), hanno incentivo a pretendere; poiché il valore legale è abolito, ciò che conta è la reputazione dell’università e quindi la sua qualità. Studenti di miglior talento sono interessati a scegliere le università migliori e le università hanno incentivo ad attrarli.
Per poterlo fare devono migliorare la qualità, quindi assumere docenti di calibro – anziché amici, parenti e portaborse – e fornire incentivi giusti a quelli esistenti. L’autonomia contabile e organizzativa è il corollario: per poter sviluppare la sua politica, ciascuna università deve avere libertà di manovra. Chi abusa di questa libertà ne pagherà le conseguenze perché attrarrà meno studenti e di minor qualità e quindi meno risorse.
Il meccanismo è impeccabile. È anche implementabile? Sì, se si volesse, ma al ministro Mussi non piace. La sua obiezione è che quel meccanismo porterebbe rapidamente alla nascita “dell’università dei predestinati“. Ma non è già così, signor ministro? Non abbiamo già una università di predestinati, siano essi i professori iperprotetti o gli studenti destinati al lavoro con titoli di studio senza un mercato?
Se la proposta Zingales è troppo rivoluzionaria, le propongo una alternativa meno dirompente, ma ugualmente efficace: passi all’attuazione del sistema di valutazione della ricerca condotta lo scorso anno in via sperimentale dal Civr e condizioni una quota significativa, ad esempio un terzo, dei trasferimenti dello Stato alle università alla qualità della ricerca che vi si produce. Gli atenei che producono più ricerca di elevato livello – e solo quelli – ottengono più fondi delle altre; poiché la ricerca di qualità è condotta da ricercatori di talento, gli atenei competeranno per attrarre i migliori. I ricercatori di talento hanno un interesse prioritario a mantenere e accrescere il loro “capitale umano” e sanno che uno dei modi per farlo è attrarre altri ricercatori di elevata qualità con cui interagire e lavorare. In modo del tutto naturale useranno il merito, e si batteranno perché tutti lo facciano, come unico criterio di selezione dei professori, avviando il processo di ripresa delle università.
Come vede la ricetta è semplice: una regola ferrea di allocazione dei fondi ai migliori; libertà di decisione alle università. Non c’è bisogno di Grandi Riforme, i cui beneficiari finora sono stati soprattutto i loro estensori.

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26 commenti

  1. Alberto

    La proposta di Zingales poggia su premesse non realizzabili.
    Abolizione del valore legale del titolo?
    NATURALMENTE, facendo salvi i vecchi laureati in scienze politiche e filosofia (che lavorano in qualche ente pubblico in cui serve un “laureato” in una materia qualsiasi) e castigando i giovani.
    Necessario sarebbe rivedere il sistema di assunzione nel pubblico (come lo assumi un insegnante di storia, visto che il suo titolo non vale più? Non più per titoli, ma naturalmente per esami: ecco che i raccomandati vincono agli esami con 3 posti e 100000 di candidati!)
    Necessario rivedere le professioni (chi entra nell’ordine professionale? I FIGLI DEI PROFESSIONISTI NON DOVREBBERO NEMMENO PIU’ FARE LA FATICA DI LAUREARSI, VINCEREBBERO IL CONCORSO SUBITO)
    Ovviamente, mi direte che bisogna aver fatto dei corsi “accreditati” da un organismo “indipendente” che valuti il valore formativo e che dia un “impact factor” di ogni corso effettuato…
    Ovvio che le università si lancerebbero in operazioni a costo zero (corsi on line) ma adeguatamente “accreditati”!
    Gli studenti non chiedono chissà cosa, ma di imparare quello che si aspettano di applicare in seguito nella loro vita lavorativa. Non ricerca, ma insegnamento! Non grandi ricercatori, ma insegnanti che li ascoltino e li guidino nelle cose che dovranno fare (guardate che in Italia il 99% dei laureati fa lavori con cui la ricerca non ha alcuna attinenza).
    La proposta dell’autore è facilmente aggirabile mediante uso massiccio e distorto di pubblicazioni e brevetti, facilmente ottenibili (anche in riviste di peso).

