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Declino e caduta di Fazio: il buio oltre la siepe

Fazio è stato il perfetto interprete di un’economia che privilegia il valore delle relazioni rispetto alle forze del mercato, la discrezionalità alla trasparenza delle regole, il dirigismo alla concorrenza, e che usa il pretesto della difesa dell’italianità per proteggere interessi costituiti. Il sistema bancario è stato gestito, con il consenso di molti, con le stesse logiche di molti altri segmenti del nostro sistema economico. Senza una precisa volontà politica, non basterà a mutare questo stato di cose una migliore governance della Banca d’Italia.

Si respira un’aria da caduta del tiranno. C’è sicuramente da gioirne: ma la gioia è destinata a esaurirsi in fretta se non si ha la forza di denunciare i presupposti sui quali la dittatura si fondava, e il coraggio politico di eliminarli. In termini di puro potere economico, Antonio Fazio è stato davvero un dittatore. E la sua dittatura, come quasi tutte le altre, è finita con l’assedio al Palazzo. Il Governatore è stato costretto all’esilio per aver contribuito, con il suo operato, ad abbassare il tasso di legalità del paese, danneggiandone l’immagine internazionale. Se questo fosse il solo problema, sarebbe facile risolverlo: per fortuna, la lista di personalità autorevoli, con le competenze necessarie e ampia credibilità al di fuori dei confini, è lunga.

La governance della Banca d’Italia

La tirannia di Fazio ha messo a nudo anche un problema di governance della Banca d’Italia e, in particolare, l’assoluta autoreferenzialità e discrezionalità del Governatore, che non deve rispondere ad alcuno delle sue decisioni. Anche per questo, la soluzione è a portata di mano. Per esempio, quella prospettata da lavoce.info (o da Guido Tabellini sul Sole 24Ore) è esaustiva e pienamente condivisibile: mandato a termine, decisioni collegiali all’interno del direttorio, trasparenza nelle decisioni della banca centrale e delle sue motivazioni, revoca del potere di nomina di Governatore e direttorio al Consiglio superiore, e trasferimento dei poteri al Governo, con diritto di veto del presidente della Repubblica o del Parlamento, uscita delle banche dal capitale della banca centrale. Il disegno di legge predisposto dal Governo è un primo passo. Ma procede nella giusta direzione.
C’è poi il problema dell’attribuzione alla Banca d’Italia sia del potere di vigilanza sulla stabilità, sia quello sulla concorrenza. Con la conseguenza che troppo spesso si è preferito evitare alle banche sanzioni severe per gli abusi nei confronti dei risparmiatori, con il pretesto di non penalizzarne eccessivamente la credibilità, il conto economico e, quindi, solidità e stabilità. Ma per questo problema, basta sottrarre alla banca centrale la supervisione sulla concorrenza, e affidarla all’Antitrust: cosa che avverrà grazie al disegno di legge governativo nella sua versione emendata. Inoltre, con il regime dell’approvazione preventiva per le acquisizioni bancarie (sempre in nome della tutela della stabilità), si è, di fatto, eretto un muro ai capitali stranieri. Ma per abbattere questo ostacolo, l’intervento della Commissione europea, come in altri settori e paesi, può bastare, se c’è la volontà politica.

Dodici anni passati invano

Ma è il problema più grave quello che trova meno riscontri nel recente dibattito. Fazio aveva utilizzato il suo potere autoreferenziale e discrezionale per sottrarre al mercato la determinazione della struttura del sistema bancario italiano e la selezione della sua classe dirigente.
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Il sistema bancario italiano, dopo dodici anni di tutela e protezione, giustificata col pretesto di promuovere campioni nazionali, soffre ancora di eccessiva frammentazione e nanismo. Le banche hanno lasciato agli stranieri molti dei segmenti all’ingrosso per diventare prevalentemente reti di vendita al dettaglio, che distribuiscono ai risparmiatori prodotti a caro prezzo. E ora faticano a disintossicarsi dalla droga delle alte commissioni. Malgrado tanti sforzi e buoni propositi, il sistema italiano rimane bancocentrico, come dodici anni fa. Nonostante il sistema bancario eserciti un dominio sul risparmio gestito, e il paese abbia uno stock di ricchezza finanziaria tra i più elevati al mondo in rapporto al Pil, la Borsa rimane asfittica (1), ed è servita prevalentemente allo Stato per far cassa, e ai privati per monetizzare partecipazioni di minoranza; non certo per raccogliere i capitali necessari alla crescita. Il mercato del credito non bancario (corporate bond, cartolarizzazioni, derivati su crediti) non è decollato, fermato da abusi e scandali, o utilizzato da banche e Stato più per risolvere i loro problemi di bilancio che per canalizzare risorse al sistema privato.
Sono aumentati gli intrecci di rapporti tra banche e imprese. Un numero crescente di imprese partecipa al capitale azionario delle banche, che a loro volta contribuiscono a perpetuare il controllo di gruppi industriali: partecipazioni che soddisfano logiche di potere, senza creare valore per gli azionisti. Inoltre, privatizzazione e ristrutturazione del sistema bancario, avvenute in gran parte sotto Fazio, sono state asservite alla logica del controllo: così, fondazioni bancarie (singole o in pool), voto capitario nelle aziende cooperative, incroci azionari e patti di sindacato, sottraggono la governance delle banche alla disciplina del mercato e facilitano l’espropriazione dei benefici del controllo agli azionisti di minoranza.
L’approccio dittatoriale di Fazio alla vigilanza non ha impedito in questi anni una lunga serie di dissesti bancari: prima della ex-Lodi, Bipop, Popolare di Novara, Banco Napoli, Banco di Sicilia, Sicilcassa, CaRiPuglia, CaRiCal, CaRiVenezia e tante altre minori. I conseguenti salvataggi sono stati opachi, con la Banca d’Italia che, discrezionalmente, decideva di volta in volta a chi dovesse andare il controllo, invece di tutelare gli interessi di creditori e azionisti con aste e competizioni aperte.
Tutto questo con l’assenso dei più. Nessun despota sopravvive per dodici anni senza il consenso o la connivenza di una parte del paese, e l’opportuno silenzio dell’altra. In tutti questi anni non ricordo che si sia levato un coro di voci critiche. Ma, ogni anno, il gotha del capitalismo italiano si recava in solenne processione a via Nazionale per ascoltare il verbo del Governatore.
La Commissione dell’Unione Europea scopre ora che la legge bancaria italiana conferisce troppo potere discrezionale al Governatore. Meglio tardi che mai. Mi sembra tuttavia che siano le istruzioni di vigilanza, cioè la regolamentazione emanata dalla Banca centrale in attuazione della legge, ad aver fornito la copertura legale all’operato del Governatore. Questa regolamentazione poteva, e doveva, essere messa in discussione ricorrendo ai tribunali amministrativi e alla giustizia europea, come avviene regolarmente con le decisioni di Consob, Antitrust e altre autorità di vigilanza. Ma nessuno lo ha mai fatto, anche quando le fondamenta giuridiche delle decisioni erano discutibili, come nel caso della moral suasion utilizzata per proibire le Opa ostili tra banche italiane. Eppure, né le banche né l’Abi hanno espresso la minima critica: o la vigilianza gli andava bene com’era, o avevano timore di esporsi a ispezioni “di rappresaglia”. In entrambi i casi, una spiegazione pubblica sarebbe ora dovuta.
Le banche sono (caso unico al mondo) azioniste stabili di controllo del primo quotidiano italiano (Corriere della Sera): dubito che il controllo dei media faccia parte della vocazione di una banca, ma nessuno protesta. Durante il regno di Fazio, le banche hanno determinato il destino del controllo dei maggiori gruppi industriali italiani (Ferruzzi-Montedison, Pirelli-Olivetti-Telecom, Gemina, Fiat), spesso mettendo in secondo piano i diritti del mercato e danneggiando i loro stessi azionisti di minoranza (il convertendo Fiat, Parmalat e il gruppo Gemina sono solo gli ultimi esempi). Ma nessuno protesta.
E nessuno si è scomposto quando la Banca d’Italia non ha utilizzato i propri immensi poteri per aiutare la Consob a impedire che un banca partecipasse a un’azione di concerto per scalare una società, evadendo l’obbligo Opa (prima di Antonveneta, Mediobanca con Sai nella scalata a Fondiaria); o addirittura li ha utilizzati per promuovere quella di più banche su Generali, per portare alla rimozione di Maranghi. O quando ha permesso a Capitalia, in chiaro deficit di patrimonio e redditività, di fagocitarsi una banca dietro l’altra (ultima, Bipop).
Negli anni della sua dittatura, Fazio è stato il perfetto interprete di un’economia che privilegia il valore delle relazioni rispetto alle forze del mercato, la discrezionalità alla trasparenza delle regole, il dirigismo alla concorrenza, e che usa il pretesto della difesa dell’italianità per proteggere interessi costituiti. Il sistema bancario è stato dunque gestito, con il consenso di molti, con le stesse logiche di molti altri segmenti del nostro sistema economico: l’università è il primo esempio che mi viene in mente.
La rimozione di Fazio potrebbe essere l’occasione per dare uno scossone a favore della concorrenza, del merito e del mercato a tutto il paese. Ma lo sarà solo se il nuovo Governatore avrà la volontà politica e la determinazione necessaria per superare il prevedibile fuoco di sbarramento di gran parte della classe politica e degli interessi costituiti. Altrimenti, tanta credibilità in più e una migliore governance della Banca centrale serviranno a poco.

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(1) Numerosità delle società quotate e concentrazione della proprietà non sono cambiate significativamente in dodici anni.

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I finanzieri ribaldi e il boccone troppo grosso di Unipol

  1. giuseppe zito

    Ho solo 22 anni, mi sono appena laureato, non sono affatto un sostenitore di Fazio ma odio vedere le persone passare dagli altari alla polvere nel giro di un attimo. Fazio è sempre stato lo stesso, ma che io ricordi i suoi discorsi fino a qualche mese fa (va dato atto a Tremonti di essere stato il primo a muoversi) erano seguiti come quelli di un oracolo, nessuno fiatava, né gli accademici, né i politici, nè la gente comune: gli italiani nessuno escluso continuano ad essere un popolo di voltagabbana! Ancora una cosa, una scuola di pensiero molto affascinante, la public choice sostiene che nel momento in cui si rompono i giochi di potere e si rovesciano/annullano le rendite, allora si verificano i veri cambiamenti!Speriamo bene, ma a mio modo di vedere non speriamo troppo!

  2. marco mattarelli

    L’articolo di Penati denuncia molto chiaramente le lacune e le carenze del sistema bancario. Da presidente di una associazione di piccoli azionisti quale sono, posso solo aggiungere che è la Politica che deve fornire la soluzione al problema di credibilità in cui siamo sprofondati. Si deve provvedere al più presto a varare la legge sul risparmio e sulla riforma della B.I., introdurre dei criteri di separazione fra banca e impresa, definire degli standard etici degli amministratori delle banche,vincolare al rispetto delle norme del codice Preda anche le aziende non quotate, applicare le direttive europee sugli amministratori indipendenti. Insomma ognuno faccia il suo mestiere: gli imprenditori facciano impresa, reddito, occupazione ed i banchieri facciano banca.
    Se il groviglio di ruoli in cui è immerso il sistema si scioglierà, allora si ripristinerà, molto lentamente, la fiducia venuta meno e solo se alle parole seguiranno i fatti si recupererà la credibilità perduta, che in finanza deriva soprattutto dalla reputazione delle persone.

  3. Fred® da Roma

    Apprezzo molto l’equilibrio (non facile) di molti articoli de “La Voce” sulle recenti, drammatiche, vicende finanziarie. E’ chiaro ormai che molti dei “guasti” derivano dalle Regole e da CHI le ha scritte. Tra le tante presenti nella prima bozza del DDL Risparmio e poi scomparse o emendate/stralciate grazie all’opera nefasta delle lobby finanziarie presenti in Parlamento, una sta molto a cuore dei risparmiatori: la Class Action (“cause collettive”). Purtroppo non se ne parla più. Eppure è una di quelle “regole” che, nei Paesi anglosassoni, è stata la chiave di volta per ottenere equi risarcimenti per il c.d. “risparmio tradito”. Un modo piuttosto rapido ed efficiente per “chiedere scusa” ai tanti onesti investitori raggirati anche in quei Paesi.
    Visto il grande valore aggiunto che “La Voce” dà ai suoi lettori, anche in termini “educational”, mi aspettavo che questo argomento venisse ripreso almeno per segnalarne la prematura scomparsa.
    Anche perché, se non erro, uno “stralcio” che giace in qualche Commissione in realtà, a parte il nome, non ha nulla a che vedere con la vera “class action”, made in USA.
    Grazie per l’attenzione.

  4. piero1938

    Come evidenziato da altro lettore, nella nuova legge a tutela del risparmio deve assolutamente essere prevista anche la “class-action”, se non vogliamo vanificare le possibilità di difesa dei diritti dei risparmiatori di minoranza.
    A mercato “nuovo”, regole “nuove”, altrimenti resteremo sempre al rimorchio.

