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Giornalisti, interessi e lettori

I rapporti tra giornalisti e proprietari dei mezzi di informazione sono un problema tanto importante quanto sottovalutato. Eppure basterebbe applicare il codice di autoregolamentazione, varato in base alle direttive comunitarie sulla trasparenza e l’informazione nei mercati finanziari. Prevede che il lettore sia sempre informato sulla struttura proprietaria dell’impresa editoriale affinché possa valutare ciò che legge con maggiore consapevolezza. E forse contribuirebbe a migliorare il non molto lusinghiero giudizio straniero sulla situazione dei nostri media.

Nella discussione seguita all’’articolo con il quale il direttore del Corriere della Sera si è schierato nella competizione elettorale, c’è stata qualche velenosa polemica da parte di chi ha intravisto, dietro un gesto di correttezza nei confronti dei lettori, un’’abile manovra funzionale agli interessi di una banca azionista del giornale. Sebbene le riconosciute qualità del direttore e la smentita della banca liberino il campo da ogni possibile e lontano sospetto, la polemica, per quanto chiaramente strumentale, ha il merito di richiamare un problema: i rapporti tra i giornalisti e i proprietari dei mezzi di informazione, tanto importante quanto frequentemente sottovalutato.

Libertà e proprietà

È evidente che l’’indipendenza dell’’informazione trova il suo primo ed essenziale fondamento nella integrità e nella autonomia di chi la produce, e cioè del giornalista. Ma è altrettanto evidente che gli assetti proprietari delle imprese possono oggettivamente rappresentare un fattore di condizionamento.
E in un contesto come il nostro, dove ai ben noti e clamorosi conflitti di interesse si aggiunge una diffusa presenza di banche e altre imprese nella proprietà dei mezzi di informazione, è sotto gli occhi di tutti il pericolo che i commenti, le notizie, le modalità con le quali vengono date, o la reticenza, possano essere il frutto di scelte attente agli interessi della proprietà più che a quelli dei lettori.
La pluralità, la concorrenza e la moltiplicazione delle fonti informative, rappresentano sicuramente una garanzia per la libertà di critica e opinione, ma non sono un anticorpo sufficiente a evitare questo pericolo.
Sono state, così, avanzate numerose proposte come quella, rilanciata recentemente in un’’intervista dal direttore del Sole-24Ore, di vietare alle banche l’azionariato in imprese editoriali oppure di creare un filtro tra i proprietari e le redazioni giornalistiche costituito da una fondazione. Anche la quotazione in Borsa potrebbe rappresentare un contributo a una più accentuata trasparenza delle gestioni delle imprese editoriali.
Ma non vi è dubbio che se i divieti di partecipazione appaiono difficilmente compatibili con il riconoscimento e la tutela dell’’autonomia imprenditoriale (perché le banche no, e un’’impresa di costruzioni o industriale sì?), i filtri, per quanto utili, non avranno mai maglie sufficientemente strette da impedire possibili ingerenze.