  2. Umberto77

    Gent.mo Luigi Guiso, ho letto il suo articolo e vorrei sollevare un’obiezione: non credo che un costo più alto sostenuto dagli studenti possa innescare un meccanismo virtuoso di riqualificazione dell’univerisità. D’altro canto ammetto di non avere alcuna idea per spezzare i meccanismi di concorrenza sleale ai quali lei accenna e che affligono la ricerca universitaria. Vorrei però contribuire alla discussione sottolineando il ruolo che gli incentivi – ad es. alla ricerca o allo studio – possono avere sul rendimento degli studenti e dei ricercatori. L’assenza di stimoli spesso è frustrante così come la mancanza di informazione. Forse può essere utile spersonalizzare un po’ l’università, far pesare di più l’istituzione e fare in modo che essa possa infondere fiducia in chi le si rivolge: insomma fare in modo che non sia possibile a nessuno scavalcarla. Come fare, ripeto, davvero non lo so, però seguirò appassionatamente questa discussione se avrà un seguito. Grazie

    • La redazione

      Io ho solo proposto di allocare I trasferimenti che oggi lo stato fa alleuniversità secondo la performance di ricerca di queste stesse. Questo ècompatibile con costi di accesso invariati per gli studenti. La cosacruciale è spendere diversamente quello che si spende oggi, dando di più a
      chia fa meglio e meno o niente a chia fa peggio.

  3. Carlo

    Vorrei sollevare qualche obiezione. In primo luogo, abolire il titolo legale mi sembra, per quanto condivisibile in linea di principio, poco fattibile: ad esempio, tutti i concorsi nella pubblica amministrazione, attualmente basati anche sul valore legale della laurea, come verrebbero sostituiti?
    Per quanto riguarda un aumento dei costi per gli studenti, credo che l’inadeguatezza delle borse di studio non farebbe che aumentare le disparita’ tra ricchi e poveri. Inoltre, non tutti gli studenti cercano necessariamente la qualita’: molti si accontentano del pezzo di carta (se devono fare un concorso pubblico, se devono lavorare in proprio, se devono lavorare in famiglia, ecc) e quindi potrebbero essere incentivati ad andare nelle universita’ piu’ “facili”.

  4. Marco

    Gent.mo prof Guiso,
    purtroppo lei ha perfettamente ragione. L’università italiana è stata ed è attualmente una nave con un carico che non attraccherà mai in alcun porto; quel carico, infatti, è rappresentato (nella maggior parte dei casi) da professori ordinari incompetenti, che non hanno publbicato una sola riga in anni e anni di (onorabile?) carriera, che sono diventati tali solo attraverso delle sanatorie con le quali da un giorno ad un altro si sono trasformati da ricercatori a ordinari, che non hanno tempo di fare ricerca in quanto impegnati nelle loro attività private o a far vincere qualche concorso ai propri portaborse. Abolire il valore legale alla laurea sarebbe il primo provvedimento da prendere. Lo Stato ha delle grandi colpe: non finanzia, e non ha mai finanziato, adeguatamente la ricerca, ma non c’è da meravigliarsi visto che siamo in Italia. Non c’è concorrenza; se sei in gamba, ti mandano via perché qualcuno ha paura di essere sclazato dalla prorpia poltrona. Nondimeno, i centri di eccellenza esistenti (vedi Normale, Sant’Anna e SISSA) ricevono dei finanziamenti ridicoli; e noi che cosa facciamo? Ma la cosa più semplice naturalmente: creiamo ad arte di nuovi, come l’IMT di Lucca (anche se a me piace chiamarlo MIT, per piangermi un po’ addosso), mentre nelle università pubbliche non abbiamo neanche la carta per stampare. Trovare dei meccanismi incentivanti per far rinascere l’università, è materia assai complessa, ma concordo con quanto lei ha scritto.
    Su una cosa però sono in disaccordo: l’università italiana non è allo stremo, l’università italiana è morta e sepolta. E ormai nessuno sarà più in grado di farla risuscitare. Grazie.

