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Quanto lavorano gli italiani

La tesi che gli orari dei dipendenti italiani siano inferiori a quelli dei loro concorrenti europei non ha sostegno empirico. Il vantaggio italiano si riduce però sensibilmente se si considera l’impegno lavorativo sul complesso dalla popolazione in età di lavoro. La causa è il basso tasso di occupazione, soprattutto femminile Tuttavia, il valore resta superiore alla media dell’Unione Europea a 15 ed è analogo a quello dell’Olanda. Per accrescere l’impegno degli italiani nel mercato dei beni e dei servizi, non serve ridurre le ferie, ma si devono aumentare i posti di lavoro.

Negli ultimi anni è stata più volte avanzata la tesi secondo la quale in Italia si lavora comparativamente poco. Sarebbe questo uno dei motivi fondamentali per cui l’economia è poco competitiva, e il prodotto e la produttività (nonché i salari) ristagnano. Ma è vero che in Italia si lavora poco?

Gli orari degli italiani

I dati della rilevazione europea quadriennale sulla struttura del costo del lavoro riferiti all’anno 2000, metodologicamente omogenei e pienamente comparabili tra i paesi, ci dicono che l’orario di fatto dei dipendenti del settore privato (ad esclusione dell’agricoltura) è, in Italia, pari in media a 1.694 ore l’anno: 153 ore più di quello dei francesi, 225 ore più di quello dei tedeschi, 73 più di quello degli inglesi, 60 ore più di quello degli spagnoli. Inoltre, l’orario italiano è maggiore di 143 ore l’anno rispetto alla media dei 15 paesi di più antica appartenenza all’Unione e, se confrontato con i maggiori tra i paesi di nuova accessione, risulta significativamente inferiore soltanto a quello di Polonia e Romania.
La tesi che gli orari dei dipendenti italiani siano inferiori a quelli dei loro concorrenti europei non ha dunque sostegno empirico. D’altro canto, se si guarda alle tendenze di lungo periodo dell’orario di fatto di tutti gli occupati (dipendenti e indipendenti) nei quattro maggiori paesi dell’Unione Europea, negli Stati Uniti e in Giappone (figura 1) si nota che negli anni Cinquanta e Sessanta gli orari europei erano mediamente più lunghi, ma da allora si sono ridotti in misura sostanziale. Quelli dei giapponesi, invece, hanno avuto una contrazione significativa soltanto negli anni Novanta, mentre quelli degli americani, negli stessi anni Novanta hanno registrato un certo aumento. Di conseguenza, gli orari americani hanno distanziato quelli europei sin dalla fine degli anni Settanta, e dalla fine degli anni Novanta anche quelli giapponesi: nel 2004 il vantaggio nei confronti dei primi è di circa sei settimane di 40 ore l’anno e nei confronti dei secondi di quasi due settimane l’anno.

Figura 1 – Ore lavorate annualmente per occupato nei quattro maggiori paesi dell’Unione Europea, negli Stati Uniti e in Giappone – Anni 1950-2004 (Occupati totali; per i paesi europei, media non ponderata tra i valori di Germania, Francia, Regno Unito e Italia)

Fonte: GGDC, 2005. Per l’Italia negli anni 1993-2003, Istat, 2005; per gli altri anni, serie GGDC raccordate.

Ma il distacco degli americani non si applica al caso italiano: gli orari medi italiani, con 1.810 ore l’anno nel 2003, sono allineati con quelli americani (1.817 ore) e significativamente superiori a quelli di Francia, Germania e Regno Unito (in media, 1.498 ore). (1)
I dati medi vanno però interpretati con cautela, perché rappresentano mercati del lavoro caratterizzati da strutture profondamente diverse. Il principale motivo di divergenza del mercato del lavoro italiano sta nelle sue modeste dimensioni relative.
Se si guarda alla popolazione in età di lavoro (convenzionalmente compresa tra i 15 e i 64 anni d’età), in Italia lavorano 5,8 persone su 10: mentre nella media dell’Unione a 25 a lavorare sono 6,3 persone, in quella dell’Unione a 15 6,5, in Giappone 6,9, negli Stati Uniti 7,1, nel Regno Unito 7,2, in Danimarca 7,6.
Il divario è spiegato quasi completamente dalle differenze nell’occupazione delle donne, mentre tra gli uomini le differenze sono più contenute.

Il dilemma orari-occupazione

La limitata dimensione del mercato del lavoro apporta, quindi, una sostanziale correzione all’immagine dei “lunghi orari” degli italiani: se è vero che i lavoratori italiani sono impegnati dal lavoro retribuito, in media, per una quota maggiore dell’anno, è però altrettanto vero che a sostenere questo impegno sono relativamente in pochi, particolarmente tra le donne. Le ridotte dimensioni del mercato del lavoro femminile, peraltro, contribuiscono a definire i contorni dell’impegno lavorativo degli italiani anche per un secondo aspetto: quello della ancora scarsa diffusione degli impieghi a tempo parziale.
Se prendiamo i “giovani” (maschi e femmine tra i 15 e i 39 anni), il lavoro part-time impegna in Italia il 14,5 per cento dell’occupazione totale, contro il 16,8 in Francia, il 24,2 nel Regno Unito, il 46,8 per cento in Olanda. Tra le donne, la quota raddoppia al 28,2 per cento, ma cresce anche la distanza dal Regno Unito (39,3) e soprattutto dall’Olanda, dove più del 70 per cento delle donne “giovani” si occupa in impieghi a tempo parziale. Inoltre, mentre negli altri paesi per le donne nelle età più avanzate la quota degli impieghi a orario ridotto cresce, in Italia, anche in relazione con la tardiva introduzione del part-time nel nostro ordinamento, diminuisce.
A prolungare gli orari c’è poi la circostanza che in Italia l’orario effettivo dei lavoratori part-time è mediamente più lungo: 20,7 ore la settimana, contro 19,3 nell’Unione a 15, 19,1 in Olanda, 18,6 nel Regno Unito, 17,4 in Germania. (2) E non va dimenticato che il mercato del lavoro italiano si caratterizza anche per dimensioni medie di impresa molto ridotte e, quindi, per una presenza eccezionalmente elevata di lavoratori autonomi, i quali usualmente prestano orari di lavoro prolungati. (3)
Figura 2 – Tassi di occupazione e ore lavorate annualmente per occupato in alcuni paesi Ocse – Anno 2004 (Tassi di occupazione in rapporto alla popolazione in età 15-64 anni)

Leggi anche:  Anche per il lavoro servono le riforme costituzionali

Fonte: GGDC, 2005; Eurostat, 2005a. Per gli orari italiani Istat, 2005a e serie GGDC raccordate.

 

Lo scambio tra orari e occupazione, tuttavia, non è una particolarità italiana, ma una regolarità delle economie avanzate. La figura 2 mostra che, seppure con oscillazioni significative, la nuvola dei punti orari annui-tasso di occupazione di 15 paesi europei più la Turchia, gli Stati Uniti e il Giappone mostra un generale orientamento negativo: segnala che, nella media, i paesi con tassi di occupazione più elevati hanno orari più brevi e quelli con tassi più contenuti orari più lunghi. Suddividendo la figura in quattro quadranti mediante l’introduzione di due assi che rappresentano i valori medi dei due indicatori, i diversi paesi mostrano le loro affinità nella modalità di risoluzione del dilemma orari-occupazione. Spagna, Italia, Grecia e Turchia cadono nel quadrante del modello occupazionale “mediterraneo”, dei paesi con orari lunghi e bassa occupazione, mentre Irlanda, Portogallo, Finlandia, Giappone e Stati Uniti si collocano in quello del modello “iperattivo”, al quale si iscrivono i paesi con alta occupazione e orari lunghi. Regno Unito, Austria, Svezia, Danimarca, Norvegia e Olanda si caratterizzano per l’adozione di una soluzione “nordica” del dilemma orari-occupazione, in cui l’alta occupazione si coniuga con orari di lavoro mediamente brevi (soprattutto grazie all’ampia diffusione del part-time). Infine, Belgio, Germania e Francia si posizionano nel quadrante dei paesi “continentali” (relativamente “poco attivi”), con bassa occupazione e orari brevi, dove si colloca anche la media dei 15 paesi che per primi hanno aderito all’Unione Europea.

