Lavoce.info

Idee per lo sviluppo nelle due coalizioni

I tre zeri nella crescita del Pil, della produttività e delle ore lavorate nel 2005 hanno messo in evidenza quanto sia urgente il ritorno alla crescita per l’economia italiana. I programmi delle due coalizioni per le elezioni 2006 presentano rilevanti differenze nelle ricette su come rilanciare lo sviluppo. Ma, più che in altri campi, sulle terapie per ritornare a crescere si possono anche individuare convergenze. Per esempio, ci si può aspettare da chiunque vinca un perfezionamento delle misure di liberalizzazione del mercato del lavoro.

I tre zeri nella crescita del Pil, della produttività e delle ore lavorate nel 2005 hanno messo in evidenza quanto sia urgente il ritorno alla crescita per l’economia italiana. Diversi su tutto il resto o quasi, i programmi delle due coalizioni per le elezioni 2006 presentano rilevanti differenze anche nelle ricette su come rilanciare lo sviluppo. Ma, più che in altri campi, sulle terapie per ritornare a crescere si possono anche individuare convergenze.

 

Le differenze

 

Le due coalizioni hanno visioni piuttosto differenti su come rilanciare la crescita economica.

Le idee della Casa delle libertà sul rilancio della crescita sono state spesso descritte in pubblico con grande efficacia dal ministro Tremonti. Alcune sono incorporate nelle Finanziarie del 2001-06; altre sono contenute nell’apodittico programma elettorale della Cdl. L’idea guida è, però, riassumibile in una semplice frase: ridurre le imposte. Nella Finanziaria 2006, sono state abolite le tasse sui brevetti (dopo che il ministro Siniscalco le aveva aumentate). Negli anni precedenti, furono ridotte le imposte sui redditi personali e furono introdotti crediti d’imposta temporanei sugli investimenti in macchinari delle imprese e sulle spese in ricerca e sviluppo. Per il futuro, la Cdl propone di detassare gli utili reinvestiti in attività produttive non meglio specificate, oltre che misure di semplificazione degli adempimenti fiscali per giovani e anziani imprenditori e, a completamento di alcune misure della Finanziaria 2006, per le imprese agglomerate nei distretti.

 Nel voluminoso programma del centrosinistra, alla riduzione delle imposte complessive non è attribuito un ruolo fondamentale. Le riduzioni di imposta di cui si parla (in particolare quella sul cuneo fiscale) sono soprattutto manovre di mutamento della struttura dell’imposizione: dal reddito da lavoro a quello da capitale. Il ritorno alla crescita economica è associato a una restituzione di centralità alle scelte di politiche industriale, che comincia con l’idea di riequilibrare le attribuzioni del ministero dell’Economia e di quello oggi denominato “delle Attività produttive” in favore del secondo. La “nuova” politica industriale avrebbe due obiettivi principali: individuare pochi settori strategici su cui indirizzare i pochi soldi pubblici disponibili per la ricerca di base, possibilmente all’interno di progetti dell’Unione Europea, e, dall’altra, aiutare le imprese italiane a innovare per competere con una pluralità di strumenti automatici e permanenti crediti di imposta, sussidi all’assunzione di giovani ricercatori e al venture capital. Dunque, politica industriale sì, ma non dirigistica.

 

Le idee comuni

 

Su almeno un punto, i programmi delle due coalizioni presentano una rilevante somiglianza: il loro obiettivo della prima parte della prossima legislatura è far aumentare il reddito pro-capite seguendo la strada “spagnola”, con l’aumento delle ore lavorate, e non quella “finlandese”, basata soprattutto sull’aumento della produttività.

La ragione è semplice e plausibile. Da qualche anno la produttività cresce poco o niente nell’economia italiana. Ma le misure necessarie per farla aumentare su un più lungo orizzonte di tempo richiedono qualche anno per diventare efficaci. (1) Quindi, le due coalizioni fanno bene a non promettere un ritorno alla crescita basato su un rapido boom di produttività, perché è un’eventualità improbabile.

È invece più semplice pensare a far aumentare l’occupazione e le ore lavorate, l’altra fonte di crescita del Pil. Si tratta sostanzialmente di continuare le politiche iniziate dal centrosinistra nel 1997-98 e proseguite dal centrodestra con l’approvazione della legge Biagi nella seconda parte della legislatura. Nel complesso, a dispetto dei rischi di precarizzazione, (2) si sono associate a un aumento sensibile delle ore lavorate totali dagli italiani: +1 per cento l’anno circa nel 1995-2004, un risultato impensabile dieci anni fa. Nei programmi delle due coalizioni sono perciò contenute misure come la prosecuzione della riduzione del cuneo fiscale (più limitata quella proposta dal centrodestra, più marcata quella del centrosinistra). Poi c’è la de-tassazione integrale degli straordinari (è nel programma del centrodestra, ma una misura simile era allo studio anche nell’ala riformista del centrosinistra) e la progressiva riduzione dell’Irap (la misura più probabile è l’esclusione del costo del lavoro dal calcolo della base imponibile della tassa).