  5. gianfranco savino

    non capisco perchè le proposte di riforma del sistema universitario e della ricerca si caratterizzino tutte per la loro timidezza. Forse è già tanto che in questo paese così immobile si cominci a discutere del probelma, ma visto che le proposte sono verosimilmente destinate a rimanere esercizi teorici, perchè non osare? Perciò ecco il mio modesto progetto di riforma:
    – abolire dai curriculum validi per i concorsi a cattedra e da ricercatore le presentazioni alle conferenze, i paper pubblicati su riviste edite dai dipartimenti di provenienza e i libri;
    – stilare un rigoroso elenco di riviste con impact factor A o A- di target internazionale ed europeo per ogni ambito di ricerca ed imporre uno standard di 2, 3, 4 paper da pubblicare su tali riviste ogni 5 o 6 anni per ogni ricercatore o docente;
    – adottare il sistema di carriera del reddito dei ricercatori americani (guadagni molto alti a fronte di richieste enormi nei contratti a tempo determinato e poi stipendi più bassi per i docenti confermati a tempo indeterminato che scelgono di non fare più ricerca sotto vincoli di produttività);
    – introdurre la valutazione anonima di fine corso dei docenti da parte degli studenti con un punteggio minimo per la riconferma nel ruolo.
    Sono un utopista…. mi redno conto di prospettare il licenziamento del 90% del personale universitario italiano…

  6. riccardo boero

    Egr. prof. Guiso
    in merito alla sua proposta, non credo che esistano metodologie universalmente accettate per valutare la qualita` di un lavoro di ricerca. Si finirebbe probabilmente per premiare i lavori che riescono ad approdare sulle pubblicazioni straniere di maggiore prestigio, grazie magari a contatti personali. Io vedo due grandi mali nell’Universita` italiana, il primo e` un’oggettiva mancanza di mezzi. Il secondo e` l’onnipotenza dei professori che bloccano tutto quello che non riescono a controllare. Per risolvere il primo problema, occorre secondo me RIDURRE il numero di corsi e atenei. Le universita` devono consolidarsi e associarsi in modo da poter offrire attrezzature e laboratori di punta, anche se questo significa riduzione del numero di professori. Non serve a nulla avere un’ universita` in ogni capoluogo di regione, se poi non ha i mezzi di competere a livello mondiale. Non serve neanche offrire corsi su tutte le materie in ogni universita`. Creare pochi poli specializzati di eccellenza in tutta la nazione, meglio se fisicamente prossimi alle aggregazioni economiche. Ad es. corsi di laurea in meccanica, robotica, elettronica automotive a Torino, su cui concentrare tutti i finanziamenti, e smantellare tutti gli altri.
    Il secondo problema (l’onnipotenza dei docenti-padroni) si risolve solo togliendo loro la garanzia del posto a vita. Questi signori devono poter essere licenziati come tutti gli altri, se operano in modo inefficiente, se non hanno fatto progredire il loro ateneo per numero di pubblicazioni o proficue collaborazioni con i soggetti economici. Inoltre, sarebbe opportuno prevederne la rotazione e il periodico trasferimento obbligatorio, in altri atenei nazionali (ma anche esteri come visiting professor) per evitare che si formino “mafie” consolidate ma anche per favorirne l’evoluzione e l’allargamento e l’approfondimento degli interessi professionali.
    Distinti saluti

  7. Cicciotto Cartoferro

    Gentilissimo prof. Apprezzo moltissimo il suo articolo. Vorrei però sottilineare una cosa che non si fa mai in questa sezione dedicata all’università e cioè quella di parlare di scuola media superiore e università. Se, come qualcuno nei commenti giustamente sottolineava, il titolo di studio ha valore legale ma non vale nienete così è pure già a monte cioè alle scuole. Chi si iscrive ad un istituto tecnico industriale della Campania difficilmente andrà a fare ingegneria meccanica. Se è fotunato troverà dopo 7 anni un lavor in una fabbrica che chiuderà, dopo aver fatto pagare alla cassa dei lavoratori per 4 anni la cassa integrazione ed aver intascato i finanziamenti in seguito a presente miglioramenti tecnologici. Scusate divago. Insomma comme sottolineava Barbagli 30 anni fa senza analizzare quello che succede con le superiori non si può affrontare il problema della ahimè morta università italiana. Il 50% delle matricole farebbe volentieri qualcosa se in tempo utile qualcuno dicesse loro che si può diventare dei bravi artigiani, o dei bravi meccanici o montatori di condizionatori ecc….Questo significa -50% studenti. Diciamo la verità in Italia la laurea serve a pochissimo. Basta con la solfa “L’Italia ha la percentuale di laureati più bassa ecc…” Da sempre, dal 1861 la disoccupazione intellettuale italia è la più alta d’Europa.

