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Perché le periferie non “brucino”

Una parte rilevante dell’industria italiana cerca di far fronte alla concorrenza internazionale con strategie di contenimento dei costi. E impiega manodopera immigrata per tenere in vita produzioni low-skilled labor intensive che altrimenti sarebbero delocalizzate. Una strada rischiosa per la specializzazione produttiva del nostro paese e per le prospettive future degli immigrati. Servono invece investimenti in capitale umano e innovazione, oltre a politiche attive dell’immigrazione. Soprattutto, però, si deve liberalizzare il settore dei servizi.

La Francia ha una lunga storia di immigrazione. Nel periodo di forte crescita degli anni Cinquanta e Sessanta, gli immigrati dalle ex-colonie andavano a ricoprire il fabbisogno di manodopera low-skilled nell’industria, soprattutto metalmeccanica. Con la prima crisi petrolifera, l’industria ha smesso di assumere stranieri e progressivamente una buona parte degli immigrati si è riversata nel settore dei servizi o è diventata disoccupata. I figli di questi immigrati non sembrano aver avuto migliore fortuna. Dopo trent’anni, e con la comunità straniera che raggiunge circa il 10 per cento della popolazione, le differenze tra francesi e immigrati sono notevoli: il tasso di disoccupazione degli stranieri è circa il doppio di quello complessivo, ma per algerini, marocchini, tunisini, immigrati da altri paesi africani è di circa il triplo. (1) E nei giorni scorsi, nelle periferie di moltissime città francesi è scoppiato lo “scontento dei figli”.

Può accadere anche da noi?

Gli immigrati presenti in Italia, regolarmente registrati, sono circa il 5 per cento della popolazione, ma il numero dei non regolari è molto elevato. Tra un decennio, pur prendendo in considerazione solo i regolari, raggiungeranno circa il 10 per cento. (2)
La quasi totalità degli incrementi di occupazione nell’ultimo anno è attribuibile all’impiego di immigrati. Una parte assai rilevante di questi lavoratori è impiegata nella manifattura: quasi il 40 per cento nel 2002-2003, molto di più che negli altri paesi avanzati e più della media dell’occupazione italiana. (3) Lavorano soprattutto nelle imprese di piccole e piccolissime dimensioni dei distretti industriali, prevalentemente nei settori che alimentano le esportazioni del made in Italy e dove il valore aggiunto per addetto non è particolarmente elevato. (4) Sono in gran parte Nord-Africani, ghanesi, senegalesi, albanesi, ovvero il gruppo con il più basso grado d’istruzione tra la popolazione straniera in Italia.
Sembra dunque che una parte rilevante dell’industria italiana stia cercando di far fronte alla concorrenza internazionale con strategie di contenimento dei costi e impieghi manodopera immigrata per tenere in vita produzioni low-skilled labor intensive che altrimenti sarebbero localizzate all’estero.
È probabile perciò che l’impiego degli immigrati nelle piccole imprese con difficoltà a internazionalizzarsi sia un fenomeno transitorio: mentre gli imprenditori si attrezzano per la globalizzazione, gli stranieri ricoprono i posti di lavoro che gli italiani non vogliono più. Lavoratori italiani e stranieri sembrano essere dunque complementari. (5)
Questa strategia transitoria, tuttavia, può nascondere alcune fondamentali debolezze. Il lavoro degli immigrati low-skilled, come le svalutazioni competitive del passato, permette alle imprese di non affrontare apertamente i nodi della produttività e dell’innovazione. Ma affrontarli troppo tardi può cambiare la specializzazione produttiva del paese e mutare, sicuramente non in meglio, la posizione dell’economia italiana nella divisione internazionale del lavoro.
D’altra parte, quando queste imprese avranno chiuso o trasferito all’estero le loro attività, gli immigrati che vi lavoravano cercheranno occupazione negli altri settori e, in particolare, nei servizi. Il problema è che in Italia questo settore è assai meno disponibile ad accoglierli. Il comparto low-skilled dei servizi, sia pubblico che privato e con la sola eccezione del lavoro domestico, è infatti tuttora una destinazione privilegiata degli italiani. Si tratta di occupazioni tutelate dalle normative, con buone condizioni di lavoro e salari accettabili, nonostante la bassa produttività. In diversi casi, sono settori protetti. Questo spiega perché in Italia tassisti, addetti alle pulizie, uscieri, autisti di autobus, impiegati del settore pubblico siano ancora prevalentemente di nazionalità italiana. Nonostante i tentativi di liberalizzazione, le normative esistenti rendono ancora difficile anche l’ingresso nelle attività commerciali.

