Sommario a cura di Pietro Garibaldi

L’andamento del mercato del lavoro nel primo anno della riforma Biagi e la continua crescita dell’occupazione nonostante la bassa crescita economica. Sono queste le problematiche fondamentali del mercato del lavoro nel primo anno di entrata in vigore della legge 30/2003, analizzate da la voce.info. Sullo sfondo la mancata riforma degli ammortizzatori sociali e i lenti progressi della trattativa sulla riforma degli assetti contrattuali.

Nuovi lavori e nuovi numeri, di Tito Boeri e Guido Tabellini

Dopo quasi un semestre di blackout, l’Istat ha pubblicato la nuova indagine sulle Forze lavoro trimestrali. Era un’indagine molto attesa. Otteniamo i nuovi numeri un anno dopo l’approvazione della Legge Biagi di riforma del mercato del lavoro. Inoltre, si tratta della prima rilevazione ufficiale che utilizza il nuovo metodo di rilevazione “continua” dell’andamento del mercato del lavoro . Infine, le statistiche delle forze lavoro stanno pian piano incorporando gli effetti della regolarizzazione dell’occupazione immigrata, man mano che i nuovi residenti cominciano a entrare nel campione. È un momento di grande cambiamento. Non è facile orientarsi tra i numeri in queste condizioni, ma ci abbiamo provato.

Posti di lavoro e obiettivi di Lisbona

Negli ultimi dodici mesi, il mercato del lavoro italiano ha creato 163mila posti di lavoro. Ciò corrisponde a una crescita dell’occupazione pari allo 0,7 per cento. C’è un rallentamento rispetto all’anno precedente (in cui l’occupazione era cresciuta al tasso doppio, +1,5 per cento), ma è pur sempre un dato importante. Il numero di posti creati è significativo soprattutto alla luce della bassa crescita del prodotto interno, che nello stesso periodo non ha superato l’1 per cento.
E non si tratta di precari. Negli ultimi dodici mesi, sono stati creati quasi 200mila posti di lavoro permanenti a tempo indeterminato, mentre è diminuito di ben 110mila unità il numero di lavoratori a termine.
La maggior parte di questi lavori è però al Nord, mentre nel Mezzogiorno gli occupati sono addirittura calati. La settentrionalizzazione della crescita occupazionale, un fenomeno che già era evidente negli ultimi dodici mesi, continua ininterrotta.
Nonostante i 160mila nuovi occupati, ci allontaniamo da Lisbona, l’obiettivo che conta per chiudere il divario in reddito pro capite rispetto agli Stati Uniti. Negli ultimi dodici mesi, il tasso di occupazione, ossia il rapporto tra occupati e popolazione in età lavorativa, è diminuito. Siamo al 57,5 per cento. Secondo i parametri di Lisbona, dovremmo arrivare al 70 per cento entro il 2010. Un miraggio.
Come si spiega la diminuzione del tasso di occupazione quando l’occupazione cresce? Con la dinamica della popolazione in età lavorativa. È l’effetto immigrati regolarizzati, individui occupati che pian piano stanno entrando nelle forze lavoro, ampliando la base su cui calcoliamo il numero di occupati. Alla luce della composizione settoriale dei nuovi occupati (agricoltura ed edilizia), è probabile che anche la maggior parte dei nuovi occupati siano immigrati regolarizzati.

Gli effetti demografici

Si abbassa anche il tasso di disoccupazione di mezzo punto, scendendo al di sotto dell’8 per cento. Un dato importante, in quanto l’8 per cento era chiaramente una soglia significativa.
Ma questo declino riflette anche un fenomeno demografico. A riprova di questo, il fatto che la riduzione della disoccupazione sia concentrata al Sud, dove anche l’occupazione è in calo. Le coorti che si affacciano sul mercato del lavoro cominciano ad assottigliarsi, pesando di meno sul tasso di disoccupazione. Gli effetti coorte aiutano anche a capire perché l’occupazione aumenti fra gli ultra cinquantenni. Si tratta di persone che erano occupate precedentemente e continuano a esserlo. Le coorti precedenti, soprattutto tra le donne, erano formate da persone che non avevano mai partecipato al mercato del lavoro.
Purtroppo nessuna informazione è ancora disponibile sullo stato di attuazione della Legge Biagi.
Le nuove forze di lavoro dovrebbero registrare anche il numero di occupati sotto forma di collaborazioni coordinate e continuative, ma tale stima non è ancora stata rilasciata.
In parte il blackout continua. Speriamo per poco.

Un anno di legge Biagi, di Armando Tursi

La ex baby sitter dei miei figli, che ancora oggi si occupa di loro di tanto in tanto, mi ha chiesto di spiegarle cos’è il lavoro a chiamata. Gliel’ho spiegato, e lei, confermando la mia idea che l’intuizione giuridica non è prerogativa dei giuristi, mi ha detto: “ma allora io sono una lavoratrice a chiamata!”. Devo confessare che non ci avevo pensato, ma, in effetti, ci sono tutti gli elementi previsti dall’articolo 34 della nuova legge: ha meno di 25 anni, è disoccupata, e l’intesa è stata, finora, che io la chiamassi con un certo preavviso in caso di necessità. Dunque, in virtù della “legge barbara” che mercifica il lavoro, alla mia baby sitter spetterebbe l’indennità di disponibilità (il 20 per cento della retribuzione contrattuale) per i periodi di “attesa” della chiamata. Per fortuna, lei stessa si è subito affrettata a tranquillizzarmi, chiarendo che non sa che farsene del lavoro a chiamata.

Gli obiettivi della legge

I mali da attaccare erano noti: il tasso di occupazione più basso d’Europa, la seconda peggiore performance (dopo il Belgio) nell’occupazione dei lavoratori anziani, la più elevata incidenza europea del lavoro illegale, i più intensi squilibri territoriali del mercato del lavoro.
La “riforma Biagi” è partita dall’assunto che, per curare quei mali, fosse necessario massimizzare la flessibilità dell’offerta di lavoro, e lo ha fatto a partire dall’anello più debole della catena: non già la regolazione del rapporto di lavoro, bensì la diversificazione dei modelli o tipi contrattuali attraverso i quali è possibile procacciarsi lavoro (la cosiddetta “flessibilità tipologica” o “in entrata”). Operazione accompagnata, poi, dal completamento del processo di decentramento e razionalizzazione organizzativa dei servizi per l’impiego, già avviato dal Governo di centrosinistra.
Su questo secondo fronte, la riforma ha prodotto forse gli sforzi più apprezzabili, per comune riconoscimento bipartisan; benché debba constatarsi che sul piano operativo e dei risultati ottenuti siamo ancora quasi all’anno zero.

