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Standard minimi e nuove tipologie contrattuali

Dopo le riforme degli ultimi anni, il mercato del lavoro italiano è un sistema estremamente complesso, che prevede scarsi contributi previdenziali per i lavoratori più giovani, per i quali è oltretutto assai difficile il passaggio a contratti a tempo indeterminato. Occorre correggere questa situazione, con pochi interventi ben congegnati e a costo zero. Come fissare un salario minimo e un contributo previdenziale uniforme per tutto il mercato del lavoro, aumentare considerevolmente il periodo di prova e ridurre la lunghezza massima del contratto a tempo determinato.

Standard minimi e nuove tipologie contrattuali

Da ormai dieci anni il nostro mercato del lavoro è oggetto di riforme marginali volte ad aumentarne il grado di flessibilità. C’è una continuità in queste riforme, le cui tappe più importanti sono state il pacchetto Treu del 1997, la riforma del contratto a tempo determinato del 2001 e la legge Biagi del 2003: sono tutte volte a introdurre “al margine” (per i nuovi assunti) figure contrattuali che riducono la protezione della stabilità dell’impiego. La stessa legge Salvi del 2000, pur immettendo altre rigidità, ha permesso il ricorso al lavoro supplementare nell’ambito del part-time, contribuendo alla diffusione di una figura contrattuale “atipica”.

Effetti transitori….

Questo processo riformatore è stato accompagnato da notevoli, e in parte insperati, incrementi dell’occupazione, con la creazione di quasi due milioni di nuovi posti di lavoro, anche in condizioni congiunturali difficili. I due fenomeni – la flessibilità al margine e la crescita dell’occupazione pur in presenza di stagnazione economica – possono essere messi in relazione tra di loro. Come discutiamo in un nostro lavoro recente , le riforme marginali di mercati del lavoro “rigidi” producono un “effetto luna di miele” sull’occupazione aggregata. Come tutte le lune di miele, si tratta però di fenomeni transitori e gli ultimi dati trimestrali sembrano suggerire che anche questa sia in via di esaurimento. I dati positivi del 2005 sull’occupazione sembrano attribuibili unicamente a un effetto statistico, il graduale rinnovo del campione Istat dopo la regolarizzazione degli immigrati.

… ed eredità autentiche delle riforme parziali

Il mercato del lavoro ereditato da questa serie di riforme ha tre caratteristiche. Primo, è un sistema estremamente complesso. Dopo la legge Biagi, esistono più di quaranta figure contrattuali specificate dal legislatore, con un’infinità di norme, ciascuna applicata a un segmento specifico e minoritario della forza lavoro. L’assunzione di un lavoratore in forma non standard richiede quasi sempre una consulenza del lavoro. Secondo, è un sistema di regole che non guarda al lungo periodo, in quanto i lavoratori impiegati con contratti diversi da quelli a tempo indeterminato, quasi sempre i più giovani, hanno scarsi contributi previdenziali in un sistema pensionistico per loro basato sul metodo contributivo. Di questo passo, accederanno a pensioni che non saranno superiori a un terzo della loro retribuzione media, spesso al di sotto della linea di povertà. Terzo, il mercato del lavoro è un sistema “duale”, in quanto per molti giovani lavoratori è assai difficile completare il “cursus honorum”, ossia il passaggio verso il contratto di lavoro a tempo indeterminato. E molti di questi giovani sono spesso “fuori dal diritto”, nel senso che non gli si vede riconosciuta alcuna delle tutele di legge.