  8. Giovanni Perucca

    Gent.mo dott. Guiso,
    io credo che abolire il valore legale della laurea sia sbagliato. La funzione dei titoli di studio è, o dovrebbe essere, quella di certificare delle conoscenze, in modo da ridurre le asimmetrie informative nel passaggio al mondo del lavoro.
    E’ vero, la laurea in italia non certifica più nulla ma temo che l’abolizione del suo valore legale comporterebbe costi non indifferenti oltre ad una confusione poco auspicabile.
    Misure per migliorare la qualità del servizio sarebbero secondo me la riduzione del numero di Università e il ripristino del numero chiuso, oltre alla revisione dei criteri sui quali viene decisa la carriera dei docenti.
    Grazie, cordiali saluti,
    Giovanni Perucca

  9. Alessio Calcagno

    Sono d’accordo con il principio allocativo meritocratico ed anche con l’abolizione del valore legale dei titoli di studio.
    Tuttavia mi sorge un dubbio ed il dubbio si chiama mezzogiorno.
    I fondi pubblici sono richiamati dall’efficienza, che però è anche determinata dai mezzi già propri di un contesto territoriale (e non solo dalla buona amministrazione).
    Su larga scala e nel lungo periodo questo favorirà la chiusura delle università del sud e dei piccoli centri che faranno più fatica a reperire risorse nel mercato privato e che sono penalizzate dalla mancanza di economie di scala che la ricerca/insegnamento comportano.
    Questo è un costo sociale che mi chiedo se un Paese come l’italia è in grado di accettare, ovvero la creazione di una Ivy League di centro-nord.
    Sono consapevole che la mobilità degli studenti è maggiore con l’innalzarsi dell’obbligo scolastico ma il principio guida è lo stesso che ha portato a costruire Fiat punto a Termini Imerese ed a Melfi (per capirci).
    Una università pubblica che fallisce e chiude. Ma quando mai sarà accettato un fatto del genere…
    L’Italia conosce solo l’agonia per attuare tali radicali cambiamenti.
    Ed è l’agonia che noi 25 enni neolaureati aspettiamo.
    Nell’attesa andiamo in inghilterra.

  10. mario

    Concordo largamente con gli argomenti del Prof Guiso. Non mi convince l’idea di considerare l’università alla stregua di un’impresa e di conseguenza pensare che introdurre meccanismi concorrenziali sia la soluzione. La sfida credo che sia cercare di aumentare il livello medio della qualità dell’università italiana senza aumentare troppo la varianza. Sono più favorevole alla “ferrea” distribuzione delle risorse agli atenei in base alla qualità della ricerca, in particolare mettendo maggiore pressione sui direttori di dipartimento rispetto alle decisioni sui posti da bandire e dei fondi su cui eventualmente contare come conseguenza delle loro decisioni. Sulle tasse universitarie: più che “aumentarle” credo che si debbano introdurre dei veri scaglioni in base al reddito famigliare. Il ragionamento non credo sia nuovo: il costo che lo stato sostiene per ogni studente è maggiore dell’ammontare della retta, il resto è preso dalla fiscalità generale. Chi frequenta l’università viene in media da famiglie più agiate rispetto a quelle di coloro che sono costretti a trovarsi un lavoro e non possono permettersi gli studi. Buona parte della fiscalità generale viene dai lavoratori dipendenti che “in media” non sono esattamente dei paperoni. Ergo, l’attuale impostazione delle tasse universitarie è regressiva: i “poveri” pagano i costi della frequenza universitaria dei “ricchi”. Conclusione: la comunità di coloro che frequentano l’università dovrebbe essere il più possibile in grado di autofinanziarsi. Questo punto credo andrebbe tenuto presente accanto alla questione di lasciare liberi gli atenei di fissare le tasse a proprio piacimento.