I punti critici

Ma è la seconda parte della riforma – quella che moltiplica e rimodula i tipi contrattuali flessibili – che lascia più perplessi.
I dati che l’Istat ha appena fornito sembrano confermare un’impressione diffusa, che registra non tanto la temuta destrutturazione del nostrano diritto del lavoro, quanto la scarsa efficacia di istituti quali il lavoro a chiamata, il lavoro gemellato, il part time flessibile, lo stesso staff-leasing all’italiana (somministrazione cosiddetta “a tempo indeterminato”), che paiono inadatti non solo a destare in maniera significativa l’attenzione degli imprenditori, ma anche a stimolare l’offerta di lavoro.
La verità è che la riforma del 2003 ha utilizzato in maniera un po’ confusa strumenti con diversa finalità: andavano infatti meglio distinti gli strumenti di lotta all’esclusione sociale (lavoro a chiamata, contratto di inserimento, prestazioni occasionali di tipo accessorio), da quelli finalizzati a conciliare in maniera ottimale la domanda di flessibilità delle imprese con quella di tutela, ma a sua volta di flessibilità, dei lavoratori (part time, lavoro ripartito, contratto a termine, somministrazione, lavoro parasubordinato, collaborazioni occasionali).
Se ciò si fosse fatto, sarebbe parso chiaro, intanto, che i primi soffrono della concorrenza insuperabile del lavoro irregolare, la cui eliminazione è precondizione per la loro efficacia, oltre che per l’accertamento effettivo della condizione di debolezza occupazionale.
Quanto ai secondi, essi avrebbero richiesto una più attenta calibratura tra flessibilità nell’interesse dell’impresa, flessibilità nell’interesse del lavoratore e semplicità regolativa: se infatti il nuovo part time è troppo poco “women friendly” per poter contribuire a innalzare il tasso di occupazione femminile, il lavoro ripartito, il lavoro a progetto e occasionale, la nuova somministrazione di lavoro e lo stesso lavoro a termine, sono inficiati, a seconda dei casi, e spesso assieme, da eccesso o inefficienza regolativi.
I critici a oltranza della riforma Biagi, peraltro, hanno puntato solo sulle sue reali o presunte iniquità regolative, curandosi ben poco del difetto di fondo, individuabile in una sorta di eccedenza del messaggio politico-mediatico rispetto alla sostanza normativa.

Verso uno “Statuto dei lavori”?

Il risultato, è che dopo il varo di un decreto legislativo composto di ben ottantasei lunghi articoli, e di un decreto correttivo di altri ventuno articoli, resta da scrivere lo “Statuto dei lavori” di cui si parla ormai da un decennio. Resta, per esempio, da allestire la rete di sicurezza sociale resa necessaria proprio dal proliferare di rapporti di lavoro instabili e discontinui, guardando, modernamente, al problema della “sotto-occupazione” più che a quello della “disoccupazione”.
Nel contempo, però, sarebbe necessario rimpiazzare, almeno in parte, molte delle flessibilità inutili introdotte nel 2003, con la flessibilità utile e praticabile, che dovrebbe rispondere a due caratteristiche: 1) dovrebbe riguardare direttamente le “modalità d’uso” del lavoro, anche nei rapporti di lavoro “standard” e non precari; 2) dovrebbe operare in funzione non antisindacale.
Ciò sarebbe possibile se si lasciasse alla contrattazione collettiva la facoltà di decidere in quali casi, a quali condizioni e in quali limiti sarebbe lecito, per i singoli lavoratori e per i singoli datori di lavoro, contrattare individualmente condizioni di lavoro adatte alla situazione specifica, anche se formalmente peggiorative rispetto a quelle stabilite dalle norme inderogabili del diritto del lavoro. Ciò costituirebbe, tra l’altro, anche un arricchimento funzionale della contrattazione collettiva e del sindacato, oggi particolarmente bisognosi di allargare e potenziare le basi della propria legittimazione sociale.

Una riforma in progress, di Riccardo Del Punta

Tracciare, a un anno di distanza, un bilancio della riforma del mercato del lavoro (decreto legislativo 10 settembre 2003 n. 276), è compito tutt’altro che facile. La riforma, anzitutto, è ancora un “cantiere aperto”, pur essendo stati emanati quasi tutti i rispettivi decreti di attuazione.

Qualche prima indicazione

Per alcune novità già in tutto o in parte operative (agenzie per il lavoro, somministrazione, appalto e distacco, part-time, lavoro intermittente, contratto di inserimento, lavoro a progetto), ve ne sono altre che indugiano ai blocchi di partenza (le commissioni di certificazione e l’apprendistato, per il quale alcune Regioni stanno cominciando a muoversi), e altre ancora le cui prospettive sono più remote (la mitica Borsa continua del lavoro, in via di sperimentazione in alcune Regioni, ma della quale pare lontana una realizzazione completa). Ma, anche per gli istituti teoricamente già operativi, di una completa attuazione si potrà parlare soltanto quando la normativa sarà stata metabolizzata da una contrattazione collettiva che appare non così entusiasta, anche perché penalizzata dall’incertezza, ormai cronica, sulle regole del sistema contrattuale. In un contesto così fluido, non stupisce la mancanza di dati disaggregati sull’impatto del decreto e soprattutto delle diverse tipologie contrattuali. Ciò non impedisce di tentare, in attesa della verifica ufficiale prevista per il maggio 2005, qualche riflessione. Il tasso di occupazione è ancora abissalmente distante dai sogni di Lisbona: l’ultima rilevazione Istat lo colloca al 56,5 per cento (quello femminile al 45,2 per cento). Tuttavia l’occupazione continua a crescere, pur ad un tasso più ridotto che in passato. Non è escluso, tra l’altro, che sia cresciuta nelle fasce più passive della popolazione (pressate, nel frattempo, dal caro-vita), la percezione di poter trovare lavoro in tante forme e modi diversi da quello canonico, e che ciò le abbia riavvicinate, quantomeno psicologicamente al mercato. È lecito dubitare, invece, che i nuovi contratti flessibili abbiano sinora dato qualche risultato in termini di emersione del sommerso. Quanto alla distribuzione interna fra le tipologie contrattuali, non sembra essersi verificata la paventata crisi delle collaborazioni autonome, a causa delle rigidità del lavoro a progetto. Ciò perché il decreto Biagi ha consentito la sopravvivenza transitoria, tramite accordo sindacale, delle vecchie co.co.co. (peraltro non oltre il 24 ottobre 2005), e perché la prassi ha saputo riassorbire la novità e trasportare la maggior parte delle collaborazioni sotto l’ombrello del nuovo istituto. Quel che è rimasto fuori è fuggito, di solito, non verso il lavoro subordinato, ma verso la partita Iva o il sommerso. Ma ciò significa pure che la nuova normativa non sembra essere riuscita nello scopo di “scremare” le collaborazioni fasulle, per quanto si debba riconoscerle di aver incentivato le parti a una maggiore trasparenza formale nella redazione dei contratti.