Cosa fare per correggere queste storture

Riteniamo che il sistema esistente debba essere corretto in tre direzioni principali. Primo, si deve ridurre la complessità. Secondo, si devono garantire standard minimi a qualunque prestazione di lavoro. Terzo, si deve facilitare la transizione verso i contratti a tempo indeterminato. Crediamo sia possibile raggiungere i tre obiettivi con poche riforme ben congegnate e a costo zero.
Semplificare. Oggi abbiamo quarantadue figure contrattuali specificate dal legislatore. La tendenza è all’aumento: in ogni legislatura se ne aggiungono di nuove. L’ingegneria contrattuale non si fermerà mai. Il mercato inventerà sempre nuove forme contrattuali e, se si mantiene l’impostazione attuale, il legislatore dovrà sempre rincorrere il mercato per “standardizzare” questi nuovi rapporti di lavoro. È una strada sbagliata e inefficace. La legge Biagi ha “tipizzato” cinque o sei figure contrattuali talmente specifiche e particolari che non si riescono nemmeno a vedere nei dati a due anni di distanza dalla loro introduzione. Insomma, la legge c’è, ma non si vede.
Per offrire tutele vere ai lavoratori e insieme semplificare la normativa, meglio specificare standard minimi applicabili universalmente e lasciare che le parti sul mercato del lavoro elaborino qualsivoglia forma contrattuale, che sarà considerata lecita nella misura in cui risulta compatibile con gli standard minimi. Ciò non significa che si debbano cancellare tutte le figure contrattuali oggi in essere, ma soltanto interrompere un meccanismo che, ai livelli attuali, sta soltanto producendo fiumi di carta (come i fantomatici “progetti” definiti per poter mantenere in piedi le vecchie collaborazioni coordinate e continuative). Bisognerà poi intensificare il controllo amministrativo e sociale per assicurare che i minimi siano rispettati ovunque.
Standard minimi. Devono essere due: standard di salario e standard previdenziali. Occorre specificare un salario minimo, come proposto recentemente con Pietro Ichino, differenziato per età e forse anche per macroregioni, in modo tale che qualunque prestazione lavorativa effettuata in una data macroregione sia remunerata almeno al salario minimo, e tenere conto dei differenziali di produttività fra persone con e senza esperienza lavorativa e dei divari nel costo della vita fra Regioni. Salari minimi esistono in quasi tutti i paesi Ocse, inclusi Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Occorre poi specificare un contributo previdenziale uniforme per tutto il mercato del lavoro. Qualunque prestazione lavorativa deve avere la stessa copertura previdenziale, indipendentemente dal tipo di contratto di lavoro, il che significa uniformare le aliquote contributive. Questi standard previdenziali garantiranno un’adeguata copertura previdenziale ai giovani di oggi.
Il cursus honorum. Per facilitare la transizione verso il contratto permanente a tempo indeterminato sono necessarie due riforme. Innanzitutto, si deve aumentare considerevolmente la durata del periodo di prova. Attualmente, è di tre mesi per operai e impiegati e sei mesi per il personale direttivo. Lo si deve portare fino a tre anni, assimilandolo, dopo i primi sei mesi, a un contratto a tempo determinato in quanto a tutela dell’impiego. Un’iniziativa simile è stata recentemente presa in Germania dalla Grosse Koalition di Angela Merkel e proposta in Francia in un rapporto dell’Insee . Secondo, si deve ridurre la durata massima del contratto a tempo determinato a due anni. Un’impresa che dovesse trasformare un contratto a tempo determinato in uno a tempo indeterminato non potrà fruire del periodo di prova. In questo modo, i contratti temporanei saranno indirizzati soltanto a prestazioni lavorative veramente a termine, mentre il periodo di prova lungo permetterà alle imprese di decidere con maggior flessibilità l’assunzione a tempo indeterminato.

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Il commento di Savino Pezzotta

