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Clima di allarme

A pochi giorni dal primo anniversario della entrata in vigore del Protocollo di Kyoto, il negoziato sui cambiamenti climatici fa un passo avanti e uno indietro. Il giudizio degli osservatori ricorda la storia del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Intanto, si moltiplicano gli allarmi e si considerano le possibili soluzioni. D’altra parte, non è facile trovare un’intesa sulle emissioni nocive. I costi di una loro riduzione sono vicini e certi, i benefici sono lontani e incerti. La spaccatura verte essenzialmente sul dilemma “vincoli sì-vincoli no”.

Si moltiplicano i segnali e le grida di allarme sui pericoli dei cambiamenti del clima. Queste preoccupazioni sembrano finalmente avere lasciato l’ambito degli addetti ai lavori per approdare ai grandi organi di stampa. Oltre alle pubbliche opinioni, tocca ora ai governanti mostrare non solo che hanno recepito il messaggio, ma anche che intendono muoversi per contrastare concretamente il fenomeno. E su questo, almeno chi scrive, continua ad avere qualche perplessità.

Gamberi o tartarughe?

Europa continua a essere l’unica regione del mondo al di sopra di ogni sospetto. Ci eravamo lasciati con il summit di Gleneagles e l’annuncio della costituzione del Partenariato Asia-Pacifico. George W. Bush aveva conquistato il palcoscenico scozzese con l’irresistibile dichiarazione che sì, vi è probabilmente una responsabilità dell’uomo nelle alterazioni del clima. Per alcuni osservatori questo fatto decretava il successo del summit. Un passo avanti compiuto. A noi ricordava piuttosto la storia del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Prima di Gleneagles, quanti passi indietro aveva fatto il negoziato?
Intanto, la zelante Europa si preparava per Cop-11, l’annuale appuntamento dei paesi firmatari del Protocollo di Kyoto a Montréal in Canada, delineando la propria strategia per il cosiddetto “post-Kyoto“, quello che si dovrebbe fare dal 2012.
L’obiettivo diviene quello di contenere il riscaldamento globale entro +2˚C rispetto all’epoca preindustriale, corrispondente a una riduzione delle emissioni di gas-serra di almeno il 50 per cento rispetto al 1990 da attuarsi entro il 2050. Può essere utile ricordare che Kyoto prevede nel periodo 2008-2012 una riduzione pari al 5,2 per cento. Il traguardo dovrebbe essere raggiunto con il concorso di tutti i paesi, sviluppati e non, facendo ricorso ai meccanismi flessibili per minimizzare i costi di tale sforzo, e dando un forte impulso all’innovazione tecnologica in Europa per contenere le ripercussioni negative sulla competitività delle imprese.
Ma prima di approdare nella metropoli canadese i fan del Protocollo di mezzo mondo venivano gettati nello sconforto da alcune dichiarazioni proprio di Tony Blair. A un vertice di ministri dell’energia e dell’ambiente convenuti a Londra l’1 novembre 2005 per il primo dei Dialoghi sui cambiamenti climatici, energia pulita e pviluppo sostenibile promossi a Gleneagles, il primo ministro inglese affermava che obiettivi vincolanti di riduzione delle emissioni rendono la gente “molto nervosa e molto preoccupata”. E che “la cruda verità a proposito della politica del clima è che nessun paese sarà disposto a sacrificare la propria crescita economica per questo obiettivo”. Il suo riferirsi allo sviluppo di nuove tecnologie da parte del settore privato come soluzione, almeno in parte, del problema del clima, lo avvicinavano alle posizioni da tempo sostenute dal presidente americano Bush. Un passo avanti e due indietro.
Successive ritrattazioni e precisazioni di Blair portavano 189 paesi a incontrarsi a Montréal per la Cop-11, dal 28 novembre al 9 dicembre 2005, con lo scopo di avviare la negoziazione di un accordo per il post-Kyoto.
Contestualmente, si teneva la Cop/Mop-1, la prima sessione della conferenza dei 159 paesi che hanno ratificato il Protocollo di Kyoto: ha lo scopo di attuare l’accordo e, in particolare, di gestire tutte le azioni da esso previste, verificare il rispetto degli impegni, dirimere le dispute e comminare le sanzioni agli inadempienti.
Il negoziato si trascinava faticosamente per diversi giorni finché, in zona Cesarini, veniva raggiunto un accordo tra le resistenze americane e le concessioni europee. In sintesi, i 159 paesi del Cop/Mop-1 decidevano di emendare il Protocollo, per prorogarlo anche dopo il 2012, con nuovi impegni da concordare e approvare quanto prima ai sensi del suo articolo 3.9.
I 189 paesi di Cop-11 decidevano di avviare un dialogo fra le parti sulle prospettive a lungo termine per il raggiungimento degli obiettivi previsti dalla Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (Unfccc). In particolare, a) il dialogo deve rappresentare un forum di discussione per promuovere ricerca e sviluppo di nuove tecnologie, b) non deve essere finalizzato ad alcun vincolo o impegno di riduzione delle emissioni né avere una scadenza temporale, ma deve prevedere azioni volontarie compatibili con le situazioni nazionali di sviluppo socio-economico, c) deve promuovere lo sviluppo tecnologico e favorire l’accesso alle nuove tecnologie da parte dei paesi in via di sviluppo.
Il risultato era arrivato dopo che la delegazione degli Stati Uniti, per giorni sostenitrice della tesi che è troppo presto per contemplare una vita dopo Kyoto, era stata riportata al tavolo del negoziato da un saggio e astuto discorso dell’ultimo momento di Bill Clinton. L’ex presidente aveva sostenuto che la posizione dell’amministrazione Bush era lontana dal comune sentire dei suoi connazionali su questo problema, mentre molti Stati e aziende stanno già riducendo le proprie emissioni.
Come giudicare questi eventi? Secondo l’Economist (1) non si tratta di un accordo storico come alcuni sostengono: un “passo avanti vitale” per Tony Blair, un “trionfo diplomatico” per la sua ministro dell’Ambiente Margaret Beckett, un “accordo storico” per gli Amici della Terra. Comunque, fa compiere un passo avanti soprattutto laddove si prevede la discussione su un futuro patto del clima tra paesi, compresi Usa e Cina. Sebbene vincoli obbligatori non siano parte del discorso, questa modalità non può essere esclusa da un’America del dopo Bush.
A noi questo risultato ha ricordato ancora una volta il bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, o per dirla con il linguaggio della diplomazia un altro esempio di quella “ambiguità costruttiva” nella redazione dei documenti che tanto ha tenuto impegnati i Governi sin dal Protocollo di Kyoto. Tanto più che sull’altro fronte si è tenuta l’11 gennaio 2006 a Sidney la prima conferenza dei paesi del Patto Asia-Pacifico.

