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Dagli slogan all’agenda politica

La questione della precarietà va senz’altro affrontata. Ma i veri nodi sono sul come potenziare gli ammortizzatori sociali e sul come regolare le flessibilità. Bisogna definire sussidi, e schemi di finanziamento, che ne scoraggino l’uso prolungato e ripetuto nel tempo, da parte delle imprese e da parte dei lavoratori. E stabilire come regolare il sistema. L’uso della flessibilità potrebbe essere per esempio calmierato da un costo aggiuntivo che tenga conto del maggior ricorso ad ammortizzatori sociali insito nel lavoro a termine.

Il programma politico di chi ha vinto le elezioni parlava di superamento della legge Biagi. (1)
Il superamento, come hanno ormai più volte dichiarato anche i maggiori critici di quella legge, non significa abrogazione e quindi puro e semplice ripristino della situazione pregressa: un indirizzo legislativo reso oggettivamente problematico dalla miriade di accordi, contratti e accadimenti nel mercato del lavoro che già avevano fatto uso di quella legge, e comunque più simbolico che effettivo, a fronte dei problemi della precarietà in buona parte preesistenti rispetto a quella legge. Pur volendosi distinguere dal completamento della legge Biagi – che era lo slogan della parte che le elezioni ha perso, forse anche perché quel completamento a mezzo di più decorosi ammortizzatori sociali aveva sempre rimandato – il superamento sembra perciò qualificarsi, in positivo, come un’agenda di policy che voglia affrontare la questione della precarietà nel mercato del lavoro, un problema che è oggettivo, predata la legge Biagi e che è forse però stato ingigantito, nella percezione degli interessati, dalla scarsa attenzione che vi ha prestato il policy maker.
Anche se questo graduale uscire dalla pura polemica elettorale è di per sé positivo, rimane però ancora da capire come, al di là del titolo e dell’obiettivo generale, quell’agenda possa essere affrontata. La tesi di chi scrive è che il punto non sia tanto quello di abbinare al completamento della legge Biagi l’eliminazione di quelli che taluni ritengono essere i suoi “eccessi”, ridimensionando le flessibilità consentite dal legislatore alle imprese. I veri nodi sono sul come potenziare gli ammortizzatori sociali e sul come regolare le flessibilità.

Come potenziare gli ammortizzatori sociali

Veniamo al primo punto. Estendere l’esistente regime degli ammortizzatori sarebbe costoso e inefficiente. Forse anche per questo i Governi passati hanno sempre rimandato il potenziamento degli ammortizzatori sociali, perché ai rinvii dell’ultima legislatura fanno da pendant le vicende della penultima, quando si arenarono gli indirizzi della Commissione Onofri e i Governi di centrosinistra non utilizzarono una apposita delega conferita dal Parlamento nel 1999.
Occorre quindi ridisegnare gli strumenti, accrescendo l’equità – assente nell’attuale regime, segmentato oltre che sottodimensionato – evitando di far esplodere la spesa (oggi si spende lo 0,6 per cento del Pil a fronte di una media dell’Unione europea di circa il 2 per cento) e le distorsioni nel mercato del lavoro. Ridisegnare richiede perciò di definire sussidi, e schemi di finanziamento degli stessi, che ne scoraggino l’uso prolungato e ripetuto nel tempo, da parte delle imprese (quando licenziano o quando vengono meno dei contratti a termine) e da parte dei lavoratori.
Ridisegnare significa anche “attivare” i beneficiari dei sussidi – sostenendoli e controllandoli nella ricerca di un nuovo lavoro – indirizzando in tal senso quei servizi pubblici per l’impiego che, a dieci anni dall’avvio di un assieme di riforme che hanno aperto il campo agli operatori privati e passato parte prevalente delle competenze pubbliche al livello regionale (e provinciale), sono ancora in mezzo ad un guado e privi di una mission pregnante. (2)
Nonostante la continuità sostanziale delle direttrici di riforma in tutto il decennio si è infatti ancora molto indietro: permangono ambiguità nelle interazioni tra privati e pubblico, le cui specificità sono trascurate tanto in quelle realtà regionali che immaginano di legittimare i primi solo nell’ambito di quanto programmato dal secondo, quanto in quelle dove si immagina che non vi siano affatto distinzioni tra gli uni e l’altro. Rischia così di essere trascurata la difesa della contendibilità del mercato degli intermediari privati e di non svilupparsi quella mission specifica dell’operatore pubblico di gestione, controllo e attivazione dei beneficiari di sussidi, una mission che tra l’altro, pur dovendo adattarsi ai diversi territori e potendo prevedere meccanismi di outsourcing sulla falsariga di quanto sperimentato in altri paesi, ad esempio Australia e Olanda, è intrinsecamente nazionale.

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Regolare la flessibilità

Rilevante è però anche il secondo punto. La legge Biagi è una legge complessa, il dettaglio dei cui effetti colpevolmente non è stato a sufficienza monitorato ed esaminato, come invece sarebbe necessario, per individuare gli eventuali eccessi e le parti che, più banalmente, hanno girato ben poco e quindi non hanno prodotto miracoli ma neppure guasti.
Il vero punto generale, strategico, non è però il giudizio sui singoli istituti contrattuali introdotti o toccati dal legislatore (o sul loro mero numero), ma quello sull’opportunità di regolare nel dettaglio, più avverso la flessibilità o più a favore di questa e quindi consentendo poche o tante deroghe al contratto standard. Questa è stata la modalità tradizionale per introdurre quelle flessibilità richieste dalle imprese, e che pur con indubbi meriti storici, specie al suo avvio, è stata portata ai suoi estremi con la legge Biagi. Si sono così ampliate le flessibilità, ma anche i rischi insiti in quell’approccio, in termini di segmentazioni nel mercato del lavoro, di distorsioni nella scelta dei moduli organizzativi da parte delle imprese, di “complessificazione” delle regole, a beneficio dei consulenti ancor più che delle imprese.
Al di là di pregi e difetti delle singole previsioni della legge Biagi, la questione strategica è se quell’approccio non abbia fatto il suo tempo. Da questo punto di vista, non si tratta tanto di discutere se e quanto ridurre le singole flessibilità introdotte, quanto di stabilire come regolare il sistema. Più proficuo ed atto a evitare i problemi prima detti sarebbe i consentire la flessibilità, ma calmierandone l’uso con un costo aggiuntivo, ad esempio tenendo conto, in una logica assicurativa, del maggior ricorso ad ammortizzatori sociali che è insito nel lavoro a termine. O per venire ad un altro esempio, quello delle collaborazioni coordinate e continuative (che la legge Biagi ha cercato di comprimere e non ha certo ampliato), il quesito è se sia più proficuo dettagliare le condizioni di esperibilità delle stesse, più o meno restrittivamente, o allineare i costi contributivi delle diverse modalità organizzative del lavoro, evitando un ricorso distorsivo alle collaborazioni e altre fattispecie, così affrontando anche la questione dell’inadeguatezza dei futuri trattamenti previdenziali dei cosiddetti parasubordinati.

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* Le opinioni qui espresse sono esclusivamente personali.

(1) Per l’esattezza della legge 30, detta anche legge Maroni, il rifiuto dell’attribuzione a Marco Biagi della paternità di quella legge essendo anch’esso parte dello scontro semantico tra le opposte coalizioni politiche. Se devo esprimere un parere, la polemica sul nome mi pare futile – perché la paternità di Marco Biagi né migliora e né peggiora la qualità della legge e questo era un concetto ben presente a un pragmatico come Marco Biagi – e pretestuoso – perché fattualmente molto della legge risale a proposte abbozzate da Marco Biagi, che però non ha potuto vedere quei dettagli finali che sono sempre decisivi.

(2) La tematica in questione è meglio trattata in S. Pirrone e P. Sestito, Disoccupati in Italia. Tra Stato, Regioni e cacciatori di teste, il Mulino, dedicato proprio all’interazione tra politiche attive e passive del lavoro ed alla trasformazione ed al ruolo dei servizi per l’impiego e che però contiene anche un capitolo dedicato alle tante fattispecie contrattuali toccate dalla legge Biagi.