Alla ricerca di una regolazione

Se la questione vera è come adeguare le regole del mercato del lavoro alla realtà del postfordismo, la direzione di fondo additata dal decreto (in sostanziale continuità, mutatis mutandis, con un trend legislativo che risale sino alla legge Treu del 1997), rivolta al rafforzamento della posizione del lavoratore sul mercato, è quella giusta. O, quantomeno, non si vedono in giro progetti alternativi. Ciò non toglie che vi siano ancora aspetti discutibili, e almeno tre grandi incognite. Le prime due concernono le altre indispensabili “gambe” della riforma: i nuovi ammortizzatori sociali e un regime previdenziale da “tarare” anche sui lavoratori precari del postfordismo; il futuro e ancora fumoso Statuto dei lavori, del quale sta discutendo una commissione ministeriale, volto a ridisegnare organicamente il quadro delle tutele, alla luce della centralità acquisita dai lavori flessibili ampiamente intesi. In generale, si tratta di perfezionare in ogni sua parte un progetto di regolazione del mercato del lavoro, adeguato alle nuove sfide della competitività e del rilancio del paese. E si tratta di capire, una volta smaltita la pur inevitabile sbornia della flessibilità, che una compiuta modernizzazione non potrà che passare, nello specifico della realtà italiana, attraverso un’idea condivisa di collaborazione istituzionale fra tutti gli attori del sistema: imprese, lavoratori, sindacati ed enti bilaterali, enti pubblici territoriali, apparati statali. Tale disegno cooperatorio dovrà svilupparsi e articolarsi soprattutto sul territorio, con un auspicabile rincorrersi di best practice, e mirare a un circolo virtuoso fra sviluppo e sostenibilità sociale. Le componenti dovranno esserne una contrattazione collettiva tanto giuridicamente solida quanto capace di rapportarsi alle necessità dei vari settori e distretti, efficienti servizi per l’impiego, una formazione professionale riqualificata, reti di sicurezza per la precarietà, e ovviamente la tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori. Sulla realizzabilità di una siffatta prospettiva regolativa, intesa come possibile “vantaggio istituzionale comparato” del nostro paese, si giocano scommesse forse decisive, oltre che per il diritto del lavoro, per la stessa economia italiana.

Quanto lavorano gli italiani, di Domenico Tobasso

Alla luce dei recenti accordi aziendali che prevedono un incremento delle ore di lavoro in grandi imprese operanti in Francia e Germania, si è tornato a discutere del divario di ore lavorate fra Europa e Stati Uniti e delle asimmetrie in quanto a grado di utilizzo del fattore lavoro che sono presenti all’interno della stessa Unione Europea. Molte analisi, tuttavia, sono basate su una lettura troppo frettolosa dei dati. È quanto mai opportuno allora provare ad analizzare il contesto del mercato del lavoro italiano partendo da numeri che permettano davvero un confronto con la situazione di altri Stati europei e con gli Stati Uniti. In questo compito, un aiuto rilevante è quello che viene offerto dai dati delle inchieste sulle forze lavoro europee, regolarmente condotte dall’Eurostat e nelle quali un’intera sezione viene dedicata all’analisi degli orari di lavoro.
Sulla base di queste informazioni è possibile calcolare gli orari medi di lavoro, sia annuali che settimanali, di diversi lavoratori europei.

Quanto lavorano i dipendenti

La prima osservazione non può non riguardare il numero di ore effettivamente lavorate dai lavoratori italiani, rispetto ai colleghi di altri paesi.

La tabella 1 ci aiuta a sintetizzare il quadro di insieme del carico di lavoro annuale degli occupati dipendenti, fornendo un confronto tra Europa e Stati Uniti sulla base dei dati dell’Ocse sul numero di ore di lavoro annue per occupato. Le note dolenti, per il vecchio Continente non mancano. Come già evidenziato su questo sito da Pietro Garibaldi , la differenza fra i dati americani e quelli italiani è degna di nota; ma ancor più evidente è il gap fra gli Stati Uniti, da una parte, e Francia e Germania, dall’altra. Se infatti il dato d’oltreoceano si attesta poco oltre le 1700 ore di lavoro annuo, e quello italiano intorno alle 1600, nelle due “locomotive d’Europa” si riscontra una media vicina alle 1450 ore. E proprio con riguardo a Francia e Germania le differenze appaiono aumentare nel corso degli ultimi anni. Nel 1995 il numero di ore di lavoro italiane erano pari al 94% di quello statunitense e nel 2001 tale percentuale era pressoché invariata, a differenza di quanto osservato in Francia e Germania, dove le percentuali tra il 1995 e il 2001 sono calate rispettivamente del 6 e del 4%. Con riferimento, dunque, a dati che rapportino il numero di ore di lavoro al numero di occupati, la performance italiana appare complessivamente più vicina a quella degli Stati Uniti che alle nazioni dell’Europa Continentale.