La premessa alle tre proposte avanzate è sostanzialmente condivisibile.
Sulla prima proposta la “esemplificazione”, la Cisl non può che essere d’accordo. Quella che viene avanzata è la storica proposta della Cisl la quale ritiene che la legge debba, al massimo, delimitare il campo nel quale le parti sociali hanno la facoltà di determinare le regole pattizie per loro natura più flessibili e adattabili alle varie realtà.
Sulla proposta di uniformare il contributo previdenziale per tutti i tipi di rapporto di lavoro il consenso della Cisl è ovvio, essendo questa la proposta che la Cisl avanza da anni quale strumento per evitare fra le altre cose il dumping da costi sociali.
Più problematico per noi è l’approccio al salario minimo definito per legge. Ancor più problematico se il salario minimo, definito legislativamente, è anche differenziato per età, per regione, o altro. A nostro avviso, questo è terreno in cui le parti sociali debbono restare le uniche vere protagoniste. Come sempre nulla osterebbe da parte nostra ad un successivo recepimento legislativo di quanto rinvenuto dalle parti.
Sul terzo tema proposto dall’articolo, il ragionamento deve essere per forza di cose più complesso. Perché, anche in questo campo, l’invasione della regolazione per legge dei rapporti di lavoro ha creato situazioni assai difficili da districare, soprattutto se si perpetua l’uso della legge per regolare materie così poco omogenee. A nostro avviso, non si possono regolare in modo uniforme situazioni tanto diverse. Sono infatti diversi i mercati di lavoro territoriali, sono diverse le figure professionali, sono diverse le organizzazioni del lavoro fra settori produttivi, fra piccole, medie e grandi imprese, fra pubblico e privato, fra imprese che lavorano nel mercato interno e imprese che operano nel mercato globalizzato. In ogni caso la direttrice di marcia proposta, ovvero quella di restringere l’area dei contratti a tempo determinato alle prestazioni lavorative veramente a termine, alla luce delle esperienze maturate, è sicuramente condivisibile. L’allungamento del periodo di prova, non inaccettabile in termini di principio, dovrebbe essere invece modulato contrattualmente dalle parti sociali a seconda delle figure professionali e delle realtà produttive.

Il commento di Tiziano Treu

Le proposte avanzate da Boeri e Garibaldi sono interessanti e, a mio avviso, devono essere considerate nel programma dell’Unione ai fini dell’azione del futuro governo.
Nel merito ritengo necessarie alcune precisazioni.

Anzitutto una premessa: per avere buona occupazione non basta regolare bene il mercato del lavoro e la stessa flessibilità; occorre uno sviluppo di buona qualità. Sono convinto che Boeri e Garibaldi condividono questa premessa, ma è bene ribadirla sia per chi mitizza la flessibilità sia per chi al contrario pensa che basti cancellare la legge 30, la cosiddetta legge Biagi, perché il lavoro cresca e migliori. La legge 30 è sbagliata,perché si è concentrata sulle flessibilità “al margine”, per di più confuse, che hanno favorito qualche maggior assorbimento di manodopera, ma per altro verso hanno contribuito alla deludente performance della produttività del lavoro.
Concordo che il sistema previsto dalla legge 30 vada semplificato: la moltiplicazione delle forme contrattuali in entrata non serve a favorire l’accesso effettivo al lavoro né dei giovani né degli anziani; rischia di aumentare solo l’occupazione di avvocati e consulenti. Non basta però la semplificazione normativa, cioè cancellare qualche forma o definirne meglio qualche altra ( come la legge 30 ha fatto sostituendo le co.co.co. con i contratti a progetto). Il provvedimento essenziale è l’armonizzazione dei contributi sociali fra i vari tipi di contratto di lavoro, subordinato, autonomo, collaborazioni, a partecipazione. Questo basterebbe a correggere l’anomalia tutta italiana, della proliferazione delle false collaborazioni, ma anche del lavoro falsamente autonomo, e ridurrebbe così non poco l’area del lavori cd. non standard.
Proposte in questo senso sono presenti nel programma dell’Unione. La loro attuazione, ancorché graduale, pone problemi non da poco, soprattutto di costo; perché occorrerà intervenire con consistenti fiscalizzazioni per non pregiudicare il livello delle pensioni di base dei lavoratori; e per garantire in particolare una adeguata copertura previdenziale ai giovani di oggi, come chiedono anche Boeri e Garibaldi.
L’armonizzazione di altre condizioni di lavoro pone problemi diversi. Personalmente sono favorevole a introdurre qualche forma di retribuzione minima, per i lavoratori subordinati. Darebbe una tutela di base a soggetti che il sindacato e il contratto collettivo fanno fatica a raggiungere. Un salario minimo bene configurato (compito non facile ma possibile) aiuterebbe lo stesso sindacato; si tratta di convincere di questo gli interessati ,cioè i sindacati italiani, che hanno sempre confidato solo nella contrattazione collettiva. Dubito peraltro che questo salario minimo possa valere automaticamente anche per i (diversissimi) lavori autonomi; potrebbe rivelarsi inutile o” forzato”. Se ben ricordo le esperienze straniere di salario minimo riguardano appunto solo il lavoro subordinato. Per il lavoro autonomo, quello vero, i salari del lavoro subordinato possono essere un mero indice di riferimento.
Un’armonizzazione fra i vari lavori è richiesta anche per altre condizioni di lavoro, tutele e diritti; ma non credo che neppure qui si possano immaginare parificazioni meccaniche e complete fra lavoro subordinato ,autonomo e collaborazioni. Nelle proposte avanzate dall’Ulivo e tradotte nel ddl cd ” Carta dei diritti”( AS.1872) si prevede una modulazione, non una parificazione totale, delle tutele. Alcune, di matrice costituzionale (diritti individuali fondamentali e sindacali, tutele nel caso di malattia, infortunio, maternità), sono comuni a tutte le forme di lavoro. Altre più specifiche sono modulate secondo il principio costituzionale (art. 35) della proporzionalità al bisogno di protezione e di regolazione delle diverse situazioni.