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Sommario 2 maggio 2006

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  1. Gianluca Cocco

    Pur di fronte al problema dei conti pubblici appare paradossale l’attuale regime discriminatorio che preclude alle piccole imprese di accedere al sistema degli ammortizzatori sociali, appannaggio esclusivo delle imprese maggiori, dalle quali spesso dipendono le prime per via dei rapporti di sub-fornitura. In effetti una prima fonte di risparmio di risorse da re-distribuire potrebbe derivare dalla riduzione della precarietà. Precarietà che non deriva certo dalla legge Biagi, bensì dai precedenti interventi normativi, soprattutto ad opera del centro-sinistra. Quanto al mancato monitoraggio, non credo che questo possa correggere di molto un dato di dominio comune: i nuovi contratti della legge Biagi, ad eccezione del lavoro a progetto, non hanno avuto alcuna diffusione significativa. Lavoro in un centro per l’impiego e vedo decine di modalità di assunzione al giorno e degli inconcepibili contratti intermittenti e dei contratti di lavoro ripartito per fortuna non si vede l’ombra. Quanto alle collaborazioni, è vero che, introducendo il vincolo del progetto, nei propositi dei riformatori rientra il tentativo di arginare il fenomeno del mascheramento del lavoro subordinato, ma quest’ultimo risulta favorito da un dettaglio presente nelle relative norme: il riferimento all’orario di lavoro. E infatti il Consiglio di Stato lo scorso mese non ha potuto fare a meno di dichiarare irrilevante la previsione di un predeterminato orario di lavoro per i co.co.pro. Al di la di questo, anziché cercare di estendere le tutele dei dipendenti ai collaboratori con piccoli interventi periodici, bisognerebbe rendere le collaborazioni prerogativa dei professionisti e far rientrare nell’alveo del lavoro subordinato quei milioni di lavoratori dipendenti mascherati da autonomi. La flessibilità va regolata consentendo l’utilizzo di strumenti che riflettano effettive ed eccezionali esigenze delle imprese e dei lavoratori.
    Saluti
    Gianluca Cocco

    • La redazione

      1. Monitorare serve non solo a dire se questo o quello strumento della legge Biagi sia stato utilizzato (questo in parte lo si sa, anche se sulla base di dati episodici, sondaggi ed impressioni, non certo di un sistema organico e condiviso dalle parte che pure la legge prescriveva), ma anche ad evidenziare i problemi puntuali e specifici connessi con le politiche – la Biagi ma anche quelle pregresse – e comunque presenti nel mercato. Monitorare serve, o servirebbe, non per osannare o rigettare in blocco una data legge, ma per individuare gli specifici cambiamenti e miglioramenti. Questi poi possono esser più o meno radicali, ma comunque conoscere è essenziale per passare – per dirla con Tommaso Padoa Schioppa, neoministro dell’Economia, dalla politics (basata su slogans che semplificano la realtà e consentono all’elettore di schierarsi) alla policy (il dettaglio delle microcose da fare). Quali che siano le scelte sulla legge Biagi e su singoli suoi pezzi è perciò importante che una cultura del monitoraggio emerga in Italia.

      2. Sull’estensione degli ammortizzatori alle piccole imprese non posso che concordare, per ragioni di equità (ricordate nel suo commento) e di efficienza (evitare un mercato segmentato). La mia tesi è che non basti metter nel piatto più soldi – e i soldi disponibili sono pochi, come lei ricorda. Andrebbero riviste le regole, di funzionamento e di finanziamento (e qui risorse possono venire dal contrasto della precarietà). Un ruolo importante a mio avviso dovrebbero avere i servizi pubblici per l’impiego che in tutti i paesi del mondo servono per amministrare e controllare, contrastando abusi e derive “passive”, gli ammortizzatori sociali. Visto che opera in un CPI, dovrebe sapere che oggi tutto ciò non è nella mission del sistema ed è soprattutto a questa questione che ho dedicato un libro scritto assieme a S. Pirrone.