Attivismo e “marketization”

Le ragioni per cui alcuni paesi sono caratterizzati da un rilevante “attivismo” trovano origine nelle profonde diversità dei modelli di offerta di lavoro e di consumo nella famiglia. In particolare, le statistiche segnalano che le donne lavorano, per il mercato o per lo Stato, molto di più negli Stati Uniti che nella maggioranza dei paesi europei.
Richard Freeman e Ronald Schettkat in alcuni lavori basati su di un database omogeneo sui mercati del lavoro americano e tedesco, con informazioni dettagliate sull’uso del tempo, mostrano che il rilevante gap occupazionale Usa-Germania non è legato in misura determinante ai livelli del salario o degli ammortizzatori sociali (come la teoria economica standard suggerirebbe) ma, invece, è fondamentalmente causato dalla diversa estensione del mercato (marketization) ad alcune delle attività svolte in misura prevalente dalle donne. Se, oltre alle ore impegnate nella produzione per il mercato, si tiene conto anche di quelle assorbite dalle attività di cura della casa o dei familiari, il numero di ore lavorate in Germania, in particolare dalle donne, è del tutto equivalente a quello degli Usa, in particolare dalle americane. Ad esempio, in Germania si dedica molto più tempo alla preparazione dei pasti, mentre negli Stati Uniti si consumano cibi pronti e servizi di ristorazione in modo significativamente più intenso, dando con ciò lavoro a molte più persone, spesso di sesso femminile, in quel settore. Il grado di estensione del mercato alle attività che sostituiscono il lavoro di cura non retribuito dipende a sua volta, in misura determinante, dalle modalità di organizzazione di alcune attività sociali (ad esempio la scuola) e dalla dispersione degli skill tra i lavoratori, come anche dai differenziali salariali.
Tra i paesi europei esistono, su scala diversa, differenze analoghe a quelle che si riscontrano tra gli Stati Uniti e la Germania: le differenze nel tempo dedicato al lavoro totale (retribuito e familiare) sono relativamente contenute, mentre il peso delle due componenti varia sensibilmente. (4) E i diversi modelli occupazionali scontano in larga misura la diversa marketization delle attività sostitutive a quelle di cura esercitate nell’ambito della sfera domestica, in prevalenza affidate alle donne.
Un secondo, fondamentale, elemento di discrimine è se la marketization è caratterizzata in misura prevalente da canali di offerta privati, come avviene nel mondo anglosassone, o invece da strutture pubbliche o comunque operanti in regime semi-pubblico, come è il caso nella maggioranza dei paesi nordici.
Una misura sintetica di quanto orari e occupazione tendano a compensarsi è offerta dal rapporto tra il totale delle ore lavorate in un anno e la popolazione in età di lavoro. Questo indicatore consente di valutare la durata del lavoro retribuito prestato in media, in un anno, non dai soli lavoratori dipendenti, e nemmeno dall’insieme degli occupati, ma da tutta l’”offerta potenziale di lavoro”.
La figura 3, che mostra la graduatoria di questo indicatore, ci offre alcune conferme, ma anche risultati inattesi. Viene ad esempio confermato che l’impegno lavorativo più intenso (più di 1.200 ore pro capite l’anno) è espresso da alcuni paesi “iperattivi”, in particolare da Giappone e Stati Uniti, seguiti, con valori molto vicini tra loro (tra 1.150 e 1.200 ore), da un gruppetto formato da Finlandia e Portogallo (“iperattivi”) da un lato e Svezia (“nordica” con orari relativamente lunghi) dall’altro. Il successivo terzetto omogeneo (più di 1.130 ore), formato da due paesi “mediterranei” (Grecia e Spagna) e da un paese “nordico” (Danimarca), smentisce la convinzione che l’adozione di modelli orari-occupazione fondati su bassi tassi di occupazione non possano esprimere livelli di impegno lavorativo sostanzialmente analoghi a quelli di modelli caratterizzati (come quello danese) da una diffusissima partecipazione al lavoro. Ma la sorpresa forse maggiore ci viene riservata dal gruppo centrale (circa 1.020 ore) che, oltre a includere come prevedibile la media dell’Unione a 15, annovera l’Italia (“mediterranea”), l’Olanda (“nordica” e leader nella diffusione del part-time) e l’Austria (“nordica” anch’essa, ai confini con il modello “continentale”). Paesi dell’Unione che hanno scelto soluzioni del dilemma orari-occupazione diametrali – l’Italia tutta spostata sul tempo pieno e gli orari lunghi, l’Olanda caratterizzata da un alto tasso di occupazione ottenuto attraverso una diffusione record del part-time – finiscono per esprimere un livello di impegno lavorativo del tutto comparabile.

Leggi anche:  Quando il metaverso è un luogo di lavoro *

Figura 3 – Ore lavorate per persona in età di lavoro (15-64 anni) in alcuni paesi Ocse – Anno 2004

Fonte: GGDC, 2005; Eurostat, 2005a. Per gli orari italiani Istat, 2005a.

Ora possiamo dunque formulare una risposta più circostanziata e completa alla domanda iniziale. Gli italiani che lavorano per una remunerazione lo fanno con orari più lunghi della media degli europei e più vicini al valore degli Stati Uniti. Il basso tasso di occupazione soprattutto femminile, però, fa sì che il vantaggio italiano si riduca sensibilmente una volta che venga valutato nei termini dell’impegno lavorativo espresso nel suo complesso dalla popolazione in età di lavoro. Tuttavia, anche in questo caso il valore italiano resta superiore sia a quello della media dei 15 paesi dell’Unione Europea, sia a quello dei nostri partner “continentali” (Belgio, Francia, Germania) e si dimostra analogo a quello della “miracolosa” Olanda. Infine, il modello occupazionale “mediterraneo”, nella versione offerta oltre che dall’Italia, anche da Spagna e Grecia, si dimostra in grado di esprimere un livello elevato di impegno nel lavoro retribuito, nell’insieme superiore a quello della media dei tre maggiori paesi dell’Unione (Regno Unito, Germania e Francia).
Di conseguenza, seppure appare legittimo, anche se non particolarmente urgente, che ci si proponga di accrescere l’impegno lavorativo degli italiani nel mercato dei beni e dei servizi, lo strumento per raggiungere questo risultato non può essere quello della riduzione dei giorni di ferie, ma esclusivamente quello dell’aumento dei posti di lavoro.

Per saperne di più

Eurostat, (2004) Long-term indicators, (2005a) Structural Indicators e (2005b) Population and Social Conditions, I-2005. Tutti scaricabili dal sito http://epp.eurostat.cec.eu.int/.
Freeman R.B. and Schettkat R., 2002, “Marketization of Production and the US-Europe Employment Gap”, Nber Working Papers, n. 8797, Cambridge (Mass.), National Bureau of Economic Research.
Ggdc- Groningen Growth and Development Centre and The Conference Board, 2005, Total Economy Database, August 2005, http://www.ggdc.net.
Istat, 2004, “La struttura del costo del lavoro in Italia e nella UE”, “Tavole di dati”, http://www.istat.it/dati/dataset/20041015_00/ .
Istat, 2005, “Le ore lavorate per la produzione del Pil: una prima stima dal 1993 al 2003”, “Statistiche in breve”, 22 aprile, http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20050422_01/.
Sabbadini L.L., 2005, “L’uso del tempo in Italia e in Europa: primi risultati del processo di armonizzazione”, http://www.istat.it/istat/eventi/tempivitaquotidiana/.

* Dirigente di ricerca dell’Istat. L’articolo e le opinioni in esso contenute sono presentate dall’autore a titolo personale e non sono pertanto attribuibili all’ente dove lavora.

