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Eppur bisogna lavorare di più

I paesi con un numero elevato di ore lavorate pro-capite registrano una crescita economica maggiore. Lo dimostrano gli Stati Uniti e, in Europa, la Gran Bretagna e i nuovi Stati membri dell’Unione. La discussione sulla revisione della Working Time Directive dovrebbe essere l’occasione per ridurre i disincentivi che tengono basso il livello di ore medie lavorate. Soprattutto, dovrà rimanere in vigore la clausola opt-out, che consente di allungare il limite dell’orario di lavoro settimanale oltre le 48 ore. Ed è ritenuta vitale per assicurare la competitività.
Pubblichiamo, in seconda pagina, la replica dell’autrice ai commenti dei lettori.

Eppur bisogna lavorare di più

Gli americani lavorano molto più degli europei: su questa affermazione, che riecheggia il titolo di un lavoro di Edward Prescott, si è dibattuto a lungo lo scorso anno, anche su lavoce.info. Il tema torna ora d’attualità per le recenti discussioni in ambito europeo sulla revisione della Working Time Directive e, in Italia, con la pubblicazione dei dati Istat sulle ore lavorate per la produzione del Pil dal 1993 al 2003. (1)

La direttiva sull’orario di lavoro

La Working Time Directive prevede prescrizioni minime e massime su orario di lavoro settimanale (massimo di 48 ore incluso il lavoro straordinario); riposo settimanale (1 giorno); riposo orario giornaliero (11 ore); intervallo giornaliero di 20 minuti ogni 6 ore di lavoro 4 settimane di ferie pagate annuali (dopo 13 settimane di occupazione).
Molti commentatori e organizzazioni dei datori di lavoro in tutta Europa ritengono che queste prescrizioni, soprattutto quella delle 48 ore settimanali, impediscano la crescita delle economie perché riducono la flessibilità del mercato del lavoro e quindi la competitività delle piccole-medio imprese che rappresentano il 90 per cento della struttura industriale europea.
Sono argomenti corretti dal punto di vista della teoria economica?

Gli europei “pigri”

In un suo lavoro, Edward Prescott mostra che, escludendo gli incrementi di produttività derivanti dal boom delle telecomunicazioni e delle dotcom statunitensi, nel periodo 1993-1996 gli americani in età lavorativa (15-64 anni) del settore privato lavorano in media il 50 per cento in più dei francesi, dei tedeschi e degli italiani (vedi Tavola 1). (2) E rileva come il cambiamento nelle ore di lavoro pro-capite (offerta di lavoro) sia un fenomeno nuovo. Infatti, se si utilizzano i dati Ocse relativi al periodo 1970-1974 si nota che l’offerta di lavoro è dal 5 al 10 per cento più alta per i paesi europei rispetto agli Stati Uniti. Data la più alta produttività dei paesi europei, misurata dall’output per ore lavorate, e il persistere della divergenza nei livelli di reddito pro-capite, la conclusione di Prescott è che il differenziale nei tassi di crescita tra le due aree non dipende dall’efficienza del lavoro (produttività), ma dalla minore offerta di lavoro (ore lavorate pro-capite).