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Vincoli obbligatori o azioni volontarie?

I paesi aderenti al Patto hanno ribadito il rifiuto di vincoli obbligatori sulle emissioni e hanno approvato la costituzione di un fondo di 128 milioni di dollari da destinare alla ricerca in tecnologie pulite, particolarmente nel campo della generazione di elettricità da carbone pulito e in impianti nucleari più sicuri. In questo ambito i progetti di cattura e sequestro del carbonio prodotto dal carbone sono i più gettonati. Non a caso, i critici l’hanno ribattezzato “patto del carbone”, visto che riunisce i maggiori produttori (come Usa e Australia), utilizzatori (come Cina e India) ed esportatori (come l’Australia) del minerale. Alla conferenza erano invitate anche le maggiori società private attive nel campo dell’energia, come Exxon-Mobil.
La riunione ha confermato quella che appare sempre più come una spaccatura tra paesi rispetto all’approccio da adottare nei confronti del problema. E che verte sul dilemma “vincoli-sì vincoli-no“.
I paesi che non hanno ratificato il Protocollo di Kyoto sono contrari a limiti vincolanti e sostengono che investimenti su base essenzialmente volontaria in ricerca tecnologica “will do the trick”, come si direbbe in inglese. Naturalmente, non è così.
Beninteso, trovare un’intesa su come controllare le emissioni di CO2 è più difficile di un accordo su come promuovere il libero commercio. In entrambi i casi bisogna mettere d’accordo tanti paesi, ma almeno nel secondo caso i benefici sono rapidamente visibili. Per il clima, i costi sono vicini e certi, i benefici sono lontani e incerti. Ma proprio per questo è difficile pensare che azioni di persuasione da parte dei Governi nei confronti di aziende private, in assenza di adeguati incentivi fiscali o finanziari, o di ricerca pubblica direttamente finanziata dallo Stato, ci portino a quel livello di emissioni o di concentrazioni necessari per stabilizzare il clima. D’altra parte, sembra mistificante sostenere che la presenza di vincoli obbligatori alle emissioni non stimoli la ricerca di tecnologie pulite o la transizione a energie alternative. Proprio il contrario.

Allarmi, doping e alternative

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Da entrambe le parti della barricata il bersaglio resta comunque il riscaldamento globale. E man mano che si avvicinano le scadenze (per i Kyoto-boys) e si susseguono gli allarmi (per gli Asia-Pacific-boys), si cominciano a considerare le questioni energetiche, quelle che sono all’origine delle emissioni nocive. Questo spiega la primavera che l’opzione nucleare sta vivendo oggi in Europa (e anche in Italia) e, secondo alcuni, è anche ciò che spiega le sorprendenti dichiarazioni di Bush nel suo ultimo messaggio sullo Stato dell’Unione.
Per curare un’America altamente dipendente dal petrolio mediorientale, Bush propone un aumento di spesa nelle tecnologie del carbone pulito, nell’energie rinnovabile e nucleare, nelle auto ibride e nelle celle a combustibile.
Noi crediamo che il presidente americano non si sia affatto convertito a un pensare stile-Kyoto. Cambieremo idea quando lo vedremo imporre tasse su energia e carburanti che facciano capire, e pagare, agli americani il costo sia privato che sociale dell’utilizzo dei combustibili fossili. Tanto è vero che vi sono già stime dell’Energy Information Administration circa la quantità di barili di petrolio che gli Stati Uniti potrebbero importare dallo Stato canadese dell’Alberta, ricco delle cosiddette sabbie oleose, per ridurre la sua dipendenza energetica dall’estero. Con buona pace dell’impatto sulle emissioni che l’utilizzo di queste “oil sands” implicherebbe.