  11. Alfonso Pierantonio

    Egregio Prof. Guiso,

    sono convinto che la sua proposta va nella direzione giusta, nessuna riforma epocale ma meccanismi che creino un metabolismo sano per drenare le risorse verso le eccellenze. Tuttavia, mi permetto di segnalare come nel suo articolo e in quello di Zingales non vi è alcuna traccia della situazione delle aree disciplinari professionali (settori giuridico-economici, medicina, architettura, talune aree di ingegneria etc) dove il titolo accademico è spesso strumentale all’attività professionale privata – un avvocato o un ortopedico ordinario può decuplicare le proprie parcelle.

    Già nel ’94 Raffaele De Simone denunciava questa situazione, oggi sembra che nessuno se ne occupi più, una misura delle conseguenze e dell’inerzia a qualsiasi cambiamento è dato dal numero di Rettori espressione di tali aree, sono quasi la totalità.

    Cordialmente,
    Alfonso P.

  12. Carlo Iannello

    Illustre professore,
    ho letto con interesse il Suo articolo e condivido perfettamente l’analisi e le critiche da Lei rivolte al sistema universitario italiano.
    Mi permetto tuttavia di esprimere alcune perlessità sulle soluzioni proposte. La strada che Lei suggerisce, infatti, non va nel senso della discontinuità rispetto alle scelte operate negli ultimi 10-15 anni. Anzi, mi pare che Lei sostenga: diamo maggiore autonomia agli Atenei, perseveriamo quindi nel cammino intrapreso, eliminaimo addirittura il valore legale del titolo di Studio e la concorrenza risolverà tutto. L’estremizzazione dell’autonomia universitaria, in realtà, è una politica vecchia e ben sperimentata in Italia. Essa ha determinato additura il decentramento dei concorsi a livello locale, con i guasti che tutti denunciano ma solo dopo aver utilizzato i benefici particolaristici del nuovo metodo di reclutamento.
    A nessuno viene il dubbio che propio il disinteresse dello Stato e la sempre maggiore autonomia degli Atenei siano i primi indiziati rispetto all’attuale stato di degrado e di decadimento della ricerca scientifica? Non è forse il caso che lo Stato si riprenda i poteri di controllo, di verifica, di programmazione, che esso esercitava quando il nostro sistema di ricerca non aveva nulla da invidiare a quelli degli altri Paesi europei?
    Con i puù defernti saluti,
    Carlo Iannello

  13. ada

    …la lista dei problemi del sistema universitario è certo condivisibile; mi domando però quanto sia fondato il modello per il quale se liberalizziamo l’accesso all’offerta didattica, allora le università saranno spinte verso la frontiera della ricerca. perché ciò sia vero ci vogliono una serie di pre-requisiti, tra cui studenti orientati alla mobilità, e servizi che la permettano; datori di lavoro capaci di premiare la competenza; progetti didattici che declinino la ricerca in formazione universitaria, e un sistema educativo che fornisca la base a questi progetti… non mi sembra che, al momento, nessuna di queste condizioni sia sistematicamente vera. così, l’accento sulla capacità di attrazione di studenti rischia di portare alla frattura fra ricerca e formazione, in cui la seconda prevale sulla prima, e innesca competizioni al ribasso per fare grandi numeri…

  14. Francesca Traldi

    Egregio Prof.re Guiso,
    Ho ventisei anni e ho da poco concluso un dottorato di ricerca e non posso che condividere tristemente le sue parole.Non solo l’università italiana è incapace di produrre ricerca ma anche di produrre elite. Senza un elite un paese non può che essere votato alla rovina! Il complicato meccanismo di crediti figlio della riforma Berlinguer ha dimostrato la propria inefficenza e a oggi mi chiedo se, alcuni anni dopo l’entrata in vigore della Riforma universitaria sia possibile rimediare agli errori compiuti.