Tabella 1

Numero di ore di lavoro annuo per lavoratore occupato

1995

2001

Italia

1636

1619

Germania

1520

1444

Francia

1567

1459

Spagna

1815

1807

Regno Unito

1739

1707

Stati Uniti

1737

1724

È poi possibile un’analisi dei dati su base settimanale. Prendendo in considerazione i maggiori paesi europei, il numero di ore di lavoro in Italia risulta essere esattamente il linea con la media europea oltre che decisamente superiore a quello di Francia e Germania. Ciò vale sia per le ore di lavoro settimanali che per il numero di settimane lavorative in un anno. A proposito di questo ultimo dato è possibile aggiungere che in base a statistiche elaborate dall’Ilo (International Labour Organization), il numero di settimane lavorate da un cittadino americano nel 2002 è risultato essere pari a 40,5, dunque in linea con i dati europei. Tuttavia, puntare a una comparazione precisa fra le due banche dati sarebbe poco corretto: i dati europei si riferiscono ai soli occupati dipendenti, mentre quelli dell’Ilo si riferiscono all’insieme dei lavoratori statunitensi.

Tabella 2

Ore di lavoro settimanali

Settimane di lavoro in un anno

Settimane di vacanza

Settimane interamente non lavorative non per ferie

Settimane parzialmente non lavorative non per ferie

Italia

37.4

41

7.9

1.8

0.3

Francia

36.2

40.5

7

2.2

0.5

Germania

35.2

40.6

7.8

1.9

0.3

Regno Unito

38.2

40.5

6.5

1.8

1.6

Spagna

38.8

42.2

7

1.3

0.4

Vacanze e permessi

Dunque, da dove deriva la (peraltro diffusa) convinzione che i ritmi lavorativi italiani siano più blandi rispetto agli a quelli degli altri paesi industrializzati? Le ultime colonne della tabella 2 possono indirizzarci verso una prima risposta: le vacanze dei lavoratori italiani risultano più lunghe rispetto a quelle degli occupati europei. In media un dipendente italiano dispone di 7,9 settimane di vacanza all’anno, contro le 7 di francesi e spagnoli e le 6,5 dei britannici. E tuttavia, volendo calcolare il numero complessivo di giorni non lavorati è necessario tener conto dei giorni persi non solo per ferie, ma anche per motivi quali assenze per malattia, maternità, permessi. L’Italia è fra i paesi in cui questi permessi vengono meno utilizzati (anche perchè ci sono meno donne che lavorano). quindi, quando si guarda al numero complessivo di settimane non lavorate, non si notano forti differenze fra l’Italia (10 settimane all’anno) la Germania (anch’essa 10). la Francia (9,7) e la Gran Bretagna (9,9).

Breve storia dell’articolazione articolata, di Pietro Ichino

All’origine ci fu la tornata dei rinnovi contrattuali dei primi anni Sessanta, che sancì l’inizio della contrattazione articolata: i contratti collettivi nazionali di settore restavano il pilastro portante del sistema, ma contenevano le clausole di rinvio alla contrattazione aziendale per due materie: il premio di produzione e l’inquadramento professionale. E fissavano i relativi criteri vincolanti.

Dall’autunno caldo al protocollo Scotti

Al termine del decennio, quel sistema di contrattazione articolata venne messo in crisi da un vasto movimento di lotta, in larga parte spontanea, tendente a liberare la contrattazione aziendale dai vincoli nazionali. Nell’“autunno caldo” del 1969 le trattative per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici rimasero bloccate per tre mesi proprio su questo punto; e si sbloccarono soltanto con un “disaccordo tacito” su questo punto – patrocinato dal ministro del Lavoro dell’epoca Carlo Donat Cattin – che sostanzialmente segnava la fine del sistema di articolazione contrattuale. Da quel momento in avanti la contrattazione aziendale sarebbe stata libera di svilupparsi anche al di fuori dell’alveo tracciato dal contratto nazionale, persino rimettendo in discussione le materie da esso già compiutamente regolate.

Durante gli anni Settanta le cose andarono proprio così: la contrattazione aziendale, promossa e gestita dai consigli di fabbrica, poté svolgersi al di fuori di qualsiasi coordinamento vincolante con la contrattazione nazionale. Ma i due livelli di negoziazione poterono convivere e sovrapporsi disorganicamente soltanto fino a quando il movimento sindacale ebbe la forza per imporli entrambi alla controparte. Quando, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, la crisi economica incominciò a mordere duramente nel vivo del tessuto produttivo e il movimento sindacale incominciò a perdere colpi, la Confindustria poté porre come condizione per il rinnovo dei contratti collettivi nazionali il ripristino di regole di coordinamento vincolanti per la contrattazione aziendale. Ne seguì per quasi due anni la paralisi della contrattazione collettiva al livello nazionale; alla fine Cgil Cisl e Uil dovettero accettare il ritorno a regole vincolanti sull’articolazione del sistema contrattuale.

La crisi del sistema di relazioni sindacali si risolse con il protocollo Scotti del gennaio 1983, che aprì la strada ai rinnovi dei contratti nazionali, ma al prezzo del ripristino del sistema delle clausole di rinvio tra il contratto nazionale e il contratto aziendale. In altre parole: Cgil Cisl e Uil poterono riattivare la contrattazione al livello nazionale soltanto spendendo la “moneta di scambio” di un controllo effettivo sui contenuti della contrattazione aziendale. E, nonostante le divisioni tra loro, le tre confederazioni mostrarono di saper tener fede all’impegno contrattuale: nel corso degli anni Ottanta il nuovo sistema funzionò con un tasso altissimo di effettività.

L’accordo del 1993

Il sistema delineato dal protocollo del 1983 venne perfezionato e integrato dieci anni dopo con il protocollo Ciampi del luglio 1993, che stabilì una cadenza biennale della contrattazione nazionale degli standard retributivi minimi, ne fissò il criterio agganciando gli aumenti al “tasso di inflazione programmato” e demandò alla contrattazione aziendale l’adeguamento delle retribuzioni agli incrementi di produttività o redditività delle singole imprese.

