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Un “tetto” per Totti

La proposta di una superlega europea appare difficilmente realizzabile nel contesto attuale, non è gradita a una parte rilevante dei tifosi e forse è inefficace per risolvere la questione del divario tecnico-economico tra squadre. In ogni caso è praticabile solo nel lungo periodo, mentre i gravissimi problemi del calcio italiano richiedono una soluzione immediata. Meglio quindi sperimentare, subito e per qualche anno, alcune delle misure di riequilibrio tipiche dello sport statunitense. A partire da una forma di salary cap.

Diversi interventi su lavoce.info hanno individuato nella creazione di una superlega europea la soluzione all’enorme, e crescente, divario tecnico-economico esistente nel campionato italiano di calcio. L’idea di creare un vero e proprio campionato europeo per i club maggiori, trasformando in una sorta di A2 i rispettivi campionati nazionali, circola da un decennio. (1) Tuttavia, la proposta mi pare difficilmente realizzabile nel contesto attuale del calcio europeo; non gradita da una parte rilevante dei tifosi; forse inefficace rispetto al problema del divario tecnico-economico.
Cercherò di argomentare brevemente tali obiezioni.

La proposta è difficilmente realizzabile

Ammesso di persuadere l’UEFA e gli altri club europei a prendere in considerazione la proposta, la chiave per la sua concreta realizzabilità sarebbe la questione dei diritti televisivi. A differenza dell’attuale legislazione italiana (negoziazione individuale), l’UEFA è riuscita nel 2003 a ottenere una parziale esenzione dall’Antitrust europeo, potendo così mantenere la negoziazione centralizzata dei diritti televisivi della Champions League. (2) Gli ingenti proventi che ne derivano sono distribuiti su base meritocratica, in funzione dei risultati ottenuti nel corso della competizione. Esistono quindi forti interessi al mantenimento di uno status quo che assicura grande soddisfazione economica a tutte le squadre partecipanti. È bene poi ricordare che l’esenzione dalle norme antitrust è stata concessa, oltre che in virtù delle note specificità del settore sportivo (dove il benessere dei tifosi/consumatori si ritiene crescente con il grado di equilibrio sul campo), soprattutto in ragione della formula a eliminazione diretta della competizione che rende impossibile una negoziazione individuale. Nel caso la Champions League venisse trasformata in un vero campionato, con un numero garantito di partite per ciascuna squadra, tale motivazione verrebbe meno e quindi alcuni club partecipanti potrebbero a ragione reclamare il diritto alla negoziazione individuale.

La proposta è impopolare

Molti commenti ignorano la distinzione, ben nota a chi si occupa di economia dello sport, tra tifosi “committed” e “uncommitted”. (3) Riferirsi all’audience mondiale di Milan–Barcellona significa avere in mente i tifosi uncommitted, quelli cioè che tipicamente non vanno allo stadio, guardano il calcio in tv e, pur parteggiando per una squadra, non hanno una forte preferenza per i suoi successi quanto per la qualità dello spettacolo. Questi sono anche i tifosi che popolano i modelli degli economisti dello sport nordamericani, ovvero quelli che si ritiene (anche da parte dell’Antitrust europeo) perdano interesse in una competizione troppo squilibrata. Pur riconoscendo che la pay-tv è stata una vera rivoluzione per il calcio italiano, perché ha grandemente ampliato la platea dei tifosi uncommitted, rimane che in Italia e negli altri paesi europei, sono numerosi, e forse ancora maggioritari, specie per le squadre minori, i tifosi committed.
Sono i “veri” tifosi, quelli cioè per i quali Ascoli – Milan conta quanto, se non più, di Milan – Barcellona, ovvero quelli il cui interesse per l’evento sportivo non cala al crescere del divario tecnico e per i quali, quindi, l’argomento della tutela dell’equilibrio competitivo non vale. Il benessere di tali tifosi è legato alla prosecuzione dei campionati nella forma attuale, incluse le rivalità di campanile, le sfide tradizionali e, soprattutto, il meccanismo di promozioni e retrocessioni, fonte di importanti gratificazioni e tratto distintivo – per riconoscimento della stessa Unione Europea – dello sport europeo. La creazione della superlega finirebbe per distruggere almeno parte di tale benessere. Forse il gioco vale comunque la candela, ma non si può fingere che esista un omogeneo “tifoso rappresentativo”.