La sintesi

È di pochi giorni fa, del 16 febbraio, il primo anniversario dell’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto. La situazione l’ha efficacemente riassunta ancora una volta Blair esattamente una settimana prima del compleanno. Secondo il primo ministro britannico i leader del mondo hanno solo sette anni per salvare il pianeta. Tant’è. E l’Italia? Sonnecchia.


(1) “Pricking the global conscience”, 19 dicembre 2005.

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  1. riccardo boero

    Egregio professore,
    trovo perfettamente normale che una buona fetta delle nazioni (tra cui gli USA) non accettino i vincoli di Kyoto. Se da una parte e` saggio dirigersi verso una riduzione delle emissioni globali, tale riduzione non puo’ prescindere dall’ulteriore potenziale di sviluppo di molti paesi anche ricchi, tra cui USA e Australia. Un equo compromesso potrebbe essere trovato fissando un tetto di emissioni per Kmq UGUALE per tutti i paesi. Gli USA ad es. avendo una superficie 27 volte superiore a quella della Germania, avrebbero diritto a una quantita’ di emissioni di gas serra 27 volte superiore ai tedeschi. Cio’ comporterebbe sicuramente drastiche riduzioni per i paesi come Germania Olanda Giappone diciamo cosi’ “ipersviluppati”, ma quando si tratta di trovare accordi, l’unico modo e` quello di trattare tutti in modo equo e paritario.
    Distinti saluti

    • La redazione

      Caro Boero,
      Si possono individuare diversi criteri per ripartire l’onere di riduzione delle emissioni. Sebbene il Protocollo di Kyoto si concentri molto sul criterio dell’efficienza (costi minimi) è ben presente il criterio dell’equità. Questo spiega per esempio perchè i paesi in via di sviluppo non accettarono alcun obbligo di riduzione. Ma di criteri ve ne sono diversi e dubito che quello che lei suggerisce sia il più equo. Gli Usa inquinano più di tutti al mondo non certo perchè sono grandi ed estesi ma
      perchè usano fonti fossili di energia molto più inquinanti (tanto carbone) di altri e non vogliono cambiare questa modalità perchè ciò sarebbe costoso. Il criterio riconosciuto nella Convenzione Quadro sui Cambiamenti
      Climatici firmata da tutti, ma tutti, i paesi all’Earth Summit di Rio nel 1992 era il “polluter pays principle”: paga chi inquina. Questo conduce naturalmente all’idea che chi inquina di più deve pagare (ridurre) proporzionalmente di più.

      Marzio Galeotti

  2. Roberto O.

    Il problema del riscaldamento dell’atmosfera terrestre è molto grave. La scienza ci dice che minime variazioni delle concentrazioni di gas serra (CO2, ma anche CH3 e altri) nell’atmosfera possono dare luogo a variazioni di vari gradi della temperatura media terrestre, con conseguenza drammatiche sul delicato equilibrio di tutti gli ecosistemi del nostro pianeta. Per inciso, dall’esistenza di questi ecosistemi dipende anche quello della nostra specie ed il collasso degli ecosistemi significherebbe, in poco tempo, l’impossibilità per miliardi di noi di sopravvivere. Questa minaccia è molto reale, talmente reale che – in un modo dominato dalle finzioni – non viene presa sul serio come si dovrebbe. Ci scontriamo con l’arretratezza dei nostri sistemi decisionali e della totale impreparazione e disinformazione scientifica di chi dovrebbe indirizzare l’agire comune. Forse siamo di fronte alla fine della nostra civilità, uccisa non tanto dal CO2 quanto dall’ignoranza… singolare destino per una specie che crede che l’intelligenza sia il suo tratto distintivo.

  3. Carlo

    Simpatica la proposta di Boero di porre “un tetto di emissioni per Kmq”, ma non si capisce a cosa vuol tendere se non ad aumentare le emissioni di alcuni paesi (gli USA nell’esempio) e risultare completamente inaccettabile ad altri (la Germania nell’esempio) pena la chiusura di gran parte delle attività economiche.
    Non ho poi capito perché mai il criterio dovrebbe fondarsi sul territorio (emissioni per Kmq) e non sugli uomini (emissioni pro-capite): in fondo non sono questi ad emettere i gas serra?
    Insomma, mi pare una boutade dell’ufficio pubbliche relazioni della Exxon-Mobil!

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