Debellata l’inflazione, entrata l’Italia nel sistema monetario europeo, gli spazi di una negoziazione dei minimi retributivi al livello nazionale, secondo le regole del protocollo Ciampi, si riducono di molto. E a rincarare la dose si aggiungono le proposte di Confindustria da un lato, di Cisl e Uil dall’altro, tendenti in vario modo a spostare il baricentro della contrattazione dal centro verso la periferia. Da molte parti si osserva che il collegamento alla produttività o alla redditività aziendale di una porzione più ampia della retribuzione potrebbe consentire notevoli incrementi effettivi della retribuzione complessiva distribuita. Da molte parti si osserva, altresì, che consentire una differenziazione regionale di quei minimi potrebbe giovare allo sviluppo del Mezzogiorno, dove peraltro minimi inferiori sarebbero giustificati dal minore costo della vita. Di qui anche la proposta di consentire la deroga ai minimi stabiliti dal contratto nazionale, mediante contratto collettivo regionale o provinciale, in funzione di politiche di sviluppo concertate nella sede decentrata.

La Cgil e il contratto nazionale

Senonché ridurre lo spazio del contratto nazionale rispetto a quello riservato alla contrattazione periferica significa – per definizione – aumento delle differenze retributive da regione a regione e/o da impresa a impresa; ed è proprio a questa differenziazione che oggi la Cgil si oppone. E non si limita a opporsi, ma sembra spingersi a rivendicare un aumento del peso del contratto nazionale rispetto a quello attribuitogli dal protocollo Ciampi.

Dall’ala sinistra della Cgil e in particolare dalla Fiom si chiede, più specificamente, che gli aumenti retributivi contrattati al livello nazionale siano svincolati dal tasso di inflazione programmato, restando inderogabili gli standard minimi. Si invocano, a sostegno di questa linea, le ragioni della solidarietà: si vuole che i comparti più forti di ciascuna categoria possano aiutare i più deboli, in un sistema che riduca al minimo le disuguaglianze. Ma a questa linea d’azione si contrappone un interrogativo: i lavoratori delle regioni più arretrate del paese traggono davvero vantaggio da standard minimi elevati, uguali per tutto il territorio nazionale? Riescono davvero ad accedere a un lavoro regolare rispettoso di quegli standard? Oppure l’effetto di una politica di questo genere è solo di favorire, in quelle regioni, il dilagare del lavoro irregolare?
Più in generale, l’ala sinistra della Cgil chiede che si volti pagina rispetto a una lunga stagione di politica dei redditi; che si volti pagina, in particolare, rispetto ai vincoli posti non solo alla contrattazione nazionale delle retribuzioni, ma anche a quella aziendale, dal protocollo Ciampi del 1993.
Vi sono alcune analogie evidenti tra questa rivendicazione e quella sulla quale divamparono le lotte dell’autunno caldo del 1969. Ma le condizioni attuali di unità e di forza del movimento sindacale sono molto più simili a quelle dei primi anni Ottanta che a quelle della fine degli anni Sessanta. Come nei primi anni Ottanta, anche oggi la Confindustria può rispondere a quella rivendicazione con il rifiuto di stipulare, a quelle condizioni, il contratto nazionale. E a quel punto – piaccia o non piaccia alla Cgil o alla sua ala sinistra – lo spostamento dal centro alla periferia del baricentro del sistema delle relazioni sindacali si verificherebbe nei fatti, senza bisogno di alcun accordo-quadro.

Contratti: a chi serve lo status quo, di Tito Boeri

Un tavolo chiuso ancora prima di aprirsi

Il tavolo sulla nuova concertazione è partito male. La Cgil ha abbandonato la trattativa prima ancora si aprisse perché i) si discuteva di riforma degli assetti contrattuali senza avere raggiunto una posizione unitaria all’interno del sindacato e ii) si sarebbe rischiato di ritardare la conclusione di molti contratti, in attesa dell’introduzione delle nuove regole (vedi la dichiarazione di Patta su www.cgil.it nella sezione Ufficio Stampa). Ma Confindustria si è dichiarata disposta a concedere un periodo di moratoria in cui continuare ad applicare le vecchie regole, chiudendo dunque tutte le trattative in corso per il rinnovo dei contratti con le regole dell’accordo del luglio del 1993. Quindi il vero ostacolo sulla strada della riapertura del dialogo rimane la divisione nel sindacato circa gli assetti contrattuali.

Le divisioni nel sindacato

Cisl e Uil si sono da tempo espresse a favore di un maggiore decentramento della contrattazione, mentre la Cgil si erge a difesa degli accordi del luglio 1993, in nome di principi di egualitarismo e di difesa dei lavoratori più deboli. In altri interventi su questo sito si è discusso perché le regole introdotte nel 1993 possano essere poco adatte a gestire la contrattazione dopo l’entrata del nostro paese nell’euro, ora che non è più possibile ricorrere alle cosiddette svalutazioni competitive (vedi il dibattito sul Tip e sulle forme di contrattazione). Ci preme qui, invece, giudicare in che misura gli assetti attuali siano davvero in condizione di tutelare i lavoratori più deboli, come sostenuto al tavolo della trattativa dalla Cgil.

Chi beneficia del secondo livello?

Come è noto, l’accordo del luglio 1993 prevede un doppio livello di contrattazione: nazionale e aziendale.

Il secondo livello dovrebbe in principio essere collegato all’andamento della produttività e può solo incrementare il salario rispetto ai minimi nazionali. Proprio in virtù di questo “effetto sommatoria”, i contratti di primo livello fissano minimi relativamente bassi, lasciando spazio ad accordi integrativi (additivi) aziendali. Chi lavora in imprese in cui c’è anche contrattazione di secondo livello perciò beneficia, a parità di altre condizioni, di salari più elevati degli altri lavoratori. Difficile stabilire di quanto. La contrattazione decentrata comporta mediamente incrementi del 3-4 per cento rispetto al salario nazionale. Sommata su più rinnovi contrattuali, questo incremento può, nel corso del tempo, creare differenziali salariali di un certo livello per le regole della capitalizzazione composta. Bastano quattro rinnovi contrattuali per creare differenziali salariali dell’ordine del 20 per cento.

Ma chi sono i lavoratori che beneficiano della contrattazione di secondo livello? Sin qui si sapeva poco a riguardo, se non che i lavoratori nelle imprese coperte dalla contrattazione di secondo livello sono circa un terzo del totale. Grazie a una indagine Eurostat sulla struttura delle retribuzioni (per ora sono disponibili solo i dati riferiti al 1997) è possibile saperne di più. Il grafico qui sotto, tratto da questa indagine, riproduce il grado di copertura della contrattazione di secondo livello (la percentuale di lavoratori che operano in imprese in cui si pratica la contrattazione di secondo livello) per decile di reddito. Il primo decile corrisponde al 10 per cento di lavoratori con salari più bassi, il secondo decile al 10 per cento di lavoratori con salari più alti del primo decile, ma inferiori al quelli del terzo decile e così via.