Cultura long-hours e performance economica

Una gran parte del pubblico americano (e non soltanto) vede positivamente la riduzione delle ore di lavoro: pensa che gli europei godano di maggior tempo libero, una maggiore aspettativa e migliore qualità della vita, e persino di un minore tasso di obesità.
Di fronte alla crescita Usa e alla stagnazione dell’Europa, una riflessione più attenta è tuttavia d’obbligo.
Argomentazioni analoghe a quelle di Prescott sul ruolo positivo delle ore lavorate pro-capite sulla performance economica sono condivise da molti commentatori ed esperti economici. La cultura long–hours, infatti, caratterizza un altro paese la cui performance di crescita è superiore a quella dei paesi dell’Unione Europea: la Gran Bretagna. Un recente studio riporta che dopo gli Stati Uniti, la Gran Bretagna ha il più elevato numero di ore lavorate settimanali per persona in età lavorativa: 21,4 contro le 25,1 degli Usa. (3) L’Italia è invece all’ultimo posto, con sole 16,7 ore. La Gran Bretagna è il paese che più di ogni altro ha utilizzato la clausola opt-out della direttiva, che consente di andare oltre il limite delle 48 ore di lavoro settimanale: 3,26 milioni di lavoratori, pari al 13 per cento degli occupati, lavorano 48 ore e più, il più lungo orario in Europa se si escludono alcuni paesi dell’Est. Mentre la media nell’Unione Europea è di 43,3 ore e di 39,7 nei 12 paesi dell’euro. Ma i buoni risultati dell’economia britannica dipendono in maniera cruciale dall’aumento delle ore lavorate? Evidentemente sì, se i commentatori economici britannici temono un eventuale spostamento verso gli standard europei. (4)
Anche i dieci nuovi paesi membri dell’Unione hanno optato per una settimana massima lavorativa che possa eccedere le 48 ore previste dal Parlamento europeo (vedi Figura 1). E la performance in termini di tassi di crescita degli Stati di nuova adesione sopravanza quella dei più maturi paesi dell’Unione. Recentemente anche la Germania ha utilizzato clausole opt-out negli accordi Siemens, Wolkswagen, Daimler-Chrysler: il working time è passato da 35 a 39-40 a seconda dei casi.

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Effetti positivi sulla crescita

Ci sono varie ragioni per ritenere che un aumento del numero di ore lavorate possa avere effetti benefici in questa fase dell’economia europea. La prima è che gli incrementi di produttività sono ancora piuttosto esigui se correttamente misurati e pertanto non sono ancora maturi i tempi per consistenti distribuzioni di tali guadagni. La seconda è che, pur non contestando le tendenze secolari di distribuzione degli incrementi di produttività in termini di aumenti salariali e di riduzione delle ore lavorate, le dinamiche strutturali sia dal lato della domanda che dell’offerta non sono mai le stesse e i meccanismi storici di aggiustamento a shock tecnologici possono operare in maniera differenziata rispetto al passato. Ciò che si richiede nella fase storica attuale è esattamente il contrario di quello che è accaduto nell’ultimo mezzo secolo: un aumento delle ore di lavoro e un contenimento (se non una riduzione) dei salari per poter aumentare la competitività dell’economia. Poiché l’economia europea non cresce, eventuali guadagni di produttività devono restare nell’ambito delle imprese per indurle a investire. Le clausole opt-out di incremento delle ore di lavoro senza compensazione salariale hanno appunto l’effetto di ridurre i salari.

Lo sviluppo del settore dei servizi

Il cambiamento strutturale determinato dalle recenti innovazioni tecnologiche necessita di una maggiore flessibilità del lavoro e della struttura organizzativa. In tale contesto si inquadra il dibattito sulla direttiva europea. Come gestire il limite delle 48 ore settimanali nel Servizio sanitario nazionale? E nel settore bancario, delle assicurazioni e del commercio? O ancora in quello delle piccole-medie imprese che devono fronteggiare le sfide commerciali di paesi come la Cina e l’India?
Chi lavora in settori del terziario ad alta intensità di lavoro sa bene che un aumento delle ore di lavoro migliora la qualità e la quantità dei servizi per i quali c’è una domanda potenziale molto alta. Una maggiore flessibilità del mercato del lavoro si sta registrando in tutta Europa, ma incentivi sotto forma di riduzione delle imposte, minori protezioni degli insider e variazioni del salario in linea con gli incrementi di produttività possono contribuire a realizzare più occupazione e più output per soddisfare una domanda interna crescente. Negli interventi precedenti su lavoce.info ci si chiedeva se queste misure fossero da ritenere sufficienti. Sicuramente non bastano a imprimere una crescita sostenuta all’economia europea, ma possono ridurre i disincentivi che tengono a un basso livello il numero di ore medie lavorate e a ridurre il tasso di disoccupazione.
La proposta di revisione della Commissione e del Parlamento europeo della Working Time Directive sembrerebbe andare in questa direzione. Molto verosimilmente la clausola opt-out, ritenuta vitale per assicurare la competitività, rimarrà in vigore per i prossimi anni.