  15. Carlo

    Gentile prof. Guiso,
    nel suo articolo, così come in molti altri contributi relativi ai mali dell’università italiana e alle possibili strategie per combatterli, si fa riferimento alla necessità di introdurre maggiore concorrenza fra le università.
    Io credo che per raggiungere questo scopo sia indispensabile raccogliere e pubblicare dati accurati su cosa fanno e quanto guadagnano i laureati delle singole facoltà di tutte le varie università.
    La pubblicazione periodica di studi del genere è indispensabile per consentire agli studenti che devono iscriversi una scelta consapevole, che a sua volta innescherebbe un circolo virtuoso. Infatti, tutti gli studenti vorrebbero andare presso le università che garantiscono migliori possibilità di lavoro, e queste università dovrebbero ricorerere a una selezione con numero chiuso. Inoltre le altre università sarebbero stimolate a milgiorare la loro offerta formativa (e i loro servizi di placement!) andando incontro alle esigenze del mercato.
    In fin dei conti, quelli che pagano il prezzo più alto a causa dei mali della nostra università sono (siamo) gli studenti che laureati, anche con buoni voti, non trovano lavoro se non sotto pagati. Sarebbe giusto, quanto meno, informarli prima e metterli in condizione di decidere se, cosa e dove studiare, avendo una idea di cosa li aspetta dopo la laurea. Forse le università fabbriche di disoccupati a vita comincerebbero a perdere iscritti…
    Saluti

  16. Davide

    Sono d’accordo che l’università italiana è molto indietro, e responsabilizzare docenti e studenti sarebbe la cosa migliore (ma non ha fatto proprio il contrario la riforma del 3+2?). Ma una breve critica ai valutatori degli atenei mi pare inevitabile. La miglior cosa è, come Socrate, porsi una domanda: e se chi valuta è ideologizzato?Non verrebbero prese in considerazioni solo le università che propagano le idee dominanti? Pensate, voi che siete economisti, a cosa accadrebbe alle idee di Keynes o Marx, tutt’ora da confutare.
    Tanto è vero che l’ultima riforma Moratti ha “agganciato” i risultati a quanti articoli vengono scritti nelle migliori riviste del settore. E quali sono queste riviste? quelle americane, che se parli di “potere” o di “classi” o di “spesa pubblica” (ma sanno bene cosa vuol dire finanziare le guerre, quindi sono i migliori allievi di Keynes) sgrullano le spalle inorriditi e ti zittiscono nel nome di “Milton Friedman”…
    Un cordiale saluto

  17. Federico Lovat

    ma attenzione alle classifiche perché come si legge sul sito di webometrics:
    “The aim of this project is not to rank the institutions according to quality of the education provided nor their academic prestige”
    Bensí:
    “Webometric indicators are provided to show the commitment of the institutions to Web publication and to the worldwide Open Access to knowledge”
    Non é un caso che le prime universitá in classifica siano le “tecnologiche”: MIT, Stanford, Berkley e l’onnipresente Harvard

  18. Massimo S.

    La concorrenza è una bella parola, ma ho visto come è applicata nella scuola superiore, e c’è da impallidire: semplicemente, gli studenti che rischiano la bocciatura in un liceo statale passano ad un privato, pagano, e hanno la promozione assicurata. Qualcosa di simile c’è già all’università: c’è in giro un volontario disposto a farsi operare di appendicite da un chirurgo laureato all’università di Messina? Il caso dei pazienti che muoiono negli ospedali siciliani è conosciuto, ma nessuno risale alle università che per incrementare le iscrizioni regalano la promozione agli esami, e non solo in Sicilia. La concorrenza basata sulla qualità resterà residuale: due o tre università solamente potranno permettersi di attrarre gli studenti migliori e perdere la massa, così come, p. es. qui a Roma, solo uno o due licei privati sono didatticamente al livello di un medio liceo statale, gli altri sono una barzelletta (e prendono soldi pubblici). Non ci sarà qualità senza selezione, e la selezione nessuno avrà il coraggio di farla. Saluti.

  19. Jacopo

    D’accordo con tutto quanto affermato da Guiso. Ma come valutare la ricerca? Stiamo attenti, in Europa soprattutto, a non perdere i pochi ma fondamentali vantaggi comparati che abbiamo nei confronti degli usa. Non ripetiamo i loro errori.
    In campi come la fisica, ad esempio, è probabile che si sia raggionta una certa omogeneità di vedute a livello internazionale su cosa sia importante, e su quali riviste venga pubblicato. Nelle scienze sociali non è cosi. In economia, per esempio, la pressione verso l’approccio del ‘publish or perish’ statunitense sta abbassando notevolmente il livello della ricerca terorica (o se vogliamo, di base). Di questo gli americani stessi sono consapevoli e preoccupati. In campi metodologici fondamentali per tutte le scienze sociali, come ad esenpio la teoria dei giochi, abbiamo in europa figure gigantesche, mentre i programmi di dottorato statunitensi non producono da dieci anni un ricercatore adeguato a trattare i problemi fondazionali della teoria. Questo perchè produrre un teorico di base è piu difficile, piu lungo, richiede piu’ interdisciplinarietà (ad esempio in termini di comprensione degli strumenti matematici), che non produrre un buon ricercatore applicato. Ed è molto piu’ facile formare un ricercatore di base in europa (ok, in pochissimi posti) che non negli USA.
    La situazione italiana è indifendibile, ma non confondiamo la ricerca, quella vera, col numero di pubblicazioni all’anno. Non saprei come fare, ma abbiamo l’occasione di riformarci senza farci condizionare del tutto dagli aspetti deteriori del mercato e della concorrenza.