 

Valutazione

 

L’esperienza degli ultimi anni ci suggerisce che non è rimasta una traccia particolarmente evidente delle riduzioni di imposta del Governo Berlusconi nei dati di contabilità nazionale. È parzialmente dipeso dal fatto che una loro parte consistente è stata finanziata in deficit, il che ne ha accresciuto la percezione di temporaneità per famiglie e imprese. (3) Inoltre, alcune delle riduzioni, come la Tremonti-bis e la Tecno-Tremonti, erano misure di carattere temporaneo adottate nella convinzione che l’economia si trovasse in una temporanea situazione di rallentamento. Quando se ne è esaurita l’efficacia dell’applicazione mentre in parallelo l’andamento negativo dell’economia perdurava, è arrivato anche il calo degli investimenti che erano stati anticipati per approfittare degli sgravi.

È dunque una buona idea provare a dare maggiore stabilità alle varie forme di incentivazione all’attività innovativa delle imprese, come vuole fare il centrosinistra. Si deve però ricordare che, come indica l’evidenza empirica degli altri paesi, l’efficacia degli strumenti di incentivazione e di detassazione per rilanciare l’attività innovativa è incerta. Se la domanda di innovazione è poco elastica rispetto al costo (perché contano altri elementi diversi dal costo, come il grado di concorrenzialità dei mercati o il livello di istruzione dei lavoratori), allora è meglio non aspettarsi un forte effetto addizionale di rilancio nemmeno da incentivi permanenti, almeno fino a che le riforme strutturali non avranno sortito i loro effetti.

Indipendentemente da chi vinca le elezioni, però, ci si può aspettare un perfezionamento delle misure di liberalizzazione del mercato del lavoro. Quanto riusciranno a far crescere il Pil in assenza di un recupero di produttività è incerto. A meno di un boom “spagnolo” del mercato del lavoro italiano (o di un’esplosione della crescita nell’economia tedesca), il Pil italiano non potrà crescere molto più dell’1 per cento l’anno nel prossimo futuro. Certamente, però, il fatto che esista un sostanziale consenso bipartisan su alcune linee di fondo di politica economica è una buona notizia per l’economia italiana e per le sue prospettive di crescita di più lungo periodo.

 

 

(1) Queste misure sono riforme scolastiche e dell’università in senso meritocratico, liberalizzazione dei mercati dei beni e dei servizi che facilitino le riorganizzazioni aziendali e la diffusione delle nuove tecnologie.

 (2) Vedi i recenti articoli di Boeri-Garibaldi, Ichino e altri su lavoce.info per una discussione più approfondita delle rilevanti differenze tra le due coalizioni su questi temi.

 (3) In un articolo di un paio d’anni fa su lavoce.info, Veronica De Romanis e io avevamo quantificato che una riduzione delle imposte di un punto percentuale faceva aumentare la crescita del Pil potenziale di circa un quarto di punto percentuale l’anno se finanziato con riduzioni di spesa, ma solo della metà se finanziato in deficit.

Leggi anche:  Aziende sulle piattaforme digitali: il rischio della dipendenza

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Sanità oltre la Nadef

Precedente

I tempi della Relazione

Successivo

Informazione, media, televisione visti da Cdl e Unione

  1. Rinaldo Sorgenti

    Devo confessare di aver trovato alquanto confusa l’analisi proposta.
    Secondo me, una delle ragioni fondamentali per la sostanziale “stagnazione” che abbiamo avuto in Europa (e non solo in Italia) negli ultimi 3 anni è dovuta alla iper valutazione dell’Euro rispetto al Dollaro, cresciuta di oltre il 50%!
    Se la BCE e chi l’ha inventata non interviene per avviare una seria politica monetaria, l’Europa non uscirà da questo tunnel.
    Ricordate:
    2003 = 1 Euro pari a 0,80 Dollari
    2006 = 1 Euro pari a 1,21 Dollari
    Con quale valuta avvengono i maggiori scambi commerciali nel Mondo?
    Circa l’occupazione, mi pare ci sia una bella differenza tra i risultati del centrodestra e quelli del centrosinistra, peraltro in un periodo di espansione economica mondiale.