Un rimedio semplice

Fermo restando che non esistono e non esisteranno mai garanzie assolute della obiettività dell’’informazione, bisogna chiedersi il motivo per il quale, al posto di pensare a nuovi divieti e vincoli, non vengono sfruttati quegli strumenti che l’’ordinamento mette a disposizione, strumenti forse più semplici, ma probabilmente anche molto più efficaci.
Recentemente, e per adempiere alle prescrizioni delle direttive comunitarie sulla trasparenza e l’’informazione nei mercati finanziari, i giornalisti hanno adottato una “Carta dei doveri dell’’informazione economica”.
Si tratta di un codice di autoregolamentazione che detta specifici obblighi di comportamento. Una clausola, per esempio, prevede che “il giornalista, tanto più se ha responsabilità direttive, deve assicurare un adeguato standard di trasparenza sulla proprietà editoriale del giornale e sull’’identità e gli eventuali interessi di cui siano portatori i suoi analisti e commentatori esterni, in relazione allo specifico argomento dell’articolo. In particolare, va ricordato al lettore chi è l’’editore del giornale quando un articolo tratti problemi economici e finanziari che direttamente lo riguardino o possano in qualche modo favorirlo o danneggiarlo”. L’’obiettivo è in sostanza quello di non limitare la libertà del giornalista negli argomenti da trattare o nei commenti da pubblicare, ma di far sì che il lettore sia sempre informato sulla struttura proprietaria dell’’impresa affinché possa con maggiore consapevolezza valutare e percepire ciò che legge.
È una norma non certo imposta da un occhiuto e invadente legislatore, ma adottata in assoluta autonomia dagli stessi giornalisti, che, però, almeno a quanto si legge su quotidiani e a quanto si vede in televisione, non sembrano proprio applicarla con il dovuto rigore.
In fin dei conti, si tratta di un banalissimo obbligo di trasparenza, che potrebbe essere esteso anche al di là dell’’informazione economica, e che ogni testata potrebbe adempiere dedicando un piccolo spazio per pubblicizzare i propri azionisti.

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Civiltà e trasparenza

Non bisogna farsi illusioni: non si tratta di una panacea contro tutti i rischi di conflitti di interesse, ma un lettore che accanto all’articolo che esalta i bilanci di un’’impresa sa anche che quell’’impresa è azionista del giornale, o che legge un’’intervista a un industriale o a un banchiere consapevole della sua posizione nella governance della testata, sarà sicuramente un lettore più maturo, attento e selettivo.
E vi immaginate quale piccolo, ma significativo contributo di civiltà e trasparenza potrebbe dare all’’immenso popolo televisivo un giornalista che ogni giorno dedica dieci secondi per comunicare qual è l’’azionista di riferimento del proprio telegiornale?

Come gli stranieri valutano la libertà di stampa in Italia, di Lorenzo Ansaloni

La vera libertà di stampa è dire alla gente ciò che la gente non vorrebbe sentirsi dire“, scriveva George Orwell.

Il tema della libertà di stampa spesso accende gli animi, in particolar modo all’’approssimarsi delle elezioni politiche. Se ne parla, se ne discute, ma sovente questo accapigliarsi si ferma a un superficiale scontro di mere opinioni o evidenze che non a tutti sembrano evidenti.
Prendendo in considerazione una serie di documenti ufficiali di organi o istituzioni autorevoli ho cercato di ricostruire un punto di vista diverso: quello di che vede l’’Italia come un paese straniero.