Il messaggio del grafico è molto chiaro: non sono certo i lavoratori più deboli a beneficiare degli attuali assetti contrattuali. Il grado di copertura della contrattazione di secondo livello cresce col reddito dei lavoratori anche perché si svolge soprattutto nelle imprese di grandi dimensioni che, a parità di altre condizioni, offrono retribuzioni più elevate delle imprese più piccole. I lavoratori con i salari più bassi, spesso impiegati nell’impresa minore, non vengono perciò messi nella condizione di partecipare a potenziali incrementi di produttività raggiunti nell’impresa in cui operano.

Se il sindacato ha davvero interesse a proteggere i lavoratori più deboli o a offrire loro almeno le stesse opportunità di quelli meglio retribuiti, dovrebbe allora preoccuparsi di far sì che la contrattazione aziendale avvenga anche nelle imprese in cui operano i lavoratori con salari più bassi. Dato che non sembra in grado di imporre un secondo livello di contrattazione in queste imprese, meglio evitare che la contrattazione integrativa sia sempre e comunque penalizzante per il datore di lavoro. Ciò significa permettere alla contrattazione integrativa di sperimentare schemi retributivi che mettano davvero in relazione il salario alla produttività, prevedendo dunque variazioni sia in positivo che in negativo a partire da una componente fissa della retribuzione.

In ogni caso, l’attuale sistema di contrattazione impedisce a molti lavoratori, soprattutto ai più deboli, di partecipare a incrementi di produttività e permette anche forti differenziali salariali a favore di un gruppo ristretto di lavoratori delle grandi imprese, in cui si svolge contrattazione di secondo livello. La Cgil professa la necessità di aumentare la quota dei salari sul prodotto e ha fatto dell’egualitarismo un proprio cavallo di battaglia. Alla luce di questi obiettivi, farebbe bene ad accettare quanto meno di discutere di riforme degli assetti contrattuali, anziché ergersi a difesa dello status quo.

Un taglio elettorale, di Tito Boeri e Guido Tabellini

L’idea di aumentare per legge le ore lavorate sembra rientrata. L’attenzione del Governo si è invece spostata sui tagli di imposta. Il cambiamento di enfasi e di strumento è quanto mai opportuno.
Una riduzione del prelievo contributivo sul lavoro, finanziata da un taglio di spese di pari importo, può avvicinarci agli obiettivi di Lisbona. Il taglio per legge delle ferie rischia, invece, di aumentare il divario in ore lavorate con i paesi che crescono di più, a partire dagli Stati Uniti.

Perché i tagli alle ferie aumentano il divario in ore lavorate

L’occupazione dipende dal costo del lavoro per ora lavorata.
Imporre per legge un numero di ore lavorate diverso da quello liberamente scelto dalla contrattazione privata può solo creare inefficienze e far salire il costo orario del lavoro.
Già il governo Jospin in Francia aveva provato a imporre per legge un orario ridotto, nell’illusione di aumentare il numero di occupati. Il risultato è stato aumentare il costo delle ore lavorate, a scapito di tutti.
L’operazione inversa, aumentare per legge il numero di ore lavorate da ogni individuo, avrebbe lo stesso effetto. Lo stipendio mensile aumenterebbe, probabilmente più che in proporzione per compensare le inefficienze create dall’intervento legislativo.
Chi ha già un impiego probabilmente lavorerebbe di più, ma ci sarebbero meno persone con un lavoro. E aumenterebbe il divario in ore lavorate con gli Stati Uniti – un divario nella percentuale di persone che hanno un lavoro molto più che nel numero di ore lavorate da chi un impiego ce l’ha (vedi lavoce.info 25/03/2004).
È meglio quindi lasciare alla contrattazione fra imprese e lavoratori la scelta su come compensare i lavoratori alla fine del mese (se con più salario o con più tempo libero).

Perché riduzioni del prelievo fiscale e contributivo sul lavoro possono servire

Se davvero vogliamo aumentare il numero di ore lavorate, la via maestra è quella degli incentivi, e in particolare delle riduzioni del prelievo fiscale e contributivo sul lavoro.
Oggi si lavora poco anche perché i redditi da lavoro sono tassati troppo.
Le conseguenze delle imposte sui redditi da lavoro dipendono da chi ne sopporta l’onere: se le imprese, che pagano un costo del lavoro più elevato, o i lavoratori, che ricevono un salario netto più basso.
Nel caso dei lavoratori che non sono tutelati dal sindacato, l’onere delle imposte è principalmente su di loro. Gli effetti dei tagli fiscali quindi si esplicano soprattutto attraverso un aumento del salario netto e tramite l’offerta di lavoro. Molti studi dimostrano che la crescita dei salari netti induce aumenti più rilevanti dell’offerta di lavoro tra chi è ai margini del mercato del lavoro, soprattutto tra le donne e i giovani. In Italia il 30 per cento delle madri non torna al lavoro dopo la maternità e quasi la metà di coloro che sono in cerca di prima occupazione hanno almeno un diploma di scuola secondaria. Si tratta in entrambi i casi di lavori potenzialmente ad alta produttività, dunque in grado di generare una forte riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto e far crescere l’economia. Lo strumento per concentrare i tagli d’imposta su queste categorie di lavoratori sono le detrazioni fiscali.

Un seconda distorsione sull’offerta di lavoro riguarda i redditi alti. Qui il colpevole è un’elevata aliquota marginale. Lo strumento per porvi rimedio è ridurre la progressività delle imposte, che in Italia resta elevata. Ma la distorsione è meno rilevante della precedente, perché i lavoratori coinvolti sono un numero più esiguo.