(1) Poiché si riferisce a tutte le ore di lavoro impiegate nella produzione del Pil, il dato italiano comprende, oltre a quelle dei lavoratori indipendenti, le ore lavorate sia nei doppi lavori che nelle altre posizioni irregolari. Questo dato, comunque, risulta pienamente comparabile con quello rilevato dalla nuova indagine continua sulle forze di lavoro che registra, per il 2004, un valore medio di 1.813 ore.
(2) Tra i dipendenti, l’orario medio dei part-timers italiani è superiore a quello di tedeschi e inglesi e della media dell’Unione Europea a 15, ma inferiore a quello di francesi e spagnoli (Istat, 2004).
(3) Non vanno dimenticati, ovviamente, anche gli effetti della composizione delle imprese per settore e dimensione: industria e costruzioni hanno orari mediamente più lunghi dei servizi; le piccole imprese orari più lunghi delle grandi. L’Italia, ancora sottoterziarizzata e caratterizzata da piccole e piccolissime imprese, ha una struttura produttiva che favorisce gli orari lunghi.
(4) L’indagine europea sull’uso del tempo 2002-2003, ad esempio, mostra che per le donne il tempo di lavoro totale (lavoro retribuito, studio e lavoro familiare) varia tra le 7h56’ della Slovenia e le 6h16’ della Germania, con l’Italia a 7h26’. Ma il peso del lavoro familiare su questo aggregato varia dal 71,7% dell’Italia (5h20’) al 53,6% della Svezia (3h42’) (Sabbadini, 2005).

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Per un pugno di antivirali

  1. alberto bisin

    Molto interessante e informativo.
    Una domanda: esistono dati comparabili sui dipendenti del settore pubblico?
    Un commento: la conclusione dell’articolo (piu’ “posti di lavoro”) mi pare non derivare dai dati illustrati. Perche’ mai la bassa partecipazione femminile dovrebbe essere un problema di domanda e non di offerta? In realta’ dall’articolo stesso si evince come il “modello” lunghe-ore-bassa-occupazione sia un equilibrio: in particolare alle presenti condizioni (salario, inflessibilita’ oraria, istituzioni e mercati di day-care etc.) le famiglie preferiscono non offrire il lavoro della componente femminile. Cosa c’entra “l’aumento dei posti di lavoro?” Mi pare, onestamente, una conclusione da anni 70 a un articolo altrimenti ben argomentato.

    Un altro commento: Se si pensa alle decisioni di offerta di lavoro come a decisioni a livello di famiglia, resta il fatto che gli Italiani lavorano meno sul mercato. Ancora, nelle conclusioni, si dice che a conseguenza del fatto che sono le donno a non lavorare un aumento dell’offerta di lavoro non pare “urgente.” Come possiamo essere certi che il lavoro femminile nella famiglia non sia in modo sostanziale inefficiente? Non che i pasti fatti in casa non siano meglio, ma quanto costano (in termini di costo opportunita’)?

    Infine: mercati che favoriscano famiglie in cui entrambi gli adulti lavorano (da day-care a negozi aperti 24 ore, a ristoranti che facciano delivery)sono poco sviluppati in Italia; questo appare una conseguenza, ancora una volta, dell’inflessibilita’ del mercato del lavoro che i) rende la domanda per questi servizi bassa (le donne lavorano a casa), e che ii) rende l’offerta costosa o impossibile (per esempio, per tenere aperto un negozio 24 ore).

    • La redazione

      1)Grazie per il ben argomentato. Ma la sua domanda mi stupisce un po’. Se i dati dimostrano che gli orari medi degli italiani che lavorano sono cospicuamente più lunghi di quelli dei concorrenti e il tasso di occupazione è invece più basso, l’unica via sensata per aumentare le ore lavorate per persona in età di lavoro è quella di accrescere il tasso di
      occupazione. Si tratta di una conclusione profondamente e solidamente fondata in quanto è scritto nell’articolo. Il suo punto contiene un rilievo corretto: esiste un equilibrio di offerta di lavoro nella famiglia che non è facile spostare e che anzi può produrre danni quando si prova a spostarlo. E’ esattamente quanto sostengo nel paper pubblicato sulla Rivista delle politiche sociali (3/05), da cui è stato
      tratto il mio articolo. Inoltre si noti che non faccio necessariamente riferimento a politiche di demand management. Ma resta logicamente inoppugnabile che la via fondamentale per l’aumento del volume di ore è l’ampliamento della base occupazionale.