(1) La Working Time Directive (93/104/Ce) ha già visto nel 2000 e nel 2003 alcune rilevanti modifiche per comprendere settori e attività esclusi nel 1993. I dati Istat sull’Italia si trovano sul sito www.istat.it/salastampa/comunicati/
(2)
E. C. Prescott (2004) “Why Do Americans Work so much more than Europeans?”, FRB of Minneapolis Quarterly Review, luglio.
(3) Alesina, A., Glaeser,E. e Sacerdote, B. (2005) “Work and Leisure in the US and Europe: Why so different?” NBER Macroeconomic Annual (forthcoming).
(4) Si veda l’Economist del 21 maggio 2005, p. 36.

 

TAVOLA 1

Output, offerta di lavoro e produttività di alcuni paesi relativamente agli USA (sono selezionati solo i paesi europei)

Periodo

Paese

Output procapite

Ore lavorate procapite

Output per ore lavorate

1993-1996

Germania

74

75

99

 

Francia

74

68

110

 

Italia

57

64

90

 

Regno Unito

67

88

76

 

USA

100

100

100

     

1970-1974

Germania

75

105

72

 

Francia

77

105

74

 

Italia

53

82

65

 

Regno Unito

68

110

62

 

USA

100

100

100

 

La replica ai commenti, di Rosa Capolupo

Era immaginabile che il monito rivolto soprattutto agli Italiani che “bisogna lavorare di più” avrebbe alzato un coro di commenti. La maggior parte dei quali, se non la totalità, condivido pienamente. Tra questi quello relativo alla necessità di maggior tempo libero per incrementare sia i consumi dei nuovi beni (parlare al cellulare!) sia la vocazione turistica degli Italiani; la possibilità per le donne di godere di lunghi periodi per maternità (in USA quasi solo il tempo per partorire); la privatizzazione selvaggia e lo smantellamento di imprese pubbliche (come il caso ENI) che hanno contribuito al miracolo economico dell’Italia; o il fatto che ciò che conta non è la quantità del lavoro ma la sua qualità.
Sull’affermazione ” non è affatto vero” che bisogna lavorare di più, mi permetterei di dire che non è “necessariamente vero”che bisogna lavorare di più se e solo se l’eventuale minore contributo del lavoro alla crescita del reddito aggregato è compensato da una maggiore accumulazione di altri fattori (capitale e/o investimento, ricerca e sviluppo). E anche in questo caso non sono del tutto certa della sostituibilità tra i fattori di crescita. La mia opinione, suffragata dagli studi recenti, è che il lavoro che incorpora capitale umano (non quindi la vendita di hot dog agli angoli delle strade) è di primaria importanza date le profonde e strategiche complementarietà esistenti tra capitale umano, capitale fisico e progresso tecnologico. Forse può essere utile un semplice esempio numerico per dare un’idea del contributo del lavoro alla crescita del reddito. Se ragioniamo in termini del modello tradizionale di crescita (meglio un po’ di contabilità della crescita) un incremento nelle ore di lavoro dell’1% all’anno determinano una crescita del reddito all’incirca pari allo 0,65%. Ciò può accadere per un periodo abbastanza lungo ma non per sempre. Il solo fattore di crescita di lunghissimo periodo sono le innovazioni tecnologiche. Se il nostro esempio lo riferiamo alle nuove teorie della crescita il lavoro “grezzo”, ovvero il lavoro che non incorpora capitale umano, ha un effetto nullo sulla crescita dell’output. Ma esiste lavoro grezzo? Poiché ogni lavoratore è dotato di un grado più o meno elevato di istruzione il suo contributo alla crescita sarà all’incirca pari a 1/3. La riflessione, poi, che anche gli altri fattori responsabili della crescita richiedono capitale umano (il lavoro nei centri di ricerca e sviluppo delle imprese, quello impiegato nella ricerca di base etc..) rende chiaro che il suo contributo, se correttamente stimato, è destinato ad aumentare enormemente. Studi recenti dimostrano che l’incremento di 1 anno nell’ istruzione media della forza lavoro occupata possa incrementare il tasso di crescita del PIL dal 2 al 3%. Non sembra un risultato trascurabile in una fase in cui la crescita dell’Europa è all’incirca pari all’1% all’anno e quella dell’Italia è quasi zero.
Sul dato dell’Italia che figura come fanalino di coda rispetto agli altri paesi quanto a numero delle ore lavorate pro capite (16,7 ore), occorre avvertire chetale valore è quello riportato da Alesina et al (2005) ed è definito come ore di lavoro pro-capite delle persone in età lavorativa e non quindi il numero di ore di lavoro settimanali per occupato, il cui valore è necessariamente più elevato. Naturalmente una lettura più attenta del dato spiega il numero di individui in età lavorativa ancora disoccupati (o scoraggiati) che rendono l’offerta di lavoro in Italia è la più bassa d’Europa.
Vi è poi chi pone il problema dal lato della domanda. Non è forse vero che Ford incrementò i salari per permettere alle famiglie americane di comprare l’automobile? A parte che i nuovi beni non hanno il costo dell’automobile (ma questo non è particolarmente rilevante), avere nel sistema una domanda adeguata è sicuramente un tema che non può essere sottovalutato. Il punto importante che volevo mettere in luce, e che forse non è stato chiarito adeguatamente, è che prima bisogna conseguire i guadagni di produttività e poi si potrà decidere come distribuirli. Molto verosimilmente nei prossimi decenni la tendenza secolare alla riduzione delle ore di lavoro e all’aumento dei salari riprenderà il suo corso!
Infine, in ordine di arrivo dei commenti, vi è chi si chiede, giustamente, se il divario USA/UE sia ascrivibile solo al numero medio delle ore lavorate. Sicuramente no se si guarda al quinquennio 2001-2005. I dati di Prescott, dai quali ho preso le mosse per porre un problema non facile si fermano al 1996. Non ci è sconosciuto che da allora la produttività in Europa ristagna mentre quella USA cresce.
Finché la crescita viene misurata in termini di PIL aggregato o pro-capite altri indici di benessere, seppure importanti, avranno un peso minore per misurare la ricchezza delle nazioni.