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La proposta può essere inefficace

Bisogna intendersi sulla struttura della superlega. Se si pensa, sulla scia degli sport professionistici nordamericani, a una superlega chiusa ampliabile solo per cooptazione, si potrebbero contestualmente attivare, come sottolineato anche in precedenti interventi, quei provvedimenti a tutela dell’equilibrio sul campo noti all’esperienza Usa (salary cap, riparto egalitario dei ricavi, eccetera). In questo caso, nessuna obiezione di principio: il target di riferimento di una simile superlega sarebbero gli appassionati uncommitted per cui, una volta sacrificati consapevolmente i tanti tifosi committed delle squadre minori, esisterebbero vari modelli di governance tra cui scegliere il più adatto al calcio europeo.
Se invece si pensa a una lega aperta, con un meccanismo di promozioni e retrocessioni dalle leghe nazionali, ecco che i dubbi aumentano. Si tratterebbe infatti di un unicum a livello mondiale. Rapidamente il divario tecnico-economico tra insider e outsider diverrebbe incolmabile per cui non è chiaro come un club che partecipa al campionato nazionale (con risorse tecnico-economiche a esso commisurate) potrebbe sperare di battere in un playoff tecnicamente credibile – cioè disputato su più partite – un club proveniente dalla superlega.
Delle due l’una: o il playoff sarebbe solo una fastidiosa formalità per il club di superlega, oppure, nel caso venisse disputato in forma di partita unica, sarebbe un evento del tutto imponderabile al quale difficilmente i singoli club, e soprattutto chi gestisce la superlega, affiderebbero i destini economici delle stagioni successive (immaginate l’impatto sugli abbonamenti alla pay-tv della promozione in superlega del Chievo al posto del Milan). L’esito prevedibile sarebbe una forte spinta a tutelare gli insider con l’approdo a una lega chiusa. Inoltre, l’analisi economica dello sport mostra che l’efficacia di molte delle misure a tutela dell’equilibrio competitivo ideate per leghe chiuse è diversa in caso di una lega aperta, caratterizzata da un sistema di incentivi molto differente: è da dimostrare che il loro effetto sarebbe davvero un soddisfacente equilibrio sul campo.
In conclusione, la soluzione “superlega europea” appare non priva di difficoltà e incognite e quindi praticabile in concreto solo nel lungo periodo. I gravissimi problemi del calcio italiano richiedono però una soluzione immediata: perché allora non cogliere l’occasione per sperimentare, subito e per qualche anno, nel nostro campionato alcune delle misure di riequilibrio tipiche dello sport Usa, in particolare una qualche forma di salary cap? È vero che un tetto ai salari imposto a livello nazionale – oltre a seri problemi di enforcing – potrebbe causare la fuga dei migliori giocatori verso altri campionati, ma tale obiezione non pare dirimente: se i club italiani, a causa della loro fragile struttura patrimoniale, possono permettersi di ingaggiare gli Adriano e i Totti solo grazie a ricavi gonfiati con metodi non del tutto leciti, o comunque lesivi della concorrenza, ben venga una dieta a base di sconfitte nelle coppe europee. In fondo, anche le nostre imprese esportatrici sono state per anni “viziate” dalle svalutazioni della lira, ma quelle davvero efficienti sono riuscite, sia pur faticosamente, a imporsi sui mercati internazionali anche in regime di moneta unica.

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(1)
Per una simulazione vedi Szymanski S., Hoehn T., “The Americanization of European football”, Economic Policy, 1999, Vol. 14, pp.205-233.

(2) Vedi la decisione pubblicata in Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea, 8.11.2003, L 291, pp.25-55.