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Le politiche di integrazione

Quando gli immigrati espulsi dall’industria premeranno su queste occupazioni, tenderanno a concorrere con gli italiani. La sostituibilità tra lavoratori italiani e stranieri aumenterà, e questo, senza una crescita sostenuta dell’occupazione, tenderà a creare tensioni fortissime sul mercato del lavoro, e di conseguenza, sul piano sociale e politico.
Come evitare, allora, una situazione come quella francese? La risposta più comune è che bisogna rafforzare le politiche di integrazione. È difficile non essere d’accordo. Ma che significa in realtà? Proprio la Francia sembrava rappresentare un buon modello di politiche di integrazione: consente, ad esempio, la cittadinanza ai figli degli immigrati e abolisce all’anagrafe la distinzione tra comunità etniche.
Una reale integrazione, tuttavia, significa avere anche le stesse opportunità di impiego e di carriera. Questo accade più facilmente quando i tassi di disoccupazione non sono troppo elevati, gli stranieri sono complementari e non sostituti nel mercato del lavoro, e soprattutto quando c’è una buona mobilità sociale. In tutta Europa la mobilità sociale è bassa e in Italia lo è ancora di più.
La concessione di permessi temporanei di lavoro può sembrare una buona strada per soddisfare le attuali esigenze dell’industria italiana. Tuttavia, potrebbe rivelarsi una politica poco credibile e di non semplice implementazione. Può essere accettabile per i lavoratori dell’Est Europa, perché nei loro paesi di origine le nostre imprese stanno investendo e creando rapidamente numerose opportunità di lavoro, ma è difficile che funzioni per i lavoratori africani.
Qualcosa si può comunque fare, e su più fronti. Ad esempio, si può investire con decisione in capitale umano, incentivare gli imprenditori a scegliere con coraggio le strade dell’internazionalizzazione, l’innovazione e i miglioramenti produttivi. Allo stesso tempo, si possono adottare politiche attive d’immigrazione, che disincentivino davvero gli ingressi clandestini, il successivo lavoro irregolare e l’attesa della regolarizzazione. Infine, si deve liberalizzare il settore dei servizi. Con un incremento nelle opportunità di lavoro per tutti, gli stranieri che attualmente lavorano nelle piccole imprese del made in Italy non si troveranno domani disoccupati ed esclusi. Come invece accade oggi ai giovani immigrati della Francia.

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(1) Insee, Enquête Emploi, 2002.

(2) Rapporto Caritas 2005

(3) Istat 2005

(4) Murat, M. S. Paba (2004) “International migration, outsourcing, and Italian industrial districts”, Materiali di Discussione, Dipartimento di Economia, Università di Modena e Reggio Emilia, n. 464.

(5) Venturini A. (2004) “L’effetto dell’immigrazione sui mercati del lavoro dei paesi di destinazione”, Economia Italiana, pp. 645-666

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Sommario 14 novembre 2005

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Alitalia, una sopravvivenza politicamente garantita

  1. Claudio Resentini

    Premesso che ho trovato l’articolo molto interessante e in larga parte condivisibile, intendevo portare un contributo di natura critica alle considerazione relative alle figure “low skilled” dei servizi.
    Tralasciamo pure il settore pubblico dove queste figure sono in via d’estinzione a causa dei processi di privatizzazione e di esternalizzazione. Non mi sembra proprio che in ambito privato, dove invece emergono rapidamente nuove figure riconducibili alla costellazione variegata del “proletario dei servizi”, le condizioni di lavoro siano sempre tanto “decenti”. Tanto è vero che in realtà urbane “avanzate” come Milano anche in alcuni ambiti del terziario la presenza degli immigrati appare già preponderante (si pensi ai servizi di recapito espresso) mentre in altri, complici spesso i processi di outsourcing, sub-appalti, ecc., emergono segnali di deterioramento nelle condizioni di lavoro tali da far pensare che saranno presto abbandonati dalla manodopera “indigena”(ad es. i servizi di reception, guardiania e simili).
    In certi settori, che sembrano giungle, più che di ulteriori processi di liberalizzazione c’è forse bisogno di procedere ad una minima regolamentazione ed a controlli per ripristinare diritti minimi dei lavoratori, persi per strada. E questa strada è la “low road” della rincorsa al business facile: senza investimenti, senza rischi d’impresa e attraverso il ricatto e lo sfruttamento dei lavoratori deboli.
    Cordiali saluti.

    • La redazione

      A Parigi, un francese di famiglia immigrata intervistato da un giornale durante i disordini dei giorni scorsi descriveva con grande frustrazione e scoramento la sua situazione, simile a quella di tanti altri: essere cittadino francese, avere frequentato le scuole insieme a francesi, ma aver trovato al momento del lavoro di essere in realtà diverso; per lui e per quelli come lui solo gli impieghi low-skilled dei servizi, non ambiti dai francesi di origine francese; lavori con scarse o nulle probabilità di miglioramento e carriera.
      La letteratura economica descrive i mercati del lavoro che sono segmentati tra il gruppo con lavori stabili e redditizi e quello con impieghi precari e poco remunerativi come mercati divisi tra insider e outsider. In Italia, questo tipo di divisione esiste da decenni, è ancora piuttosto netta ed è alla fonte di importanti iniquità ed inefficienze. Per questo motivo è essenziale cambiare il sistema e renderlo, sul modello dei paesi del nord-Europa, allo stesso tempo più flessibile e più equo. La maggiore equità si ha con uno stato sociale che garantisce un sussidio a chiunque si trovi temporaneamente e involontariamente disoccupato, e non solo a chi ha già avuto un lavoro stabile e fa quindi parte del gruppo degli insider. Un cambiamento del genere gioverebbe gli italiani nativi e anche gli immigrati. Questi ultimi non si troverebbero a fare gli
      outsider degli outsider, quelli che raccolgono le briciole lasciate dagli altri due gruppi, e la società italiana non si troverebbe tra qualche anno a fare i conti con problemi ancora più profondi di quelli la affliggono oggi.

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