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Sommario 12 gennaio 2006

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Due pareri sulla TAV

15 commenti

  1. Mario Giaccone

    Non mi sorprende che le long hours siano diffuse e il modello di riferimento nei paesi a capitalismo liberale. Nei paesi europei a capitalismo coordinato una quota significativa di servizi alla persona non passano attraverso transazioni individuali ma attraverso il sussidio pubblico con orari razionati (es. nidi). Sarebbe interessante investigare se sono valutati i diversi ambienti istituzionali, che condizionano significativamente ore offerte, unitamente al grado di innovazione tecnologica.
    Un buon work-life balance, peraltro, è considerato un buon indicatore di coesione sociale che favorisce la riproduzione non solo demografica ma anche dei fattori competitivi dello sviluppo, come il capitale sociale.

  2. Federico

    Non concordo. Trovo sbagliato confrontarci con paesi come gli USA, dove il consumismo è molto più spinto, dove le banche sono più disponibili a finanziare sia il consumo sia l’imprenditorialità, dove l’inflazione è stabile da decenni, dove la legge dà maggiori garanzie e l’intero sistema induce maggiormente alla fiducia/serenità del consumatore/investitore. Questo confrontando le culture e le politiche americane con quelle europee. Entrando poi nella pura filosofia, trovo sbagliato superoccupare alcuni individui i quali, pur guadagandno di più, non voranno il tempo per scoprire nuovi bisogni e spendere il loro eccesso di reddito e, al contrario, chi ha più tempo -non lavorando- non ha disponibilità economiche.

  3. Fabio Massimo Esposito

    Mi sembra che il confronto con la Gran Bretagna, basato sul numero di ore lavorate settimanali per persona in età lavorativa, non tenga conto dei dati presentati da L. Tronti nel suo articolo del 9/1/06, secondo cui le ora lavorate dai dipendenti privati sono maggiori di quelle lavorate in UK e negli altri grandi paesi europei. La flessibilità del mercato del lavoro dovrebbe mirare ad aumentare le ore lavorate accrescendo il tasso di occupazione – anche part-time – per esempio sviluppando servizi di supporto ai lavoratori occupati, piuttosto che facendo lavorare questi ultimi ancor di più.