Quando i lavoratori sono tutelati dal sindacato, possono riuscire a scaricare sul datore di lavoro buona parte dell’onere fiscale. In questo caso, le imposte sul lavoro hanno anche un effetto sulla domanda di lavoro. Abbassare il prelievo farebbe scendere il costo del lavoro per le imprese e quindi potrebbe favorire la creazione di nuovi posti di lavoro. Anche qui vi sono studi che mostrano la rilevanza di questo effetto. Lo strumento per raggiungere questo obiettivo è una riduzione generalizzata del prelievo fiscale complessivo (Irpef e contributi sociali) sui redditi da lavoro medio-bassi nel settore privato. Questo intervento potrebbe anche facilitare un maggiore decentramento territoriale della contrattazione. Molti lavori a bassa produttività sono concentrati al Sud. Uno sgravio fiscale su questi redditi potrebbe forse indurre il sindacato ad accettare riduzioni del costo del lavoro che non abbassino i salari netti dei dipendenti e facilitare l’emersione del sommerso, oggi per l’80 per cento concentrato al Sud.

Queste riduzioni del prelievo fiscale per i salari bassi sarebbero un primo tassello importante di un nuovo sistema di welfare compatibile con forti incentivi al lavoro. Potrebbero essere finanziate tagliando le spese per “politiche attive del lavoro” di assai dubbia efficacia, che oggi ammontano a circa lo 0,6 per cento del Pil. È anche possibile (ma per prudenza, è meglio non contarci) che una parte della riduzione delle imposte possa essere finanziata dall’aumento della base contributiva legata all’emersione del sommerso.

Ma è questo l’obiettivo del Governo?

Ma sarebbe ingenuo pensare che l’azione del Governo sia motivata solo o soprattutto da questi criteri di efficienza economica. La principale motivazione politica per abbassare le imposte non è certo quella di aumentare le ore lavorate. La vera ragione sono le imminenti elezioni europee. L’evidenza empirica tratta da un ampio campione di democrazie mostra che, in un anno elettorale, in media il disavanzo fiscale sale di quasi mezzo punto di Pil, prevalentemente per via di tagli d’imposta. In Italia lo aveva fatto anche il governo Amato prima delle precedenti elezioni politiche. Ora lo farà il governo Berlusconi, prima di quelle europee. Anche l’entità del taglio promesso (6 miliardi di euro) è perfettamente in linea con l’esperienza dei cicli elettorali in questo e in altri paesi.
Non è detto che questa motivazione elettorale per i tagli d’imposta riduca i loro effetti benefici sull’economia. Per certi aspetti, i tagli possono anche ridurre gli effetti negativi del ciclo politico. Poco dopo le elezioni europee vi saranno le elezioni politiche, ovviamente ancora più importanti per il Governo. Si può immaginare che l’assalto alla diligenza del bilancio dello Stato sarà quasi irresistibile. È meglio quindi se la cassa è già stata svuotata, perché questo renderà più difficile spendere di più l’anno prossimo. Sempre che la cassa non sia già vuota, perché i primi dati disponibili sul fabbisogno nel 2004 sono tutt’altro che incoraggianti. Inoltre, casse vuote possono anche ostacolare tagli mirati della spesa, o riforme strutturali che richiedono misure di compensazione.

Siamo troppo cinici a imputare una motivazione prevalentemente elettorale per i tagli d’imposta che il Governo si accinge a promettere? Il Governo ha un modo credibile per smentire questa interpretazione e mostrare le sue buone intenzioni: accompagnare ogni taglio di imposta con riduzioni di spesa di pari importo.
Renderebbe i tagli credibili e sostenibili, quindi più efficaci nei loro effetti di stimolo della crescita. Come suggerito da diversi studi, i tagli di imposta che non implicano un aumento del disavanzo riescono ad avere effetti maggiori sulla crescita.

Come lavorare di più, di Pietro Garibaldi

Le giornate di lavoro pro-capite hanno recentemente conquistato il centro della scena nel dibattito sul mercato del lavoro italiano.
Due sono i motivi di questa enfasi. Da un lato, si è osservato che le ore di lavoro annuo per lavoratore occupato in Italia sono inferiori a quelle degli Stati Uniti: 1.619 contro 1.724.
Dall’altro, si è molto discusso della proposta del presidente del Consiglio di ridurre le festività o almeno razionalizzare la loro posizione all’interno della settimana al fine di aumentare la produzione nazionale.
Sorprendentemente, la discussione ha completamente ignorato il ruolo della contrattazione collettiva, e ha analizzato il problema come se il numero di giornate lavorative potesse essere deciso per legge.

Per legge o per contratto

In Italia, come in ogni paese, il numero di giorni lavorati viene contrattato dalla parti sociali e non viene stabilito per legge.
I contratti nazionali di categoria, in qualunque settore del sistema economico, contengono precisi riferimenti al numero di giorni lavorati e al numero di giorni di ferie retribuite per ciascun livello salariale.
Tutto ciò che la legge può stabilire è soltanto il numero di festività.

Supponiamo che il numero di festività venga effettivamente ridotto. Due sono le domande da porsi. Primo, alla riduzione seguirebbe automaticamente un aumento del numero di giorni lavorati? Secondo, che effetto si avrebbe sul prodotto interno lordo?
Analizziamo la prima. Nel breve periodo, a contratti nazionali invariati, il numero di giorni lavorati probabilmente aumenterebbe, in quanto i contratti vengono rinnovati con scadenze pluriennali.
Nel lungo periodo, tuttavia, la risposta è più incerta, perché dipende in modo cruciale da come i rinnovi contrattuali reagiranno alla riduzione di festività. Potrebbero benissimo, ad esempio, aumentare il numero di ferie e rendere nullo l’impulso iniziale.

Ma veniamo alla seconda e più importante domanda. Quale effetto si avrebbe sul Pil, nel breve periodo, da una riduzione delle festività? La risposta a questa domanda è molto incerta.
Innanzitutto, occorre ricordare che il Pil (prodotto interno lordo, valore aggiunto) è grosso modo uguale alla somma di profitti e salari dell’economia. È ovvio che se aumenta il numero di giorni lavorati, ma il monte salario percepito dai lavoratori rimane invariato, più ore lavorate non si trasformano direttamente in aumento del valore aggiunto. Tuttavia, a un aumento delle ore lavorate dovrebbe seguire una crescita della produzione, delle vendite, dei profitti, e quindi del valore aggiunto. Ma affinché questa catena di eventi si manifesti, è comunque necessario che la maggiore produzione incontri una domanda sufficiente. E se i salari rimangono costanti, non è ovvio che la domanda aggregata alla fine aumenti davvero.
In sostanza, nel breve periodo il Pil potrebbe anche restare invariato.