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Boeri e Garibaldi affermano che rispettando questi standard le parti saranno libere di scegliere qualunque forma contrattuale. L’affermazione può essere equivoca. Le differenze fra lavoro subordinato, autonomo, collaborazioni e partecipazioni non si eliminano. Ma certo con adeguate armonizzazioni la scelta fra le varie forme contrattuali è resa più trasparente e meno esposta ad abusi. Anche i problemi di qualificazione dei diversi tipi, che appassionano i giuristi ed aggravano la litigiosità giudiziale, sarebbero molto ridimensionati.
Nell’ambito del lavoro subordinato, con le semplificazioni proposte, le forme non standard si concentrerebbero in quattro: lavoro a termine, interinale, part- time e contratti formativi (ritengo che qui basterebbe un tipo solo di lavoro misto con formazione, vera e adeguata).
La forma più “difficile”è il lavoro a termine, perchè il suo abuso e anche il suo uso eccessivo,purtroppo frequente, comportano alti rischi di precarietà. Un lavoro a termine può introdurre i giovani al mercato del lavoro; ma se si reitera molte volte nel tempo provoca instabilità inaccettabili e pregiudica sia l’autonomia dei giovani sia un uso efficiente delle loro risorse da parte delle stesse imprese.
Per facilitare la transizione verso il contratto a tempo indeterminato possono servire più misure. Una di queste può essere l’allungamento del patto di prova, proposto anche in altri paesi, che permetterebbe alle aziende di decidere con più ponderazione l’assunzione stabile. Ma credo che sia utile anche un sistema di incentivi- disincentivi;e di questi si parla nel programma dell’Unione.
Gli incentivi (tipo credito di imposta) vanno riservati solo ai contratti a tempo indeterminato, perché questi devono essere la regola per imprese che puntino sulla qualità anche delle risorse umane. I contratti a termine devono servire solo per prestazioni a termine, che rispondano a bisogni specifici dell’impresa. Più che limitare le causali, fonte di litigiosità, credo utile stabilire dei tetti massimi all’ utilizzo di questi contratti (in via di contrattazione collettiva non di legge). E si possono stabilire costi aggiuntivi per chi ne fa uso eccessivo, in base al principio che i costi della precarietà non possono scaricarsi tutti sul sistema pubblico. Non dimentichiamo che un’altra riforma fondamentale per far funzionare bene il mercato del lavoro e rendere la flessibilità socialmente sostenibile è la previsione di un sistema di sostegni al reddito (cd.ammortizzatori) diffuso e combinato con politiche attive. Tutte le migliori esperienze europee, che Boeri e Garibaldi ben conoscono, insegnano che razionalizzare la normativa sul rapporto di lavoro è utile, ma non basta a garantire un funzionamento efficiente ed equilibrato del mercato del lavoro se questo non è fatto oggetto di politiche attive di formazione, di sostegno e di servizio.