  4. Luca Milanetto

    Volevo chiedere una delucidazione in merito ai dati presentati nell’articolo. Mi sembra che i numeri di ore settimanali lavorate in italia (16,7 pro-capite) così come negli altri paesi siano un po’ bassi; indipendentemente dal giudizio di merito sull’incremento di produttività all’incremento delle ore lavorate, volevo chiedere maggiori delucidazione in merito ai dati presentati.

    Facendovi i complimenti per il vostro servizio
    Luca Milanetto

  5. Roberto O.

    … se mi pagassero anche di più. Credo che in Europa scontiamo una strana cultura per la quale la gente può anche lavorare senza essere pagata, o venire pagata in maniera simbolica. Di conseguenza scatta il meccanismo per cui al lavoro ce la si prende comoda. E ci mancherebbe. Esistono eserciti di persone qualificatissime e tuttavia sottopagate, in modo del tutto incongruo con la qualità dei servizi che producono e con le spese che hanno sostenuto per arrivare a conseguire una certa formazione. Ciò vale soprattutto per i giovani. Posso portare il mio esempio: 27 anni, laureato in Giurisprudenza, parlo cinque lingue etc etc e dove lavoro (in Germania) mi danno 564 Euro netti al mese per 35 ore settimanali. Se mi dessero di più, lavorerei anche di più (e meglio).

  6. Nicola Furini

    Molto singolare la posizione dell’autrice di questo articolo! Ma volgiamo metterci sullo stesso piano della Cina? Vogliamo proseguire nella corsa al ribasso a cui ci sta costringendo l’inevitabile confronto con il gigante asiatico? Ritengo piuttosto miope la prospettiva di una progettazione e costruzione di reali vantaggi competitivi semplicemente agendo sulla leva del far lavorare di più (mi par di capire, a parità di salari) chi già lavora.
    Oramai molti autorevoli economisti (ma anche il mondo dell’industria e della finanza, oltre che della politica) concordano sul fatto che la competizione si possa affrontare e vincere con la flessibilità, la creatività, l’innovazione (tecnologica, di processo, organizzativa, di prodotto).
    Insomma, non è affatto vero che “…eppur bisogna lavorare di più”!!!

  7. Nicola Furini

    Molto singolare la posizione dell’autrice di questo articolo! Ma volgiamo metterci sullo stesso piano della Cina? Vogliamo proseguire nella corsa al ribasso a cui ci sta costringendo l’inevitabile confronto con il gigante asiatico? Ritengo piuttosto miope la prospettiva di una progettazione e costruzione di reali vantaggi competitivi semplicemente agendo sulla leva del far lavorare di più (mi par di capire, a parità di salari) chi già lavora.
    Oramai molti autorevoli economisti (ma anche il mondo dell’industria e della finanza, oltre che della politica) concordano sul fatto che la competizione si possa affrontare e vincere con la flessibilità, la creatività, l’innovazione (tecnologica, di processo, organizzativa, di prodotto).
    Insomma, è proprio vero che “…eppur bisogna lavorare di più”?

  8. Emanuela

    Forse per alcune categorie lavorative è valida l’equazione: lavoro di più = produco di più

    Ma una gran parte di impiegati fatica a riempire di “vero lavoro” le 8/9 ore giornaliere. Gli uffici sono pieni di impiegati e dirigenti che fanno notte dopo aver perso un’incredibile quantità di tempo in bazzecole e questioni autoreferenziali.
    Mi domando se questa concezione del lavoro a orario come se fosse “un tanto al peso” non sia legata a schemi per lo più superati.