(3) Vedi Szymanski S., “Income inequality, competitive balance and the attractiveness of team sports: some evidence and a natural experiment from English soccer”, Economic Journal, 2001, Vol. 111, pp.69-84.

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  1. Giuseppe Cadel

    Gentile Redazione, desidererei commentare le Vostre proposte per la riforma dell'”economics” del calcio, cominciando dal salary cap: un tetto “rigido” al monte stipendi sarebbe un’eccellente idea in presenza di due elementi, primo – come avete sottolineato – un sistema di controlli e sanzioni assai stringente per impedire che vengano effettuati pagamenti in nero e, secondo, un livellamento verso l’alto della forza economica delle squadre, che ora in Europa non c’è.

    Nello sport professionistico USA qualunque squadra può permettersi in rosa un giocatore da 5 milioni di Dollari annui di stipendio, nel calcio europeo (anche a livello di Serie A) no, pertanto, un tetto rigido sarebbe efficace per le grandi squadre ma non per le piccole, per le quali risulterebbe comunque troppo alto: molto meglio un tetto salariale “mobile” in funzione del fatturato, sarebbe un incentivo a guadagnare di più per poter spendere di più per il parco giocatori.

    Inoltre, vorrei evidenziare anche che il salary cap andrebbe adottato a livello europeo, in caso contrario, le squadre italiane dovrebbero competere nelle coppe europee contro avversari che non avrebbero limiti teorici di spesa, con rischio di squilibri competitivi.

    Un altro stumento di perequazione adottato negli USA che si è pensato di importare in Italia è il revenue sharing: al di là della contrattazione collettiva dei diritti TV, qualsiasi meccanismo di suddivisione delle altre voci di fatturato (proventi dello stadio diversi dai biglietti, merchandising, etc.) non sarebbe un incentivo a guadagnare sempre di più – per il fatto che poi tale guadagno andrebbe comunque suddiviso con le società che non hanno fatto nulla per conseguirlo: per esempio, se la società X ha investito parecchio per dotarsi di uno stadio all’avanguardia che le consente un forte incasso, perché dovrebbe essere costretta a dividerne una parte con la società Y che non ha fatto questi investimenti?

    Cordialmente, GC

    • La redazione

      Ringrazio per gli utili commenti al mio intervento. Le due critiche principali mi pare riguardino l’enforcement del tetto ai salari e la paventata fuga dei migliori giocatori. Riguardo alla seconda, credo di aver esposto chiaramente la mia opinione: se le nostre squadre non possono permettersi le stelle del calcio, che li lascino pure liberi di accasarsi all’estero e tanti auguri a chi dovesse continuare a garantirgli contratti
      nell’ordine dei molti milioni di euro. La prima è invece una critica per molti versi condivisibile, dato che il problema della difficile (ma non impossibile) implementazione del tetto è stato evidenziato sul piano teorico e sperimentato nella realtà dei campionati pro americani. Tuttavia, è anche
      vero che il tetto ai salari – ovviamente “mobile”, cioè legato al
      fatturato – è l’unico strumento di riequilibrio la cui efficacia è
      riconosciuta da tutti, economisti e manager delle leghe sportive. Le altre misure, quali il revenue sharing o la stessa mutualità, non danno invece analoghe garanzie ed in alcune circostanze possono dimostrarsi controproducenti o disincentivanti (anche se non sarei a priori ostile a
      sperimentare un mix delle varie misure: come ho scritto, esistono diversi modelli di governance da cui poter trarre ispirazione). Quanto ai rimedi non legati al riparto delle risorse, quali la riduzione del numero delle squadre e l’introduzione dei playoffs, sono molto favorevole, anche se in un mercato dei fattori globale come quello del calcio, dove ogni club può procurarsi il talento all’estero, non credo esista correlazione tra numerosità dei partecipanti al campionato ed equilibrio sul campo (lo squilibrio è problema annoso: si pensi che dal 1979 ad oggi solo 4 nuovi club sono arrivati nelle
      prime 3 in serie A), mentre la logica dei playoffs presuppone una maturità della cultura sportiva che dubito esista ad oggi nel nostro calcio.
      NG

  2. GIOVANNI CUTINI

    Mi sembra una proposta iper condivisibile e in linea con la situazione attuale, sia del mondo del calcio, sia del nostro paese. Bisognerebbe sviluppare un’azione popolare (tipo raccolta delle firme per una legge di iniziativa popolare ) da presentare alla nostra ministro dello sport.