    • La redazione

      Non è vero che la stagnazione è un fenomeno europeo. se ha voglia si legga la tabella nel mio articolo “E’ l’italia che va male non l’europa” (su lavoce.info di quasi un anno fa) o qualsiasi altra fonte. i dati dell’articolo sono di fonte OECD, non li ho inventati io. negli ultimi anni in europa male
      come l’italia è andata solo la germania, che però nell’ultimo anno sta andando molto meglio.
      L’apprezzamento dell’euro può contribuire a spiegare la minor crescita dell’area euro rispetto agli usa, non quella dell’italia rispetto all’area euro.
      Cordiali Saluti
      Francesco Daveri

  2. luca

    Cari commentatori, dal basso delle mie conoscenze economiche vorrei far notare che dalla cosiddetta lotta all’evasione fiscale, considerata ormai da tutti alla stregua di una barzelletta, si potrebbe ricavare ogni anno come gettito l’equivalente di due normali manovre finanziarie. Ci si rende conto che al netto di tutte le spese necessarie per attuarla (facciamo conto 1 manovrina) lo Stato italiano avrebbe l’equivalente di una manovra finanziaria già in tasca e senza la necessità di chiederne un’altra ai cittadini per fare assestare l’economia?? Si tratta di cifre enormi che lo stato potrebbe dare alle imprese che accettassero di aumentare considerevolmente il salario dei propri dipendenti. A mio modesto avviso è solo con l’aumento del salario che l’economia puòripartire. Se si da ai dipendenti un salario di sopravvivenza e avolte nemmeno quello, come pretendiamo che questi asquistino beni ulteriori rispetto al minimo indispensabile per arrivare alla fine del mese? D’altronde basta ricordare le parole proferite dal grande Valletta più di 50 anni fa “se noi diamo ai nostri dipendenti uno stipendio troppo basso, lo spiazzale di Mirafiori continuerà a restare pieno di automobili!” Quindi i nostri imprenditori,a cui piace tanto andare all’estero a comprare manodopera a basso costo,non si lamentino se poi immettendo quei beni prodotti dove i costi sono più convenienti nel mercato italiano questi non trovino acquirenti. è solo la logica conseguenza di un salario italiano troppo basso che non da possibilità di fare molto altro che sopravvivere.

    • La redazione

      La sua idea è che imprese e sindacati si mettano d’accordo per un aumento del salario che faccia salire il potere d’acquisto di tutti i lavoratori. E’ una buona idea in un’economia chiusa come era l’Italia negli anni cinquanta o gli
      Stati Uniti ai tempi di Henry Ford. Oggi, in un’economia che subisce la concorrenza internazionale, il rischio è di perdere competitività. il progetto però diventa praticabile se l’aumento dei salari si associa a un piano di guadagni di produttività o di aumento di ore di lavoro.

  3. Alessandro

    Gentile prof. Daveri,
    approfitto di questo suo intervento per rivolgerLe una domanda (forse neanche centratissima rispetto a questo articolo).
    La diffusione del Factbook 2006 dell’OECD ha scatenato sui giornali italiani (sole 24 ore in testa) reazioni allarmate circa l’andamento della CRESCITA della produttività del lavoro e del tfp, addirittura diminuiti in Italia negli ultimi 8 anni (peggiore performance nell’area OECD).
    Non reputa che sia tipico di un catastrofismo italico (talora frutto di ignoranza, ma talora ideologico) il non guardare anche al fatto che quanto a LIVELLI di produttività, secondo la stessa OECD, l’Italia nel 2004 era davanti (per esempio) a Giappone, Canada e Australia?
    Questa considerazione, naturalmente, non elimina l’urgenza delle misure a sostegno della produttività quali quelle da Lei indicate.
    Tuttavia non Le pare, in generale, che guardare al complesso dei dati disponibili (e non a una sola parte) sia l’unico approccio che può portare a soluzioni di policy realmente di successo?
    grazie

    • La redazione

      Nel dibattito economico e politico si dà più importanza ai tassi di crescita anziché ai livelli perchè spesso ci si fa domande sul futuro (che è determinato dai tassi di crescita attuali e di domani) anzichè sul passato (che è riassunto
      nei livelli delle variabili e dipende dai tassi di crescita del passato).
      C’è poi da dire che confrontare il livello della produttività del lavoro per l’intera economia tra paesi è un’impresa molto rischiosa e soggetta a terribili errori di misurazione dovuti alle oscillazioni del cambio, il ruolo del settore pubblico (per cui non si può misurare la produttività) e così via. L’OCSE lo fa
      nel migliore dei modi, cioè correggendo i dati per la parità dei poteri di acquisto, ma anche così molti problemi di misurazione rimangono. meglio è confrontare la produttività dei vari paesi in specifici settori come fa la McKinsey.

  4. Massimo Marnetto

    L’area del precariato va ridotta, perché questa overdose di co.co.pro. “a oltranza” frena lo sviluppo.
    Occorre avviare una forte azione di conversione dei contratti verso forme progressive di stabilità, fino all’assunzione a tempo indeterminato.
    Infatti, quando un lavoratore esce dal suo posto di lavoro, diventa un consumatore ed è tanto più contratto nei consumi, quanto più è insicuro del suo reddito.
    La stabilità del lavoro è alla base della pianificazione dei consumi e quindi presenta un alto indice di correlazione con la crescita della domanda interna.
    Ma spesso questa “circolarità” di status lavoratore-consumatore è poco analizzata.
    Massimo Marnetto

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén