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Alla ricerca di nuove specializzazioni

I paesi a più alto tasso di crescita sono quelli che hanno saputo trovare nuove specializzazioni. Per l’Italia dovremmo perciò riflettere su un “Progetto di sperimentazione industriale su larga scala”. Non risolverà tutti i nostri problemi industriali, ma dovrà rappresentare un metodo nuovo di ricerca e di lancio di nuove specializzazioni fondato sull’imprenditorialità, mirato soprattutto a chi ha ambizioni e idee più che denaro. Quanto alle risorse, finanziarie e umane, si dovranno probabilmente coinvolgere banche e giovani imprenditori stranieri.

Le trasformazioni tecnologiche e industriali in corso esercitano pressioni sulle specializzazioni tradizionali di molti paesi, tra cui l’Italia. Al tempo stesso, creano moltissimi nuovi mercati e industrie. Non a caso, oggi i paesi a più alto tasso di crescita sono quelli che hanno saputo trovare nuove specializzazioni: per esempio, Israele, passato dagli agrumi all’high-tech. Oppure l’India diventata uno dei maggiori esportatori di software. O la Finlandia, da qualche anno un attore chiave della comunicazione wireless.

Sperimentazione e imprenditorialità

Ma come trovare le nuove specializzazioni nel mare magnum di quelle possibili? Secondo Rodrik le parole chiave sono sperimentazione e imprenditorialità.
Vale perciò la pena riflettere su un “Progetto di sperimentazione industriale su larga scala” finalizzato alla ricerca di alcune specializzazioni nuove del nostro paese. Ciò non significa buttare via l’esistente, anzi alcune delle nuove specializzazioni nasceranno dalle competenze delle imprese o dei settori di successo (anche se un po’ di novità sarà necessaria). Né questa è la bacchetta magica che risolverà i problemi industriali dell’Italia, che deve rilanciare anche le competenze organizzative e tecnologiche delle grandi imprese, come discusso ad esempio da Giovanni Dosi e Mauro Sylos Labini. Inoltre, non bisogna confondere il Progetto con l’high-tech. L’ambizione più generale è che il Progetto rappresenti un metodo nuovo di ricerca e di lancio di nuove specializzazioni fondato sull’imprenditorialità, mirato a “stanare” una nuova generazione di imprenditori, soprattutto tra chi ha più ambizioni e idee che denaro.
D’altra parte, mentre l’Italia ha meno vantaggi come “produttore” di nuove tecnologie, ha ottime carte come loro “consumatore”. Nel fare questo, può far leva su due fattori.
Il primo è che lo sviluppo di nuove applicazioni, mercati o prodotti che usano le nuove tecnologie è non solo di per sé un processo creativo, ma si basa su una creatività più consona alle competenze del nostro paese (ad esempio, design, conoscenza dei mercati, tecnologie leggere).
Il secondo è che, proprio perché molte nuove tecnologie sono oggi disponibili, e molte frontiere tecnologiche sono state aperte, i ritorni economici si stanno spostando verso le applicazioni, ovvero verso l’”invenzione” e il lancio di nuovi mercati e usi. Bisogna però essere inventivi e originali cercando opportunità nuove e facendo leva su una intensità di capitale umano più alta che in passato, perché oggi anche l’innovazione e la creatività applicativa, nonché l’uso di tecnologie alla frontiera, si fondano su un grado di qualificazione più alto. Ad esempio, siamo agli albori dell’esplosione delle tecnologie bottom of the pyramid, ovvero tecnologie (computer, cellulari, servizi via cellulari, ma anche moto, auto, o prodotti “italiani” come gli elettrodomestici) a basso costo per i grandi mercati dei paesi in via di sviluppo. Questi spazi saranno così grandi che anche una quota piccola rappresenterà una dimensione di tutto rilievo in valore assoluto.
Il Progetto andrebbe poi articolato su alcuni principi chiave: 1) distinzione tra starting fund (distribuiti quasi “a pioggia” per far partire molti progetti) e development fund (distribuiti molto più selettivamente e concentrati sui progetti che mostrano successi iniziali); 2) selezione dei progetti development basata su parametri oggettivi (brevetti; quote di vendite all’estero; accordi con partner importanti, specie se stranieri); 3) incentivi legati ad investimenti – defiscalizzazione degli investimenti di imprese maggiori o istituzioni finanziarie in nuove imprese, o abolizione per le imprese ad alta intensità di capitale umano dell’Irap, che essendo una tassa sul personale le penalizza in modo particolare.

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Le risorse

Resta la questione delle risorse. Per quelle finanziarie, l’iniziativa del ministro Lucio Stanca di lanciare un Fondo per l’innovazione di 100 milioni di euro va vista con favore. Siamo comunque costretti a sperare nella lungimiranza del nostro sistema finanziario, perché faccia della ricerca di nuovi imprenditori un punto chiave delle sue stesse opportunità di crescita. E per incoraggiarla non sarebbe una cattiva idea attrarre merchant bank straniere che pungolino con la loro concorrenza i nostri mercati.
Forse ben più seria della precedente, è però la questione delle risorse umane.
Italia ha una bassa percentuale di laureati sulla popolazione. (1) Se da un lato occorre aumentare la percentuale di laureati (un processo di medio periodo), dall’altro le importazioni di capitale umano sono ormai un fatto scontato anche negli Stati Uniti. Non solo la quota mondiale di PhD assegnati in materie scientifiche e ingegneristiche in Asia e in particolare in Cina è cresciuta relativamente a quelli assegnati negli Usa e in Europa, ma la quota di scienziati e ingegneri con PhD occupati negli Usa e nati in un paese straniero è passata da 24 per cento nel 1990 a 37 per cento nel 2004. Inoltre, 80 per cento degli indiani e 55 per cento dei cinesi entrati negli Usa dopo il 1990 ha un titolo universitario. Il fatto che gli Stati Uniti, ma anche la Gran Bretagna e la Scandinavia, assorbano l’eccesso di offerta di capitale umano prodotto dalle università indiane e cinesi è un segno di vitalità, non di debolezza: vuol dire che le loro economie domandano più idee di quanto non riescano a produrne internamente.
Anche il Progetto italiano dovrà perciò escogitare qualcosa. Molto probabilmente occorrerà incoraggiare la partecipazione al Progetto (e ai suoi incentivi) di giovani imprenditori stranieri purché realizzino le loro attività in Italia.

Per saperne di più

Daveri, F. e Silva, O. (2004) “Not only Nokia. What Finland tells us about new economy growth”, Economic Policy, April, 117-163.
Dosi, G. e Sylos Labini, M. (2005) “Scienza, tecnologia e crescita industriale, Governare Per, settembre 21,
www.governareper.it.
Freeman, R. (2005) “Does Globalization of the Scientific/Engineering Workforce Threaten US Economic Leadership”, NBER Working Paper 11457,
www.nber.org.
Kapur, D. e J. McHale (2005) “Sojourns and Software: Internationally Mobile Human Capital and High-Tech Industry Development in India, Ireland, and Israel”, in Arora, A. e Gambardella, A. (a cura di) From Underdogs to Tigers: The Rise and Growth of the Software Industry in Brazil, China, India, Ireland, and Israel, Oxford University Press, Oxford UK.
Prahalad, G. e Stuart, H. (2004) The Fortune at the Bottom of the Pyramid, Wharton School Publishing, Philadelphia
Rodrik, D. (2004) “Industrial Policy for the XXI Century”, http://ksghome.harvard.edu/~drodrik/papers.html

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(1) Ocse, Education at a Glance.

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  1. Roberto Castelli

    L’articolo del prof. Gambardella, anche se di grande interesse, a mio modo di vedere, sfugge il problema fondamentale e cioè perchè in Italia investire in ricerca non è conveniente. Non è conveniente per una miriade di motivi che sarebbero troppo lunghi da discutere in questo mio commento. Ma proprio perchè la ricerca e lo sviluppo, insiene alla formazione, sono fondamentali, allora, forse è il caso di allontanarci da una interpretazione rigorosamente liberista della politica economica, rilanciand ad esempio il ruolo, all’interno di una politica industriale moderna, delle imprese (o delle holding) a controllo pubblico. Proprio perchè rispondenti a una logica di lungo termine potrebbero rifuggire dai limiti di un comportamento economico che vuole profitti subito (o quasi). E’ il suggerimento contenuto in un bell’articolo di Giorgio Lunghini sul Manifesto, che invita a riconsiderare il ruolo delle imprese pubbliche, pur avendo ben presente le storture e le deviazioni degli anni passati.
    Cordialissimi saluti