  20. Samuele

    Leggo sul “Corriere di Gela” che è ivi imminente l’apertura di una università in cui vi si insegnerà scienze della comunicazione: http://www.corrieredigela.it/leggi.asp?idn=CDG100030&idc=1
    Ora, secondo me il problema non sta tanto nell’abolizione del valore legale dei titoli di studio (tanto le aziende private sanno già scegliere i titoli validi), quanto nell’abolizione degli pseudo-lavori nel settore pubblico per accedere ai quali una pseudo-laurea (assieme a una raccomandazione) funge da foglia di fico.
    Cioè, pensate che uno che va a studiare scienze della comunicazione a Gela pensi poi di andare a lavorare nel privato e/o all’estero? O forse piuttosto di fare il “consulente” o l’addetto stampa di una Provincia (ma non bisognava abolirle?) o di un Comune o di una Comunità montana o di un Consorzio intercomunale o di una Fondazione cassa di risparmio o simili?
    L’idea chiave è semplice: per abolire le pseudo-università bisogna agire “a monte”, abolendo gli pseudo-impieghi statali.
    Altrimenti agire “a valle” parlando di “ranking” per università del genere (e ce ne sono anche al centro-nord) è come parlare di certificazione ISO per i bagarini.

  21. Gino Loker

    Camminando per il corridoio di una nota università del centro-nord di giovedì 8 giugno alle 17.00 mi è venuto in mente che in effetti il titolo dato al suo articolo coglieva davvero nel segno.
    Ero nel luogo più desolato che avessi mai visto. Nemmeno un’anima. Nè uno studente, nè un professore, nè un dipendente del personale amministrativo. Ho pensato che fosse colpa dei mondiali ma non erano ancora iniziati.
    Ma è semplice. Lezioni finite, esami svolti in fretta e furia, cartellini timbrati. Tutti erano corsi a casa o in altri posti a fare il dopo o il vero lavoro.
    Ero davvero in un luogo stremato! Se avessero potuto parlare quei muri; loro si che si sarebbero lamentati per la fatica che fanno a vedere così poca gente lavorare!!!

  22. Alessandro

    Tralasciando il fatto che non conosciamo puntualmente le persone che redigono le cosiddette classifiche delle università, né come è stata condotta la raccolta dei dati, un breve commento sul concetto di qualità dell’università mi sembra opportuno.
    Come leggo nei commenti precedenti e dai discorsi in ambito universitario (studio le scienze economiche e sociali) si ricollega la qualità di un ateneo dalla qualità della ricerca che è svolta all’interno. Premesso che la ricerca compone l’offerta dell’università nel mercato, consideriamo anche l’aspetto dell’insegnamento. Non è dato il vero rapporto tra qualità del ricercatore e qualità del professore, sicuramente non è direttamente proporzionale (è possibile verificarlo con semplici studi empirici), ma allora cosa distingue una università l’una dall’altra? Cosa spinge uno studente/laureato/imprenditore a scegliere di collaborare con uno ovvero con un altro ateneo? Forse l’assicurazione che un neo-laureato ha avuto come insegnante un brillante ricercatore, ma che, forse, con l’insegnamento si trova in estrema difficoltà e non riesce a trasmettere ai suoi allievi la sua scienza? Cosa deve dare l’università ai suoi laureati?

    Questa, a mio avviso, dovrebbe essere una linea di dibattito per i nostri rappresentanti in parlamento (di qualsiasi colore), magari uscendo un poco dagli schemi di ragionamento che attualmente ci tengono vincolati nelle nostre posizioni.