Dicono di noi

Reporters sans frontiers

è un’’associazione che da diciotto anni si occupa di difendere la libertà di stampa e su questo ogni anno pubblica un rapporto. Il rapporto 2005 vede l’’Italia al quarantaduesimo, dietro il Costa Rica, ultima tra le nazioni dell’’Europa occidentale e considerata solo “parzialmente libera”.
La Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite nel 1993 decise di istituire la figura del “Special Rapporteur” al fine di promuovere e proteggere il diritto alla libertà di espressione. Il 18 marzo 2005, a Ginevra, è stato reso noto il rapporto sulla situazione nel nostro paese. Vengono distinti tre diversi problemi che caratterizzano nel loro insieme l’’anomalia italiana: a) la concentrazione dei media; b) il conflitto d’’interesse del primo ministro; c) il forte controllo politico da sempre esercitato sulla Rai.
L’’International Press Institute è un network globale di editori, media e giornalisti che ha membri in centoventi paesi nel mondo. Svolge un ruolo consultivo per l’’Onu, l’’Unesco e il Consiglio europeo. Nel “World Press Freedom Review”, del 2004, leggiamo: “Per quanto riguarda la libertà dei media, l’Italia ha un posto speciale in Europa in quanto in nessun altro paese il primo ministro, capo del Governo, (…) possiede la maggior parte degli altri media televisivi e molti dei quotidiani nazionali”.
L’’European Federation of Journalists è la più grande organizzazione giornalistica in Europa. Nel rapporto “Crisis in Italian Media: How Poor Politics and Flawed Legislation Put Journalism Under Pressure” leggiamo: “È impossibile non concludere che in Italia la crisi dei media sia seria e profonda. C’’è un sistema di gestione profondamente sbagliato, una carenza di consapevolezza pubblica, un elemento di paralisi politica e una seria preoccupazione tra i giornalisti italiani sul futuro dei media”.
Freedom House è un’’associazione no profit fondata più di sessanta anni fa a difesa della libertà di stampa. Nel rapporto 2004 l’’Italia è al settantaquattresimo posto, ultima tra le nazioni dell’’Europa occidentale, preceduta da paesi come Ghana e Papua Nuova Guinea e considerata solo “parzialmente libera”.
Il 7 giugno 2005 l’’Ocse pubblica un’’analisi dal titolo: “Visit to Italy: The Gasparri Law”, accolto da un silenzio quasi totale. Non solo è un esame della legge Gasparri, ma un’’ottima ricostruzione storica di quella che viene chiamata “Italian anomaly“. Sanziona l’’incompatibilità d’’interessi del primo ministro: “In una democrazia è incompatibile avere sia il controllo dei telegiornali che occupare un posto pubblico”. Riconosce alcuni meriti e innovazioni nella legge Gasparri, ma avverte che “probabilmente non risolverà l’anomalia italiana”.
Il Parlamento europeo ha approvato (22 aprile 2004) il testo del rapporto “Relazione sui rischi di violazione, nell’Unione Europea, e particolarmente in Italia, della libertà di espressione e di informazione”. Valga il seguente stralcio a titolo di esempio: “Uno dei settori nel quale più evidente è il conflitto di interessi è quello della pubblicità, tanto che il gruppo Mediaset nel 2001 ha ottenuto i 2/3 delle risorse pubblicitarie televisive, pari ad un ammontare di 2500 milioni di euro, e che le principali società italiane hanno trasferito gran parte degli investimenti pubblicitari dalla carta stampata alle reti Mediaset e dalla Rai a Mediaset”, (pagina 17).
International Helsinki Federation for Human Rights (Ihf) pubblica ogni anno un rapporto generale sul rispetto dei diritti umani. Per quanto riguarda l’’Italia leggiamo: “Le principali preoccupazioni per quanto riguarda il campo della libertà d’informazione, sono l’’alto livello di concentrazione e controllo governativo sopra radio e televisioni pubbliche (…)”.
Il Consiglio d’’Europa è la più vecchia organizzazione politica del continente. Il 3 giugno 2004 pubblica un dossier dal titolo: “Monopolisation of the electronic media and possible abuse of power in Italy” a cui fa seguito la “Resolution 1387”. L’’incipit del rapporto dà un’idea dei contenuti: “La concentrazione in Italia del potere politico, economico e mediatico nelle mani di una persona, il primo ministro Silvio Berlusconi, è riconosciuta come un’’anomalia in tutto lo spettro politico”.
L’’11 ottobre 2005 l’’Eumap pubblica un autorevole studio dal titolo “Television Across Europe: Regulation, Policy, and Independence”. L’’analisi complessiva è suddivisa in tre volumi. Il quadro dedicato all’’Italia ribadisce: “La eccezionale concentrazione che caratterizza il settore del broadcasting italiano, il pasticcio creato dalla collusione tra media e sistema politico, e l’’eccessiva attenzione del Governo alla gestione del servizio pubblico non sono soltanto “anomalie italiane”. Questi problemi rappresentano una minaccia potenziale alla democrazia stessa (…)”. E per concludere: “In particolare la Rai è legata a doppio filo al potere politico. Il “contratto di servizio” che essa sottoscrive con il Governo la obbliga ad una serie di comportamenti (…) nella pratica rispondono (…) alle logiche della “lottizzazione” (…)”.
Nel settembre 2002 la Commissione europea crea una network di esperti in diritti umani. Dall’’ultimo rapporto annuale si apprende che: “La prestazione complessiva dell’’attuale sistema televisivo italiano non sembra riflettere il significativo ruolo di “controllo e verifica” che tradizionalmente viene attribuito ai media in una democrazia avanzata e la legge n. 112 del 2004 (NdT, legge Gasparri) sembra allontanare il sistema da questo obiettivo, sebbene una valutazione completa sia da rimandarsi fino alla sua effettiva applicazione” (pagina 43).