      2) Parlo di aumento di impegno lavorativo complessivo, che giustamente comporta un aumento dell’occupazione femminile, da conseguire attraverso politiche tanto di offerta che di domanda. L’aumento non è urgente perché è falso che l’impegno lavorativo degli italiani sia così sottodimensionato come taluno ritiene, sulla base di statistiche erronee. Anzi, è notevolmente superiore a quello di paesi a noi economicamente vicini. Ed è peggio ripartito.

      3)In Europa, in media, le famiglie sono più solide, ci sono
      meno divorzi, meno aborti che negli USA, meno criminalità, meno miseria, le persone vivono più a lungo ecc. In Italia le famiglie sono forse troppo solide: tanto che i giovani stentano a formare le proprie, la natalità è a livelli di autoestinzione… Come pesare costi e benefici? Come e dove limitare l’area del calcolo dei costi? C’è parecchio da lavorare qui.

      4)Che si tratti solo di un problema di flessibilità del lavoro mi sembra dubitabile. Persino l’Ocse ha dovuto alfine rivedere la sua valutazione della flessibilità del mdl italiano. Ora poi, dopo la legge 30… Esiste infatti un enorme problema di quantità degli investimenti. Negli ultimi 30 anni (si pensi agli effetti cumulati!) la velocità di crescita degli investimenti fissi lordi per persona in età di lavoro dell’Italia è stata pari al 40 per cento circa della media dei paesi G7! Ora la denatalità sta pareggiando i conti. Una parte di questa spaventosa
      carenza strutturale potrà essere spiegata dalla rigidità del mercato del lavoro; ma, evidentemente, ci sono anche altre ragioni, che attengono la finanza, le imprese ecc.ecc.
      Cari saluti ad Alberto Bisin.

      Leonello Tronti

  2. Emanuele

    Leggendo il suo articolo sono rimasto colpito dai dati che lei ha fornito sul lavoro part time nei vari paesi europei. In particolare mi ha impressionato l’enorme divario esistente tra Italia e Olanda per il quale penso sia opportuno dare una spiegazione. Non penso si possa dire che in Italia il lavoro part time non sia né riconosciuto a livello legislativo (vedi la regolamentazione all’interno della legge Biagi) né incentivato. Ma se questo non si è diffuso, pur con una normativa recente che lo regolamenta e lo incentiva, vuol dire, a mio avviso, che le cause devono essere ricercate altrove: sul versante dell’Offerta, su quello della Domanda o (più probabilmente) su entrambi. Sul versante dell’Offerta si potrebbe ipotizzare che tra Italia ed Olanda ci sia una certa eterogeneità di preferenze dei lavoratori nei confronti del mercato del lavoro. In altri termini, può darsi che la società olandese accetti il lavoro a tempo parziale mentre quella italiana non lo faccia. Sul versante della Domanda si potrebbe invece notare una certa riluttanza da parte delle imprese ad accettare lavoratori impiegati part-time considerati quasi come lavoratori di “serie B” (mi è giunta voce di esperienze vissute in azienda dove dei lavoratori che avevano richiesto questo tipo di contratto sono stati emarginati).
    In altre parole quello che penso è che non necessariamente la mancata diffusione di forme contrattuali più flessibili come il part time sia da ricercarsi in un vuoto legislativo ma potrebbe essere dovuta a caratteristiche sociali e culturali tipiche italiane che ancora non riescono ad essere superate.
    In attesa di una sua risposta colgo l’occasione per complimentarmi con lei per il suo articolo chiaro ed esaustivo e per augurarle buon lavoro.

    • La redazione

      La vastissima diffusione del part-time in Olanda non è solo il frutto di una modifica legislativa che lo ha reso più conveniente per le imprese (con un differenziale di costo orario del 5% circa rispetto al tempo pieno). Così come in Italia e in molti altri paesi, anche in Olanda fino agli anni ’80 il part-time era guardato con diffidenza se non con sospetto da molti lavoratori (e datori di lavoro). Poi nel 1983 c’è stato l’Accordo tripartito di Vassenaar, che ha impegnato governo, imprenditori e sindacati ad un lento e progressivo convincimento sociale (negoziato e regolato attraverso l’attivazione di canali concertativi diffusi) del fatto che “un posto e mezzo di lavoro per due persone è certamente meglio di uno solo” (anche se costituisce un ripiego rispetto al pur legittimo obiettivo di due). Sull’esempio dell’esperienza olandese, la flessibilità del tempo di lavoro si mostra preferibile a quella dei rapporti di lavoro, con costi più sostenibili e benefici nettamente superiori (basti pensare al lato fiscale), anche se richiede un intenso e prolungato sforzo di adattamento sociale, un sistema pensionistico fortemente redistributivo e l’accettazione da parte del sindacato di un diffuso ruolo di accompagnamento di una nuova forma di concertazione a livello micro. In Italia il cammino da fare è ancora lungo e richiede almeno l’adeguamento del sistema pensionistico.
      Leonello Tronti