  5. michele

    E’ il ritornello sotteso a tanti commenti sulla vicenda delle scalate bancarie, di Fazio, della necessità di regolamentare i mercati (industriali, finanziari ecc.), commenti caratterizzati da vocazione pedagogico/evangelica più che da coerenza logica.Mi limito a porre una domanda: perchè in questo paese le regolamentazioni attese e invocate non sono mai – dico mai in sede storica – efficaci? Centrosinistra o centrodestra, popolarismo democristiano o craxismo, manca sempre qualcosa e, singolarmente, quel qualcosa è spesso il particolare – più o meno visibile – che condiziona tutto. La continuità dei nostri scandali finanziario/industriali dura da decenni. L’intreccio improprio, a volte una vera e propria collusione, tra poteri e interessi che dovrebbero esser separati e agire almeno da parziale contrappeso altrettanto. La contiguità abnorme tra gruppi di potere politico e altri poteri non è mai messa realmente in discussione, anzi: spesso viene auspicata o tollerata nei fatti mentre la si contesta a parole. Il teatrino della politica, detto senza accento qualunquistico ma intendendo proprio lo spazio della sua rappresentazione, non è quindi l’unico.
    Il livello di trasparenza del nostro paese, nei suoi gangli vitali, è penoso, ma probabilmente costituisce un dato peculiare delle sue condizioni di esistenza.
    Noi invochiamo regole che altrove vigono per recuperare la nostra qualità competitiva, ma non è che la nostra competitività precaria – in realtà – si regge proprio sul misconoscimento di quelle regole e su un sistema “informale” che, più che ideologicamente criticato, dovrebbe prima esser analizzato nella sua funzionalità concreta? L’ analogia forse è spinta, ma constato che altri paesi fondano le proprie condizioni di sopravvivenza/ competitività globale su mix di condizioni “non ortodosse”, ma che funzionano per quanto serve. Forse non apparteniamo più da troppo tempo al contesto culturale/economico/sociale cui crediamo di esser storicamente omologhi?

  6. Alessandro Figà-Talamanca

    L’articolo di Alessandro Penati contiene la seguente frase:
    “Il sistema bancario è stato dunque gestito, con il consenso di molti, con le stesse logiche di molti altri segmenti del nostro sistema economico: l’università è il primo esempio che mi viene in mente”.
    Il paragone è lecito, e forse anche calzante per gli anni in cui la gestione del sistema universitario era affidata ad un omonimo del Governatore Fazio (negli anni successivi, con poche eccezioni, ha prevalso il non governo del sistema).
    Non è invece condivisibile la premessa secondo la quale l’università sarebbe un segmento del nostro sistema economico. Questa premessa dogmatica rende impossibile
    un’analisi empiricamente fondata del sistema universitario.
    Essa sembra avere solo lo scopo provocatorio di precludere qualsiasi dialogo con il mondo accademico, anche quello più attivo ed impegnato. Contribuisce quindi alla conservazione.

  7. Giorgio Trenti

    Il testo di Alessandro Penati è totalmente chiaro.
    Aggiungo che sono state segnalate all’Autorità garante della concorrenza e del mercato le intese restrittive della libertà di concorrenza in favore delle banche di credito cooperativo (violazione dell’art. 2 e dell’art. 1 comma 2 della L. 10/10/1990 n. 287).
    La Banca d’Italia (via Nazionale 91 – 00184 Roma) -che esercita pubbliche funzioni di vigilanza nei confronti delle banche – ha confermato le istruzioni riguardanti la disciplina dell’attività bancaria – in uso già dal 1994 – secondo le quali, nell’ammontare dell’attività nei confronti dei propri soci, sono incluse altre attività, rendendo più facile il rispetto della norma.
    Essa concede – a tutte le banche di credito cooperativo e senza limiti temporali – di computare – nell’aggregato dell’operatività con i soci – anche attività a ponderazione zero (prive di rischio) che non riguardano i soci.
    Solo con questa deroga, le banche di credito cooperativo sono poste in grado di rispettare la condizioni d’operatività prevalente con i soci, disposta dall’art. 35 del testo unico bancario D. Lgs. 1/9/1993 n. 385 e dall’art. 2512 del codice civile.

  8. Marco Arnone

    Al testo di Alessandro Penati, che condivido, vorrei aggiungere che, dato il chiaro fallimento della governance interna di Banca d’Italia, specialmente per quanto riguarda il Consiglio Superiore, i membri del Consiglio dovrebbero dimettersi e si dovrebbe procedere alla nomina di membri estremamente competenti e quanto piu’ possibile indipendenti.

  9. giuseppe

    Luigi Zingales sull’Espresso (n.52) sostiene che l’intera dirigenza della Banca d’Italia deve essere sostituita perchè, complice Fazio, non è rimasta al passo coi tempi. L’opinione va sicuramente condivisa; per esperienza diretta posso solo aggiungere che con Fazio si è andato completando quel disegno perverso che ha portato nel giro di pochi anni al graduale allontanamento dai vertici della Vigilanza del personale più qualificato professionalmente e la sua sostituzione con elementi provenienti dal Servizio Studi e quindi con uomini avvezzi più all’econometria ma del tutto digiuni di diritto e di contabilità bancaria. C’è da augurarsi che il nuovo Governatore sappia procedere con sollecitudine al necessario ricambio della dirigenza favorendo all’interno dei Servizi della Vigilanza l’accesso alle posizioni di vertice al personale dotato delle necessarie competenze professionali che nel campo delle attività del controllo bancario si formano solo attraverso una approfondita conoscenza della contabilità e della tecnica operativa bancaria.

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