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  1. dino benetollo

    In italia è merce rarissima il giornalista indipendente.L’editore puro non quì esiste ne a dx ne a sx.I giornali cosidetti “liberi”guardacaso sono quasi tutti “orientati”verso una parte politica.Rimpiangiamo sempre più il Montanelli del Giornale.Non parliamo del Corriere di Mieli perchè,con la sua direzione ed il beneplacito della proprietà da quotidiano ,da taluni ritenuto indipendente,é ora un giornale schierato in linea con Repubblica,Unità etc…Del corriere sono ora un ex lettore ma buon per me sono ora avido lettore di Topolino(in mancanza di meglio!)Almeno a queste FAVOLE posso anche crederci.

    • La redazione

      La ringrazio, ma non condivido il suo pensiero. Se un giornalista è “libero”, come lei dice, non trovo niente di male che dica da che parte è orientato, anzi fa un’operazione di trasparenza nei confronti dei lettori. Il senso dell’articolo è proprio quello di favorire una analoga trasparenza degli assetti azionari delle testate per prevenire il sospetto che le opinioni siano condizionate da interessi economici. E, a proposito di Topolino, a chi appartiene la testata?

  2. Guido Di Massimo

    Il problema che Lei richiama è importante e andrebbe affrontato con decisione, ma un codice di autoregolamentazione difficilmente raggiungerebbe lo scopo. L’adeguatezza di un “adeguato standard di trasparenza sulla proprietà editoriale del giornale e sull’identità e gli eventuali interessi di cui siano portatori i suoi analisti e commentatori esterni, in relazione allo specifico argomento dell’articolo» penso sarebbe troppo soggettiva; e ricordare di volta in volta “al lettore chi è l’editore del giornale quando un articolo tratti problemi economici e finanziari che direttamente lo riguardino o possano in qualche modo favorirlo o danneggiarlo” lo trovo poco agevole.
    Non sarebbe molto più semplice che ogni giornale, accanto alle indicazioni di legge su chi è il direttore responsabile indicasse la composizione della proprietà? – meglio ancora se queste indicazioni fossero riportate sotto la testata, come si fa per i giornali di partito che sotto la testata riportano la dicitura “organo del partito tal dei tali”.
    E considerando poi che, se la proprietà può influire nella possibile autocensura di un giornalista, i suoi orientamenti politici ed i suoi eventuali legami politici e sindacali influiscono sulla propria sensibilità ai problemi che tratta, non vedrei male che ogni giornale riportasse l’elenco dei propri giornalisti con accanto ad ognuno informazioni sulla iscrizioni a partiti, associazioni politiche e sindacati. Per la televisione una tabella simile potrebbe essere presente in una pagina del televideo.
    Mi rendo conto della quasi assurdità di questa seconda parte della proposta (in pratica solo provocatoria) e che essa contrasta decisamente con la riservatezza (quella che chiamano privacy), ma forse il principio della trasparenza, per chi fa certi lavori, dovrebbe essere superiore a quello della riservatezza.
    Ma con una tale trasparenza ne vedremmo delle belle!!