Tito Boeri e Pietro Garibaldi rispondono ai lettori

Ringraziamo tutti i lettori per i loro commenti. Molti aspetti della nostra proposta devono essere ancora definiti nei dettagli e, quindi, faremo tesoro dei loro suggerimenti. Ci preme solo a chiarire un aspetto, di cui avremo modo di discutere più in dettaglio il 3 febbraio in un incontro a Milano: gli effetti del salario minimo sul lavoro nero. E’ certamente possibile, come hanno rimarcato molti lettori, che il salario minimo possa portare ad un travaso di occupati dal settore formale a quello informale.
Il livello del salario minimo dovrà essere perciò fissato in modo tale da minimizzare questo rischio, prevedendo anche misure che invitino le imprese ad assumere lavoratori in prossimità del salario minimo. Rimane il problema dei lavoratori che sono già oggi nel settore sommerso e che non potranno beneficiare delle nostre tutele minime. Questo è un problema che deve essere affrontato con altri strumenti.  L’esperienza di altri paesi suggerisce comunque che l’introduzione di un salario minimo tende a far aumentare le retribuzioni anche nel settore informale. Quindi i lavoratori del settore informale potrebbero comunque trarre qualche vantaggio da questa misura.

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Sommario 4 gennaio 2006

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Per un pugno di antivirali

  1. Alberto Lusiani

    Ritengo che parlando di mercato del lavoro dovrebbe essere considerato un elemento purtroppo assai rilevante in Italia: l’illegalita’ diffusa e quindi il lavoro nero con evasione fiscale e contributiva.
    Includendo il lavoro nero, la percentuale di occupati in Italia e’ probabilmente ai massimi OCSE, come e’ ovvio visto che i benefici statali ai disoccupati sono ai minimi OCSE.
    I CoCoCo e le altre forme di lavoro atipico hanno solo spostato parte dell’occupazione in nero (con evasione del 100% fiscale e contributiva) in forme di occupazione dove il carico contributivo (il piu’ pesante) viene evitato legalmente riducendolo di un fattore circa tre, con gli anni ridotto a circa due.
    L’introduzione di salari minimi proposta non avrebbe altro effetto che riportare parte dell’occupazione legalizzata in contratti atipici nuovamente in nero: fatto automatico in un paese a illegalita’ diffusa come l’Italia. L’intenzione e’ buona, ma le conseguenze sarebbero piu’ che altro negative.
    Per i contratti di lavoro dipendente esistono i salari dei contratti sindacali, che sono una specie di salario minimo. Per imposizione sindacale, specie della CGIL, questi sono contratti nazionali, che non tengono conto che PIL pro-capite e costo della vita raddoppiano passando dalla Sicilia alla Lombardia. La conseguenza e’ stata disoccupazione ai minimi OCSE nel nord Italia (meno di USA e UK, tipicamente), e lavoro nero con evasione totale (cammuffato da disoccupazione) ai massimi a Sud (a spanne il 66% dell’economia non statale).
    Conoscendo politici e sindacalisti italiani, e’ certo che eventuali salari minimi sarebbero ancora una volta uguali in tutte le regioni, mantenendo e aumentando gli squilibri tradizionali dell’economia duale del Nord e Sud Italia: salari da fame a Nord, accettati ormai solo da immigrati del terzo mondo, e lavoro nero di massa a Sud (eccetto l’ipertrofico improduttivo settore statale).

  2. Andrea Montanino

    Condivido in gran parte le vostre proposte. Aggiungerei tre piccoli suggerimenti:
    1. Semplificare. Oltre alla proliferazione delle forme contrattuali di cui parlate, c’è stata negli anni la proliferazione (e la stratificazione) degli incentivi all’assunzione, di cui esistono circa 25 diverse fattispecie (molte risalenti alla fine degli anni ’80). L’anomalia è che spesso vi è il doppio incentivo (per l’impresa) del rapporto di lavoro a termine e della contribuzione ridotta. Un ripensamento in particolare sembra necessario per il contratto di apprendistato, tenendo conto che il costo finanziario è di circa 2 miliardi di euro annui di decontribuzione, e che per quasi il 50% beneficia i lavoratori di tre regioni (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) dove vi è spesso una situazione prossima alla piena occupazione.
    2. Standard minimi. Poichè i lavoratori con carriere non standard sono quelli che tendono ad accumulare meno contributi previdenziali, si potrebbe ribaltare l’attuale sistema che associa alle forme di lavoro più flessibili un’aliquota contributiva più bassa, fissando aliquote contributive più elevate proprio per i contratti non standard (e non – come da voi proposto – soltanto uniformando il contributo). Ciò sarebbe giustificato dai maggiori rischi di disoccupazione – e di insufficiente accumulo di contributi previdenziali – connessi al contratto non standard. Si ridurrebbe inoltre l’utilizzo di queste forme contrattuali unicamente a quei casi dove l’impresa considera la flessibilità un fattore necessario alla sua organizzazione.
    3. Il cursus honorum. Se – come detto sopra – si associasse ai contratti con termine lo “svantaggio” (per l’impresa) della maggiore contribuzione, si potrebbe immaginare un contratto di “incentivo alla stabilizzazione” basato sulla riduzione temporanea del costo del lavoro nel caso di trasformazione del rapporto di lavoro da temporaneo a permanente (ovviamente chiarendo i gruppi target).