  3. Roberto Seghetti

    Grazie per queste riflessioni. Purtroppo, sembra diventato impossibile parlare seriamente di mercato del lavoro. Gli imprenditori, abituati a salvarsi a suon di svalutazioni e a scaricare sullo Stato le perdite per poi intascare dividendi, pensano prevalentemente a comprimere l’unica voce di budget che considerano “non indispensabile”. Forse è un problema culturale, nato dall’abitudine a chiedere sostegni ai governi e a non pagare gli errori.
    In altri paesi gli imprenditori inventano nuovi prodotti, migliorano quelli esistenti, migliorano il processo produttivo, fanno innovazione tecnologica e – ovviamente- risparmiano anche sul costo del lavoro. Questo sforzo ha permesso ai tedeschi di aumentare la produttività e le esportazioni in una fase di stanca dell’economia e con un mercato del lavoro rigido quanto il nostro.
    Naturalmente ci sono molti problemi nel nostro mercato del lavoro. Bisogna affrontarli. Ma bisogna ricordare che la diffidenza con la quale maestranze e sindacati rispondono agli imprenditori è anche il risultato dell’estremismo di questi ultimi (articolo 18, affossamento della concertazione), oltre che della fote evasione contributiva (un furto della vita futura dei giovani).
    Conclusione: perché non si prendono i dati sugli investimenti in ricerca e tecnologie dei nostri imprenditori privati e li si mettono a confronto con quelli dei colleghi tedeschi, francesi, scandinavi, arrivando alla conclusione che senza questi passaggi ogni intervento sul lavoro non risolve il problema dello sviluppo?
    Perché non si prendono i servizi offerti alle famiglie in Germania, Francia, Scandinavia e li si mettono a confronto con i nostri? Si scoprirebbe perché le donne italiane sono poco coinvolte nel mondo produttivo: svolgono a titolo gratuito funzione sussidiaria di servizi sociali che non ci sono.
    Chiedo scusa per la rozzezza, e ringrazio ancora Tronti. Saranno necessari interventi seri, ma andranno fatti sulla base di riflessioni serie.
    Roberto Seghetti

    • La redazione

      Bisogna distinguere tra le imprese sottoposte ai vincoli della
      concorrenza internazionale e quelle protette. Tra queste ultime ci sono molte aziende monopolistiche e molte aziende con golden share pubblica, che producono beni e servizi che vengono acquistati direttamente dalle imprese esposte e/o dalle famiglie. Le imprese protette hanno visto
      negli anni passati, con le privatizzazioni e il venir meno della mission di pubblica utilità un tempo imposta alle partecipazioni statali, accrescere in modo eccezionale le proprie rendite, in un gioco a somma zero in cui la loro crescita ha comportato l’impoverimento di quelle esposte alla concorrenza internazionale e delle famiglie (soprattutto di quelle il cui reddito dipende dal lavoro dipendente, sottoposto al vincolo di una politica dei redditi nei fatti deflazionistica).
      Sindacati, famiglie, consumatori e imprese esposte alla concorrenza internazionale dovrebbero organizzarsi e premere sul governo e sulle imprese protette perché i monopoli vengano smantellati, e le imprese comunque protette siano sottoposte a controlli molto più stringenti
      sulle loro politiche di prezzo. Solo se il contenimento dei prezzi si accompagna alla moderazione salariale si può avere crescita e competitività. In caso contrario abbiamo poca domanda interna – per i bassi salari – e poca domanda
      estera – per gli alti prezzi: il peggiore dei mondi possibili.

      Leonello Tronti

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