C’è un versante previdenziale-assistenziale della riforma del mercato del lavoro che solitamente viene affrontato con scarsa attenzione non solo per i problemi di finanza pubblica, ma anche per alcuni aspetti tecnico-giuridici attinenti a importanti istituti del modello di protezione sociale, di quello pensionistico in particolare. Si parla dell’introduzione di nuovi ammortizzatori sociali, della ridefinizione e dell’armonizzazione delle aliquote contributive per le differenti tipologie di lavoro, del riconoscimento di agevolazioni fiscali alle imprese che assumono a tempo indeterminato.
Tutti questi obiettivi, poi, devono essere raccordati con la proposta di ridurre il cuneo contributivo di almeno cinque punti.

Interrogativi sul disegno strategico

Anche volendo accantonare le sfide economiche e finanziarie della complessa operazione in cui è impegnato il nuovo Governo (non si dimentichi che da almeno due legislature non è stato possibile, per mancanza di adeguate risorse, un riordino degli interventi a sostegno del reddito e dell’occupazione a favore di tutto il lavoro subordinato e, quindi, anche degli occupati nelle piccole imprese e non solo dei dipendenti delle aziende medie e grandi, come avviene adesso), è il disegno strategico di fondo a suscitare interrogativi tuttora carenti di adeguate risposte.
Con la proposta del taglio dei cinque punti, che deve necessariamente coinvolgere anche l’aliquota pensionistica perché è questa a “fare la differenza”, essendo nel contempo il minimo comune denominatore per tutte le tipologie di lavoro lungo una prospettiva di tendenziale armonizzazione, si arriva al cuore della riforma Dini del 1995: la correlazione tra aliquota di finanziamento e aliquota di accredito. A prescindere dagli esiti dell’allineamento delle aliquote, un percorso comunque non facile che incontrerà la resistenza delle categorie interessate degli autonomi e degli atipici, nel caso del lavoro dipendente, quella di finanziamento è destinata a calare, per effetto, appunto, del “taglio”. Cosa accadrà alla seconda? Se essa si ridurrà in proporzione, vi saranno conseguenze negative sul calcolo della prestazione. In caso contrario, dovrà sopperire la fiscalità, facendo venir meno l’equilibrio tra quanto si versa e quanto si riceve. Sarebbe questa, pari pari, la situazione più volte denunciata in occasione del lungo iter legislativo della legge Maroni, quando l’opposizione politica e sindacale, di fronte al progetto di decontribuzione fino a cinque punti (limitata alla fattispecie dei nuovi assunti con rapporto a tempo indeterminato) lamentava, appunto, il venire meno del sinallagma contributi/prestazione, con tutte le conseguenze del caso.
Per ovviare a tale inconveniente strutturale, nel dibattito (sempre interessante quello condotto da lavoce.info) è emersa l’ipotesi dell’istituzione graduale di una pensione di base, finanziata dal gettito fiscale, che si accompagni ai trattamenti obbligatori a carico di un sistema contributivo rivisitato in senso più uniforme per tutte le categorie, anche per quanto riguarda il tasso di sostituzione assicurato. Non si tratta di un’ipotesi del tutto peregrina, se si considera che, adesso, vi sono almeno 34 miliardi di euro in quota Gias che vanno a sostenere, a vario titolo, la spesa pensionistica.
Il Governo, nelle sue componenti riformiste (è rassicurante la nomina di Cesare Damiano al dicastero del Lavoro nonostante lo “spezzatino” subìto dal Welfare), ha in programma, poi, di stabilizzare il lavoro atipico, attraverso un irrobustimento delle protezioni. La parola d’ordine è sempre la stessa: il lavoro flessibile sarà consentito, ma dovrà costare di più. L’indicazione sembra corrispondere a una petizione di principio piuttosto che a un’ipotesi realistica. Il lavoro parasubordinato rischierebbe – proprio per le sue caratteristiche di attività riservata ai settori deboli – di finire fuori mercato sotto la spinta di un sistema di regole oggettivamente insostenibili.
Ma se si volesse sperimentare tale percorso, sarebbe necessario usare molta cautela nel prevedere nuovi ammortizzatori sociali e i relativi criteri di finanziamento. La gestione dei parasubordinati presso l’Inps ha sufficienti avanzi (5 miliardi l’anno) per far fronte in maniera autonoma alla copertura di una più ampia gamma di tutele, senza dover ricorrere a trasferimenti dal bilancio statale. La medesima prudenza dovrebbe valere con lo strumento delle agevolazioni fiscali finalizzate alla “buona” occupazione. Non avrebbe proprio senso drogare, in maniera strutturale, il mercato del lavoro, alimentando posti finti, finalizzati a riscuotere il credito d’imposta. Alla fine dei conti, poi, rimarrebbe a “fare la differenza” la questione della disciplina del licenziamento individuale. Come si vede, i nodi tornano sempre al pettine. E non a caso nelle proposte circolate nelle ultime settimane, compresa la ricetta Zapatero, ha rifatto capolino il problema delle regole della risoluzione del rapporto di lavoro, come cartina di tornasole della flessibilità.

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