  9. Giulio Guazzi

    Ho lavorato fino a qualche anno fa nell’ENI, che negli anni ’80 aveva 120.000 dipendenti, era pubblica, aveva finalita’ nel suo statuto di promozione e benessere per la collettivita’ e per i dipendenti. Forniva abitazioni, luoghi di svago, effettuava ricerche in campi molto avanzati, e mantenva anche alcune correnti politiche.
    Poi a meta’ degli anni novanta la svolta, la modifica dello statuto, la cosiddetta privatizzazione, con la vendita del suo enorme patrimonio immobiliare, e di tutte le attivita’ non strettamente attinenti al settore, con la riduzione del personale a meno di 80.000 dipendenti, e utili favolosi, si badi non reinvestiti, ma spartiti tra gli azionisti.
    A questo punto, se anche le aziende che fanno grossi profitti, non li reinvestono ma li spartiscono tra gli azionisti quale tipo di lavoro si vuole incrementare?
    Certo, vendere hot dog all’angolo di strada dipende dal numero di ore che si fanno, ma sono questi i lavori che dobbiamo incrementare?
    La presenza in queste grandi aziende della massimizzazione dell’utile ad ogni costo, uccide quelle attivita’ di ricerca e di investimento, necessarie per adeguare l’economia con i cambiamenti repentini che caratterizzano il business attuale.
    Quindi in queste grandi aziende danno perfino dei soldi perché un dipendente se ne vada, allora dove li vanno a fare piu’ ore di lavoro?
    ..consiglio solo la lettura di un libro datato sui limiti dello sviluppo scritto nel ’74. Nostradamus non c’entra ma, ai giorni nostri quanto in esso previsto si sta avverando.

  10. Lina Sini

    Sono d’accordo con chi prima di me ha scritto che se devo lavorare 50 ore al giorno per far spartire gli utili della mia produttività agli azionisti, mi sembra un po’ una presa per i fondelli.
    Ma voglio aggiungere un elemento: i bambini. Ebbene sì, signori, esistono anche i bambini, esistono persone che oltre a lavorare fanno i genitori. Se le donne non fanno bambini, oppure i bambini vengono lasciati alla grande baby sitter tv, i genitori sono accusati di incuria.
    Ma se tutti lavorano 50 ore a settimana, con chi stanno i bambini? con le mamme, si risponderà. Quindi con le donne, che per forza di cose dovranno scegliere tra il lavoro e la maternità.

  11. Roberto O.

    Bisognerebbe anche considerare l´impatto che una consistente riduzione del tempo libero avrebbe sul settore dei servizi turistici e di intrattenimento. De facto l´economia di importanti regioni in Europa si basa proprio sulla realtà per cui in Germania, Francia etc i lavoratori godono di lunghe ferie e possono dedicarsi al turismo. Una buona fetta dei consumi attuali è in qualche modo legato al tempo libero, a ben pensarci. Quindi meno tempo libero, meno consumi. L´economia ha bisogno di lavoratori che trovino il tempo di essere consumatori, altrimenti il meccanismo non può funzionare.

  12. Paolo

    Credo che lo studio in oggetto non abbia valutato non alcune ma molte importanti determinanti che differenziano 1 ora di lavoro svolta in Europa da 1 ora di lavoro svolta in USA. Bisognerebbe valutare infatti anche il clima di lavoro in cui una persona è inserita, la qualità del management, gli investimenti in qualità delle risorse umane, i servizi e le infrastrutture del contesto socilale, i costi opportunità per raggiungere il posto di lavoro e via dicendo. Inoltre ha ragione la signora che sposta l’attenzione sui bambini che a ben veder rappresentano la forma più concreta dei nostri investimenti.
    Ho sempre pensato inoltre che sia la diversità un ottimo propulsore per l’economia piuttosto che la mera quantità. Persone diverse tra loro, stimolano le relazioni e così i mercati e quindi l’economia. E le economie anglosassoni su quest’ultimo aspetto la fanno da maestri con una società multiculturale e non autarchica come la nostre