  23. giuliana

    Ho letto con interesse l’articolo del prof. Guiso, ed in genere tutti quelli dedicati alla situazione drammatica dell’Università, nella quale presto servizio come professore da quasi venti anni. Credo concordiamo tutti sul punto che il problema è drammatico perché una buona università è indispensabile per la formazione della classe dirigente di un Paese e per lo sviluppo fisiologico dell’attività di ricerca nei vari settori. Attenzione, tuttavia, a non fare della concorrenza un mito ed una panacea. Invero, i due problemi allo stato fondamentali dell’Università italiana sono a mio avviso: a) quello di una ricerca totalmente asfittica, perché priva di finanziamenti (e non sorretta da adeguato incentivi finanziari ai professori, il cui stipendio mensile è gravemente inadeguato), b) quello di una didattica frammentata e demotivante per docenti e per discenti, a seguito della vera e propria rivoluzione, a mio avviso da un lato inutile, dall’altro perniciosa, determinata dalla c.d. riforma del 3+2.

  24. Marcello Romagnoli

    Gent.mo prof Guiso,
    circa il metodo adottato dal CIRV non ho una opinione molto positiva. La valutazione dovrebbe essere ricercatore per ricercatore, e non su una selezione dei migliori lavori. Poi, chi li valuta? C’è qualcuno che è in grado di comprendere il livello dei miei ad esempio? Ci si basa sul nome della rivista? Allora a maggior ragione sia fatta più nel dettaglio. Inoltre, e questa è una grave lacuna, si considerino anche i contratti di ricerca che un ricercatore ha con le aziende o con la Comunità Europea. Se l’Università deve avere una influenza sull’economia, questo è un fattore non trascurabile. Pensiamo che gli studenti vadano nelle Università più quotate o in quelle dove più facile è prendere la laurea? Le industrie sono in grado di capire se è meglio uno studente dell’università X o di quella Y? Io penso di no, almeno in un breve/medio periodo di entrata in vigore di un siffatto sistema. Io comunque sono assolutamente per una svolta meritocratica dell’Università. Faccio qualche proposta.
    a)Stipendio costituito da due parti: una (ad esempio 1000€) fissa, una seconda variabile in base a parametri quali pubblicazioni, contratti, giudizio sulla didattica da parte degli studenti.
    b)Valutazione su basi assolutamente oggettive e libere da ogni ingerenza politica o di gruppo. I minimi richiesti dallo Stato devono essere noti per I cinque anni avanti (es. Minimo 2 pubblicazioni/anno, minimo di valutazione studenti ecc.)
    c)Distribuzione dei fondi delle università ai ricercatori che presentano I risultati più elevati di valutazione.
    d)Mercato dei docenti, le Università possono assumere e fare proposte di assunzione ai docenti di altre Unversitò al fine di attrarre I migliori.
    e)Basta con gli slogan tipo largo ai giovani o le quote rosa. Non importa se giovani o vecchi, uomini o donna, occorrono prima di tutto persone capaci.

  25. Marcello

    Mentre sono d’accordo sulla misura della meritocrazia basata su una agenzia esterna, qualificata, non governativa che valuta, secondo parametri oggettivi riconosciuti internazionalmente, non sono affatto d’accordo sulla proposta di Zingales. Infatti questa ha il profondo difetto di ignorare che le esperienze della scuola privata italiana non è assolutamente una storia di qualità. Se le università pubbliche non sono di alto livello guardando le graduatorie più accreditate, che dire di quelle private? Dovrebbero essere migliori no? Bene la stranota univerisità privata Bocconi viene ottava in Italia, dopo ben sette "pessime" università pubbliche italiane (fonte QS Top Universities): Ciò vuol dire che se la migliore università privata è ottava, trasformando le università pubbliche in private ci troveremo anche peggio di oggi perchè la maggior parte degli studenti cercherebbero atenei che laureano facilmente e con poco sforzo e non la qualità. Le aziende dal canto loro non sono assolutamente in grado di capire la differenza di qualità che c’è tra le università perchè se così fosse già da tempo quelle mediocri avrebbero chiuso i battenti perchè i laureati non trovano lavoro.

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