    • La redazione

      L’articolo parla di tecnologie applicative, non high-tech. Liberista? In realtà, sperimentazione = New Deal. Se poi anche il Manifesto si rendesse conto che ci vuole innovazione nel modo con cui lo Stato può intervenire nell’economia la cultura progressista farebbe passi avanti.

  2. Mario Lovera

    Analisi molto interessante su cui però dissento almeno in un punto. Per favore smettetela di dire che in Italia ci sono pochi laureati. In Italia ci sono TROPPI laureati per le esigenze dell’economia del Paese. Lo dimostra il numero di ingegneri che devono emigrare per trovare un lavoro congruo con l’impegno e gli sforzi fatti nei loro studi e il numero di ingegneri che fanno lavori da diplomati standosene in Italia. Per favore smettetela di illudere i giovani che intraprendono gli studi universitari convinti che servano loro per trovare un lavoro “decoroso”, quando una volta usciti dall’università conviene lavorare come cameriere per guadagnare di più che un ingegnere.
    Distinti saluti ecomplimenti per il vostro ottimo lavoro.

  3. Gabriele Orlandi

    Come rappresentante di un’azienda hi-tech (perlomeno, nel senso di rispondenza ai parametri che suggerisce Gambardella), non posso che confermare rispetto ai miei concorrenti esteri la nostra zavorra IRAP, che si accanisce sulle attività ad alto contenuto di capitale umano.
    Buona la proposta, però sull’IRAP la Commissione Europea ha già dato un parere chiaro di incostituzionalità, a prescindere.

    Su laureati e PhD, dati e testimonianze interessanti sono su una pubblicazione recente (www.cervelliingabbia.it), credo che l’adverse selection sia il male più duro da estirpare, tanti o pochi che siano i Laureati.

  4. michele

    Qualcuno ha sottolineato come le tipologie de meccanismi selettivi siano un ostacolo al perseguimento della qualità in diversi settori. Giusto. Faccio un esempio concreto.
    Nelle nostre università, ma anche nelle strutture di ricerca private o aziendali , qualsiasi new entry dotato/a di voglia di fare indipendenza critica viene spesso percepita come un potenziale pericolo, più che come un valore. Non dico che viga il principio della prevalenza del cretino (anche se casi recenti sembrano dimostrarlo), ma non vige quello di premiare l’eccellenza e l’innovatività stando al merito più che alla difesa dello statu quo. Una mia giovane amica ricercatrice in astrofisica (pagata sinora circa 700 euro mensili in Italia e da qualche mese alla Nasa negli Usa con ben altro compenso) mi ha detto che le differenze più grandi che ha percepito non sono, nonostante tutto, il dislivello economico e la minor precarietà. E’ il fatto che, anche se sei l’ultimo arrivato, se hai qualcosa da dire alle riunioni ricercatori famosi ti ascoltano, senza imporre gerarchie nè pregiudizi. Alla pari: poi, ovviamente, altrettanto francamente ti dicono se hai espresso imbecillità o cose di cui tener conto.
    In Italia si è sempre molto parlato della presunta gerontocrazia dei ceti mediobassi, che – con la previdenza – sottrarrebbero risorse alle prospettive future dei giovani. Molto meno si parla di questa struttura gerontocratica diffusa dalle università alle imprese alla politica, che fa ritener “giovani” i sessantanni. Lo sono – forse – ma non è utile che possano condizionare così fortemente la spinta all’innovazione dei giovani in settori chiave. Purtroppo spesso questo dato viene ridotto a un fenomeno di colore, buono per qualche settimanale, mentre è un fenomeno preoccupante, che contribuisce a cristallizzare tutte le strutture, comprese quelle produttive e di ricerca/innovazione diffusa e che andrebbe sviscerato analiticamente.

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