  13. Davide Fiorello

    1. Presentare la questione in termini di quantità di lavoro è fuorviante. Dalle argomentazioni dell’autrice si capisce che la preoccupazione non è quanto lavora ogni occupato, ma la flessibilità del mercato del lavoro e il costo dello stesso. Un modo più pertinente di presentare la tesi sarebbe: “eppure bisogna ridurre i salari”.
    2. Spiegare la differenza tra i tassi di crescita di USA ed Europa in base a produttività e ore lavorate è metodologicamente insensato. Si trascurano altre variabili: politiche monetarie, investimenti pubblici, ecc. Gli USA non sono un economia competitiva e se l’Asia continua a finanziarne il deficit non è certo per il fatto che gli americani lavorano di più ma perché sono l’unica potenza globale e il centro dei mercati finanziari.
    3. Alla base della tesi dell’autrice vi è l’economia neoclassica, in cui la crescita è determinata dal risparmio. Ma l’Europa non è un’area con carenza di offerta, dove un risparmio scarso impedisce alle imprese di investire quanto vorrebbero. Invece, bolle immobiliari e finanziarie testimoniano che un risparmio abbondante non trova usi più redditizi negli investimenti reali.
    4. Keynes e Marx hanno spiegato come la necessità del capitale di trovare una remunerazione possa trasformare una situazione di ricchezza potenziale in una crisi e una conseguente percezione di povertà. Chi paga salari più bassi e può usare la manodopera in modo flessibile è più competitivo, ma tale modello di competitività funziona solo se i concorrenti non reagiscono, altrimenti, più verosimilmente, si innesca un gioco al ribasso che alla fine nuoce a tutti. L’autrice, come il Tesoro Britannico al tempo di Keynes, affidandosi a una teoria sbagliata non riesce a cogliere la sostanza delle difficoltà economiche. Il problema dell’Europa è ricostruire la possibilità per un soggetto collettivo di supplire (nelle forme adeguate, quelle keynesiane classiche non bastano più) all’insufficienza delle decisioni individuali. Altro che lavorare di più.

  14. Barbara Balboni

    Le analisi mi sembrano tutte un po’ teoriche, se non si tiene conto di una cosa: l’Italia non è l’Europa, ma un caso a parte per quanto riguarda il mercato del lavoro.
    I dati istat sul numero di ore lavorate non credo proprio comprendano una stima delle ore di lavoro straordinario non registrate sui libri e spesso non pagate (nemmeno in nero); se ne tenssero conto verrebbe fuori che gli Italiani lavorano, magari male, magari in maniera poco organizzata e produttiva, più dei colleghi di molti altri paesi europei. Nelle realtà medio piccole, numerosissime e molto esposte alla concorrenza, come pure nel settore dei servizi, il rimedio del più ore a parità o quasi di salario è stato abbondantemente utilizzato negli ultimi 5 o 6 anni, con risultati non eclatanti dal punto di vista economico.
    Se l’Europa anglosassone, più avanzata tecnologicamente o con meno nero, può giocarsi questa carta per aumentare la propria produttività, noi ce la siamo già giocata da un pezzo in molte realtà.
    E aggiungo che giocare quella carta spesso è stata la soluzione preferita rispetto ad una alternativa: più rischiose e difficili scommesse sul progresso tecnologico, l’aggiornamento e la formazione delle risorse umane (perchè investire in un software innovativo per la gestione dell’ufficio quando per l’incremento delle pratiche posso utilizzare lo stesso numero di impiegate, per 1 o 2 ore di straordinario al giorno, pagandole sempre lo stesso stipendio?).
    La realtà è spesso molto ma molto più complicata dei modelli teorici.

  15. Luis Married

    Direi superfluo ogni commento. Il numero di ore lavorate pro-capite USA-Italia è talmente differente da indurre almeno a dubitare già solo del dato statistico, figuriamoci dell’analisi. Significa che esistono diversi milioni di americani che lavorano quasi 80 ore settimanali contro le 40 italiane. Cioè 15/16 ore al giorno. Ovviamente non è così, piuttosto è vero che gli americani escono in 3 anni dalle università e iniziano subito a lavorare, chi studia può lavorare al contempo, tutti lavorano. La percentuale di disoccupazione è una media pesata tra chi cerca lavoro e chi ce l’ha. Uno studente italiano non cerca lavoro. Se facessimo il rapporto tra quanti hanno un lavoro e quanti no indipendentemente dal fatto che lo cerchino o no ci renderemmo conto che la differenza di ore lavorate dipande dal fatto che negli stati uniti lavorano molti di più, non molto di più. Lo so, ho lavorato lì per 3 anni.

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