  3. Matteo Richiardi

    Le riforme proposte sono anche a mio avviso fondamentali. Ne aggiungerei una: l’ indennità di precarietà, dovuta alla scadenza del contratto ai lavoratori precari nel caso che il rapporto non evolva in un contratto di lavoro dipendente (a tempo indeterminato o determinato). Questa è una misura che esiste già in Francia (“indemnité de précarité d’emploi”), dove ammonta ad un minimo del 10% della remunerazione percepita durante il contratto.
    Un’ultima annotazione marginale: uniformerei nella vostra proposta la durata del periodo di prova a quella del contratto a tempo determinato (3 o 2 anni).

  4. Giacomo Dorigo

    Aggiungerei anche che il salario minimo debba essere calcolato aulla base del salario medio a sua volta riferito a tutte le categorie, altrimenti si rischia che ci sia un salario minimo per i metalmeccanici, uno diverso per i manager, uno diverso ancora per gli impiegati, ecc. che è proprio il contrario di quello che si propone.
    Inoltre dovrebbe essere impedito anche al datore di lavoro di far passare il dipendente da un contratto ad un altro facendolo ripassare ogni volta per il periodo di prova. Esistono infatti dei contratti nazionali ‘contigui’ in cui il dipendente svolge praticamente le stesse mansioni. Un datore di lavoro potrebbe assumere un dipendente in prova (per un tempo indeterminato) per tre anni con un contratto, e poi farlo passare ad un contratto contiguo rimettendolo in prova ecc. Una cosa del genere potrebbe essere agevolata da una maggiore liberalizzazione dei contratti. Per es. per tre anni un dipendente lavora in prova in un call center di una grande azienda a quel punto dovrebbe finire il periodo di prova, ma l’azienda che fa: gli dice che se vuole continuare a lavorare con loro deve passare ad un altro contratto per delle mansioni simili ma con qualche ‘virgola’ diversa, e perciò ricominciando da capo il periodo di prova, il tutto senza ovviamente tfr perchè non viene licenziato, ma avviene solo una sorta di upgrade contrattuale… se non accetta allora viene licenziato davvero e assunto un altro in prova al suo posto.

  5. Claudio Resentiniù

    Portare a tre anni il periodo di prova assimilandolo ad un contratto a tempo determinato mi sembra consentirebbe soltanto alle imprese di fare più facilmente quello che hanno già la possibilità di fare adesso attraverso la pletora di contratti atipici, parasubordinati e trucchetti simili, cioè non tanto (o non solo) “testare” i lavoratori quanto vogliono, ma soprattutto tenerli continuamente sotto ricatto e privi di diritti elementari.
    Mi sembra anche pericolosissimo dal punto di vista culturale. Stiamo già allevando una generazione di “giovani a vita” che non crescono mai, non c’è bisogno trasformali anche, ulteriormente, in “lavoratori in prova” a vita.
    Molto ci sarebbe anche da dire sull’opportunità di introdurre gabbie salariali in un paese che si vuole unito o legare le retribuzioni alla produttività che, ricordiamolo, non dipende solo dal lavoratore, ma anche dall’imprenditore che dovrebbe fare i conti in prima persona assumendosi il rischio d’impresa senza scaricare, oltre alle instabilità dei mercati e la concorrenza, anche le proprie incapacità personali sui lavoratori.
    Sul decentramento della contrattazione stiamo bene attenti a non esagerare perchè c’è già qualcuno, anche nel sindacato, che vaneggia di contrattazione individuale: i lavoratori hanno potere contrattuale solo se sono uniti. Le frammentazioni sono pericolose, soprattutto in un paese fatto sempre più di piccole e micro imprese dove padroni e padroncini, capi e capetti fanno il bello e il cattivo tempo.