      3. Sulla regolazione delle flessibilità, mi pare di capire che abbiamo visioni differenti. Lei propugna una linea di migliore precisazione delle differeneze tra lavoro autonomo e subordinato (se capsico bene rafforzando il contenuto della legge Biagi). A me sembra che questa direttrice funzioni poco (su quanto avvenuto nel caso dei cococo la rimando ad alcune evidenze statistiche in una recentissima nota statistica del Ministero del Lavoro che trova on line). Al di là dei dettagli e del quanto si voglia, in questa opera di precisazione e delimitazione, essere restrittivi o liberisti, a me sembra poco efficace agire per tale via. Meglio agire anche e soprattutto per il tramite dei prezzi relativi, consentendo ma facendo pagare certe cose.

  2. Gianluca Cocco

    1) Monitoraggio: Non volevo sminuire l’importanza del monitoraggio, anzi ritengo utile, per quanto limitata dalle fonti, la sua attività in questo ambito. A tal fine è bene che gli osservatori regionali del mercato del lavoro e il SIL decollino in tutta Italia, al fine di superare i limiti non indifferenti delle altre fonti (Istat, Inps e DNA)
    2) Ammortizzatori sociali: E’ vero che ci sono degli abusi da parte di chi trova più conveniente rinunciare a dei periodi di occupazione per beneficiare degli ammortizzatori. Tuttavia non credo, viste la scarsità di opportunità di impiego e l’entità delle indennità, che questo comportamento sia sistematico o tale da incidere significativamente sulle casse degli enti assistenziali. Forse un modo per arginare questo “fenomeno” potrebbe essere quello di individuare delle regole che mettano in relazione la rinuncia ad una proposta di lavoro e la perdita del beneficio di alcuni ammortizzatori, sulla farsa riga di quanto avviene per la anzianità di disoccupazione.
    3) Co.co.pro.: Penso che il lavoro a progetto vada circoscritto per legge ai soli “professionisti” e sia ora di porre fine agli ampi abusi che la Legge Biagi, nonostante le dichiarazioni dei legislatori, non è riuscita a scongiurare. Quindi sono per una separazione netta tra lavoro autonomo e lavoro subordinato. La legge Biagi non rafforza questa distinzione: ha introdotto il vincolo del progetto e l’apposizione del termine, almeno presunto, per i co.co.pro., ma i datori di lavoro sono stati più bravi ad inventare i progetti e i lavoratori sono tacitamente ricattati, per cui non denunciano gli abusi. Inoltre, in essa si fa riferimento all’orario, che non costituisce più un elemento per configurare automaticamente un mascheramento del lavoro subordinato. In generale, invertire improvvisamente il liberismo imperante potrebbe rivelarsi poco efficace, per cui concordo con lei sull’utilizzo della leva degli incentivi e dei disincentivi, se è questo che intendeva.
    Saluti

  3. Alessandro Ferretti

    Concordo nel ritenere i servizi per l’impiego ancora in mezzo al guado, meno nel ritenerli sprovvisti di una mission pregnante. Da una recente analisi che ho condotto su alcune leggi regionali in materia di mercato del lavoro ho infatti trovato richiami puntuali al ruolo dei servizi pubblici per l’impiego. Quello che è assolutamente carente è una concreta azione nazionale, come affermato nella Raccomandazione del Consiglio del 22 luglio 2003 sull’attuazione delle politiche degli Stati membri a favore dell’occupazione (2003/579/CE), la quale mette di nuovo in risalto che “… sono rimasti indietro progetti di ampio respiro come la riforma del collocamento pubblico e la strategia per l’apprendimento lungo tutto l’arco della vita”. Non possiamo dimenticarci del fatto che il nostro Paese ha sempre speso molto poco per il collocamento: nel 1997, prima dell’avvio della riforma, la spesa raggiungeva lo 0,03% del PIL contro livelli da 5 a 10 volte superiori negli altri paesi europei (OECD 1999). Degli oltre 12 mila dipendenti del Ministero del Lavoro addetti al collocamento soltanto 6 mila (e non il 70%) sono stati trasferiti a regioni e province: molto meno di quanto previsto dal decreto e soprattutto per lo più con basse qualifiche professionali e un’elevata anzianità di servizio. Le regioni e le province, quindi, sono state costrette a inserire nuovo personale, ricorrendo spesso a contratti di consulenza e collaborazione e sfruttando le risorse della Misura A.1 dei POR Ob. 3 e con evidenti problemi futuri di stabilizzazione in assenza del FSE. Il confronto con gli altri paesi europei è però a dir poco impietoso: anche adottando come termine di riferimento la forza lavoro e non i disoccupati, in Italia gli addetti dovrebbero essere dei SPI dovrebbero essere almeno 23 mila per raggiungere il livello di Olanda e Spagna, 38 mila con riferimento al livello di Gran Bretagna e Danimarca e addirittura 57 mila considerando Germania e Svezia (OECD 1997).