  3. giuseppe

    La cosa che mortifica è la considerazione che mentre per i giocatori di calcio si è creato un sistema che porta ad accettare l’incremento sproporzionato e spropositato di compensi sempre più miliardari, per i” cervelli” della ricerca, per gli scienziati italiani, per le tecnologie di salvaguardia della umanità si riservano tagli e condizioni per mandarli via, all’estero, premiando in questa società italiana i calci invece di premiare e e di promuovere le idee, il cervello .

  4. Riccardo Fabiani

    Pur apprezzando la complessità scientifica dell’articolo, sono decisamente perplesso di fronte alle conclusioni: il tetto ai salari è una soluzione che sprofonderebbe il nostro calcio, facendo fuggire i migliori giocatori e costringendo al nanismo l’imprenditorialità delle società italiane, che in questo modo non sarebbero incentivate ad una crescita virtuosa – di certo questo non è avvenuto neanche col precedente regime, ma le soluzioni dovrebbero essere altre. Come la riduzione del numero delle squadre, che porterebbe ad una competizione più sana perché “sostenibile”; o incentivare i club ad acquistare gli stadi e a investire nelle attività collaterali al calcio.

  5. Principe Myskin

    Personalmente ritengo del tutto inverosimile che un paese in cui è gravemente carente il concetto di pubblica amministrazione o di controllo e vigilanza (come scandali in settori ben più importanti certificano a scadenze regolari), possa seriamente pensare di implementare un sistema come un tetto salariale per gli sportivi professionisti.
    Una soluzione del genere assomiglierebbe a una gattopardesca foglia di fico.

    A ben vedere, poi, un serio enforcement di un tale sistema oltre a essere impossibile, non converrebbe a nessuno (nè agli atleti, né alle società maggiori, né a quelle più piccole che vivono di mutualità, cioè di fetta ricavi delle prime).

    Si operi piuttosto dove si può: sorteggio arbitrale integrale, giudici sportivi estratti a sorte con incarichi semestrali (non si dica che il diritto sportivo è tecnicamente complesso..)

    Se poi si vuole la terapia d’urto, si smetta di drogare tutto il sistema di risorse e si abolisca la mutualità (e il campionato europeo arriverà con la forza dell’inerzia)

    Principe Myskin

  6. Franco

    Non sono d’accordo sul “tetto” a Totti.
    Se lo “stipendio” di Totti (e di tutti gli altri giocatori di calcio professionisti) viene pagato soltanto dagli incassi dei biglietti degli stadi e cose simili (gadgets, pubblicità, ecc.) senza la minima ricaduta sulle tasse del cittadino, perché no? Se queste retribuzioni sono pagate, di fatto, dagli amanti di questo sport, perché non dovrebbe seere possibile?
    Qualcuno ha proposto di porre il “tetto” a V. Rossi, a Schumacher, agli attori cinematografici, ecc.?
    Il punto nodale, secondo me, deve essere: se ad un certo punto le società non hanno più soldi per pagare i propri giocatori, chiudono bottega e pazienza per i tifosi.
    Secondo me questa è democrazia e libertà di spendere i propri soldi.
    Saluti,
    Franco

  7. Claudio

    Non sono daccordo su nessun tetto, daltronde si può ottenere la stessa cosa dividendo equamente gli introiti dei diritti televisivi e quant’altro fra tutte le squadre partecipandi (una sorta di par condicio calcistica) e nel contempo affidando il controllo dei bilanci a strutture affidabili e completamente avulse al mondo del calcio.

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