    Saluti cordiali. Guido Di Massimo

    • La redazione

      Grazie delle osservazioni e concordo con Lei sulla utilità di una indicazione generale sugli assetti proprietari delle testate (e ribadisco, anche quelle televisive).
      Ho qualche perplessità, invece, sulla proposta relativa alle indicazioni sulla iscrizione ai partiti. E’, infatti, cosa completamente diversa dalla informazione sull’azionariato del giornale, e attiene alle libere scelte politiche dei giornalisti che in questo modo rischierebbero di essere limitate.

  3. Roberto Seghetti

    No, non basta il chiarimento sugli interessi dell’editore. La Fnsi, Federazione della stampa, il sindacato dei giornalisti, ha per questo motivo preparato una possibile proposta di legge sullo statuto dell’impresa dell’informazione. Per questa proposta si è preso spunto anche dalla market abuse, dalla divisione obbligata tra chi produce prodotti di risparmio e chi li colloca. E ci si è chiesti: perché per il risparmio è possibile e si pensa che funzioni e per l’informazione no? Allora: separare la responsabilità della conduzione economica, della pubblicità e del marketing dell’impresa dalla conduzione della testata. Con paletti e sanzioni basate sulla pubblicità degli errori o delle forzature. Il testo è a disposizione.

    • La redazione

      La ringrazio delle indicazioni. Non sapevo dell’esistenza di questa “possibile proposta” e cercherò di procurarmi il testo. Ho però una semplice e banale osservazione. Fermo restando che la trasparenza sugli assetti azionari non rappresenta certo, come dicevo anche nell’articolo,una panacea contro tutti i rischi di conflitto di interessi, prima di pensare a nuove leggi non si può , almeno, applicare quelle misure che già ci sono e che gli stessi giornalisti hanno adottato in via di autoregolamentazione?

  4. Antonio Bottoni

    Credo utile rilevare che non sempre i giornalisti hanno cultura economica. Due esempi: Ferrara sulla 7 si è limitato a non commentare il cosidetto cambio a 1500 per un euro dichiarandosi non esperto in economia; Sansonetti nel confronto con Berlusconi in un recente Omnibus si è dichiarato non preparato anche lui in economia.

  5. Lorenzo Sandiford

    Mi sembra una buona proposta e semplice da realizzare, al contrario di quanto sostiene uno dei commenti precedenti. E mi è già capitato di leggere “disclosures” di quel tipo in alcuni articoli di varie testate, così come ne trovo costantemente in numerose newsletter finanziarie estere. Non mi sembra ragionevole non fare nulla con la giustificazione che non si tratta di misure perfette e che non offrono garanzie assolute.
    Il fatto che questa misura non sia sufficiente, come riconosce lo stesso Vella, non significa che non sia utile e necessaria.
    Del resto non mi sembra sufficiente nemmeno lo statuto dell’impresa editoriale, se non altro perché già esistono in molte testate nette separazioni tra pubblicità e redazione giornalistica, e questo non impedisce il manifestarsi di sudditanze e faziosità. Ma anche in questo caso sarebbe una misura utile.
    E mi sembra altrettanto utile la proposta di un precedente commentatore di disvelare le eventuali iscrizioni a partiti e sindacati o conflitti d’interessi d’altro genere dei giornalisti. Lo so che in Italia è un tabù parlare di ciò e che l’influenza di un partito è in effetti meno forte della sudditanza verso la proprietà (da cui dipende la sopravvivenza del giornalista), ma non vedo come la trasparenza anche in questo ambito possa intaccare la libertà del giornalista. Infatti, per prima cosa, bisogna distinguere il libero orientamento politico o la partecipazione a manifestazioni dalla vera e propria iscrizione a un partito, che sono due cose completamente diverse. E, secondariamente, il dichiarare la propria appartenenza non impedisce assolutamente al giornalista di fare il proprio dovere e restare indipendente, come dimostrano alcuni grandi nomi del giornalismo italiano. Se poi un giornalista preferisce non avere etichettature, è bene che non si iscriva a partiti: nessuno per questo gli impedirà di votare e partecipare a manifestazioni politiche.

    Lorenzo Sandiford

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