  6. Giuseppe Scalas

    A mio avviso, un’alternativa al salario minimo è il reddito sociale, da garantire a tutti i maggiorenni disoccupati, utilizzando un criterio tipo l’80% della soglia di povertà su base regionale.
    Questo provvedimento avrebbe l’effetto immediato di eliminare le occupazioni a bassa retribuzione.
    Naturalmente, bisognerebbe accettare l’idea di un’ampia fascia di popolazione al di fuori del mercato del lavoro, ma questo nella società odierna è perfettamente accettabile. Si smetterebbe così di cercare di aumentare la produzione con il lavoro nero o lo sfruttamento delle situazioni di marginalità occupazionale e ci si focalizzerebbe verso l’uso della tecnologia e delle elevate competenze.

  7. Luca Bianchi

    Se il testo è nella gran parte condivisibile, ho pero’ alcune considerazioni da fare.
    I contratti collettivi di lavoro prevedono per la maggior parte delle figure (quelle che rappresentano l’80% dei lavoratori) periodi di prova ben piu’ corti dei sei mesi massimi previsti dalla legge; questo dimostra una, quantomeno, scarsa sensibilita’ delle parti relativamente a questo problema e ancora che basterebbe forse rendere il termine massimo di sei mesi un termine obbligatorio per tutti i contratti con durata superiore a nove mesi o indeterminata (sarebbe interessante, da provare).
    In considerazione dei nuovi contratti di apprendistato forse è il caso di rivedere la contribuzione di queste forme di lavoro, infatti nessun datore di lavoro troverebbe da ridire sul pagamento a suo carico di una percentuale (mettiamo del 20%) rispetto ai contributi pagati per un operaio, in compesnso l’apprendista avrebbe una maggiore copertura previdenziale.
    Il contratto a termine dovrebbe essere limitato ai soli casi in cui vi sia il termine di un’opera, esistendo oggi altre tipologie contrattuali che possono flessibilizzare l’utilizzo del lavoro.
    Sarebbe anche interessante la riduzione dei contributi e delle imposte a chi ha un’alta percentuale di costi da lavoro, rispetto a chi, a parità di volume d’affari ha una bassa percentuale di costi da lavoro (+/- labour intensive).

  8. L.R.

    Sono d’accordo con l’impostazione dell’analisi di Boeri e Garibaldi.
    Vorrei soltanto rilevare, da non addetto ai lavori, che, mentre su certe forme contrattuali previste dalla Biagi ho delle perplessità, sono favorevole a mantenere il “lavoro a chiamata” o “job on call”. Non sarà mai una formula molto diffusa, ma in certi casi può essere utile ad eliminare forme di sfruttamento.
    Lo dico sulla base di mie esperienze professionali da giornalista pubblicista.
    Ebbene, in passato mi sono trovato a collaborare, scrivendo articoli e publiredazionali, con una importante concessionaria di pubblicità. Venivo a volte contattato all’ultimo momento e dovevo immediatamente sospendere qualsiasi altra attività per consegnare in tempi più o meno rapidi i testi richiesti. I contatti potevano variare da 0 a 4 volte al mese. Tanto per cominciare mi è stato chiesto se avevo la partita Iva, che altrimenti non avrei fatto. Secondariamente, questo tipo di rapporto condizionava lo svolgimento di altre attività da free-lance, tanto che in qualche caso ho dovuto rinunciare ad altre proposte, perché ovviamente mettevo al primo posto la società che nell’arco dell’anno mi offriva più incarichi.
    Ecco, credo che in una situazione del genere, imporre all’azienda un minimo di programmazione in più nel darmi gli incarichi e soprattutto di pagarmi qualcosa per il solo fatto di essere a disposizione sarebbe stato giusto e mi avrebbe consentito di non chiudere la collaborazione, come a un certo punto ho deciso di fare (anche per altri motivi) pur non essendo contrario all’idea di avere un lavoro non a tempo pieno.
    Vorrei sentire il parere degli esperti su questa questione.

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