  4. Francesco Pirone

    La questione della precarietà nel mercato del lavoro è qui affrontata in una logica tutta interna all’approccio che ha ispirato la legge 30. In questa ottica i nodi sono effettivamente (a) “come potenziare gli ammortizzatori sociali” (b) come “regolare le flessibilità”. Ma il punto non è affatto questo! La precarietà occupazionale è una condizione esistenziale non sostenibile (soprattutto quando non è scelta), quindi, il legislatore deve sicuramente puntare a regolare la flessibilità, ma ciò non è sufficiente perché l’obiettivo principale deve essere quello di limitarla. Questo significa anche non considerare la flessibilità una necessità del sistema socioeconomico. Al di fuori della necessità, infatti, la flessibilità va limitata e regolata e qui entrano in gioco gli ammortizzatori sociali che, per ragioni che riguardano il modello di welfare italiano note a tutti, hanno riguardato soltanto categorie particolare di cittadini, cioè i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato. Emerge quindi che più flessibilità occupazionale richiede un livello quantitativo e qualitativo maggiore di ammortizzatori sociali. Questo equivale a dire che lasciando maggiore spazio alle dinamiche competitive del mercato del lavoro, i rischi per la coesione sociale sono tali che è necessario elaborare un sistema più ampio e complesso di meccanismi di protezione sociale (di tipo redistributivo e, in ultima istanza, di solidarietà sociale). Purtroppo questo pezzo di ragionamento è stato completamente aggirato dai promulgatori della legge Biagi. Allora a “cosa fare della legge Biagi”?, la risposta potrebbe essere questa: andare ad un superamento sostanziale del mix normativo legge Treu/legge Biagi, con una serie di interventi che, nel corso della legislatura dovranno portare, in parallelo alla ricomposizione dello Stato sociale, ad un sistema di regolazione del mercato del lavoro che limiti i rischi di esclusione sociale e di incertezza esistenziale derivanti dalla precarietà occupazionale.

    • La redazione

      Il commento è tutto centrato sulla opposizione tra “regolare” e “limitare” la flessibilità. Il commentatore sostiene con forza che si debba limitarla la flessibilità (risalendo sino al pacchetto Treu, in qualche misura anch’esso da rigettare), perché il problema è quello della crescente precarietà. Ho due osservazioni da fare:
      1) il mio intervento era centrato cul “come” regolare, a fini di limitazione ma non solo, la flessibilità. La tesi che sostengo è che è preferibile usare leve economiche, non interventi iperregolativi sul cosa è lecito e cosa non è lecito poi magari aggirati de facto. In particolare sostenevo e sostengo che molte delle flessibilità introdotte sono andate più a vantaggio di consulenti ed esperti che delle imprese;
      2) concordo sulla importanza del tema precarietà. Attenzione però perché la percezione di precarietà è maggiore della precarietà effettiva (credo in ciò di concordare con un agile volumetto di Aris Accornero, ma un pò di evidenze sono anche in un mio libro) e ciò denota che mancano politiche di contrasto della precarietà (sostegno nel mercato ai lavoratori etc.). Bastasse abolire la precarietà per decreto sarebbe tutto più semplice, ma non credo sia così.

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