Uno scambio tra ferie e reddito

Ma la questione più importante è come far sì che aumenti in Italia il numero di ore lavorate pro-capite.
I ragionamenti precedenti suggeriscono che l’unico modo è attraverso la contrattazione collettiva. Ricordiamo infatti che le ferie sono giorni completamente retribuiti e che un individuo non accetterà mai una riduzione di ferie con un aumento di lavoro a parità di salario. Questa è la base della teoria dell’offerta di lavoro.
Si potrebbe però ottenere un aumento di giornate lavorate proponendo ai lavoratori uno sgravio fiscale in cambio di un aumento del numero di giornate lavorate.
In ciascuno dei più importanti contratti collettivi, il Governo potrebbe offrire una totale de-contribuzione di tutte le ore lavorate in eccesso a un numero prestabilito, diverso per ciascun contratto. I cittadini lavoratori sarebbero messi di fronte a un semplice trade-off: ridurre il numero dei giorni di ferie in cambio di un aumento di reddito disponibile.
E le imprese potrebbero così ridurre il ricorso allo straordinario, un strumento molto utilizzato nonostante l’onerosità del costo.
Che impatto avrebbe questa misura sulle casse dell’erario? Ci sarebbero due effetti.
Da un lato, il gettito diminuirebbe, in quanto si sostituirebbero ferie regolarmente tassate con giorni lavorativi esenti da tassazione. Ma probabilmente aumenterebbero la produzione e il reddito, con effetti positivi finali sul gettito.
Certamente, diminuirebbe il gap di ore lavorate tra Italia e resto del mondo..

Il sindacato nella riforma del lavoro: di Armando Tursi

La “riforma Biagi” contiene numerosi paradossi. Il più segnalato finora è quello dell’apparente sfavore per i rapporti di lavoro parasubordinati (vedi il dibattito su lavoce.info).
Vorrei qui segnalarne un altro, di ben più ampia portata, anche culturale: riguarda il ruolo del sindacato nel disegno riformatore.
Con il decreto legislativo n. 276/2003 la ormai ventennale tendenza legislativa a delegare funzioni paralegislative alle parti sociali ha toccato il culmine: in questo provvedimento si ritrovano una sessantina di rinvii alla contrattazione collettiva.

A che servono i rinvii

I rinvii servono a integrare previsioni legislative incomplete (per esempio, in tema di lavoro ripartito, l’articolo 43 del Dlgs n. 276/2003), oppure a derogare a tali previsioni in direzione di una maggiore “flessibilità” della disciplina del rapporto di lavoro.
Non mancano previsioni di sapore sadomasochistico, come quelle che rimettono ai contratti collettivi la definizione dei periodi durante i quali è preclusa la possibilità di introdurre limitazioni quantitative al ricorso al lavoro temporaneo (vedi l’articolo 10 e l’articolo 20 del Dlgs n. 276/2003).
Talvolta il dono dei Danai è reso necessario, e ben accetto alle Minerve sindacali, proprio dall’irragionevolezza della norma: esemplare, in proposito, è la previsione della “transizione” graduale dalle vecchie “co.co.co.” al “lavoro a progetto”, affidata a provvidenziali accordi aziendali (articolo 86, comma 1 del Dlgs n. 276/2003).
Non sono rare, infine, le ipotesi in cui il “rinvio” è del tutto inutile, poiché la norma non attribuisce alle parti sociali alcun potere che esse già non detengano in virtù del generale principio di libertà negoziale privata: per esempio, quando si dice che i contratti collettivi “possono determinare condizioni e modalità della prestazione lavorativa” nel rapporto di lavoro a tempo parziale (articolo 1, comma 3 del Dlgs n. 61/2000, confermato, sul punto, dall’articolo 46 del Dlgs n. 276/2003).

L’integrazione tra legge e contratto collettivo

Beninteso, il processo di stretta integrazione tra legge e contratto collettivo ha serie ragioni di ordine sociale e istituzionale, per la necessità di individuare forme di regolazione che consentano di conciliare la crescente complessità delle società moderne con la coesione sociale. La ricetta è individuata nel cosiddetto “diritto riflessivo“, ossia nella previsione di meccanismi di produzione delle regole giuridiche che siano “consensuali” e provengano “dal basso”.
Perché ciò non comporti, però, il completo assorbimento della libertà negoziale e dell’autonomia sociale, sarebbe necessario distinguere le ipotesi in cui le parti sociali operano in virtù di una delega da parte del legislatore, da quelle in cui esercitano la propria autonomia e libertà negoziale.

È invece molto diffusa, e trasversalmente, l’idea secondo cui la distinzione tra libertà (private) e funzioni (pubbliche), contratti e norme, privato (anche collettivo) e pubblico, politico e sindacale, non avrebbe ormai più senso. In questa prospettiva, la contrattazione collettiva cessa di essere espressione di autonomia e diventa vincolo imposto dall’esterno.
E il sindacato, da organizzazione che era, diventa istituzione.

Il problema della rappresentanza

Un’istituzione democratica esige meccanismi di produzione della norma ispirati alla regola maggioritaria. È dunque coerente la pressante richiesta della sinistra sindacale di introdurre una disciplina legale della rappresentanza, che dia attuazione all’articolo 39 della Costituzione, ridisegnando il diritto sindacale alla luce del principio maggioritario, sì da chiarire, finalmente, “chi sia legittimato a decidere e come si misuri la rappresentanza”.
Appare poco coerente, invece, il Governo di centro-destra, che pretende di far vivere il suo progetto di compenetrazione tra la legge e la contrattazione collettiva all’ombra del totale astensionismo legislativo in materia di disciplina della rappresentanza sindacale, proclamato nel “Libro bianco”.

Ma da questo equivoco non si esce con successo se si resta invischiati nella prospettiva culturale di cui lo stesso Governo è prigioniero: per un verso, a causa della lettura cripto-corporativa del principio di sussidiarietà, che lo porta a concepire il sindacato come ente necessario e funzionalizzato, e per l’altro, per l’improprio riferimento al modello del “dialogo sociale” comunitario, in cui il “partenariato sociale” è strumento di supporto a un rule-making process che soffre di uno strutturale deficit democratico sul versante politico.
Proprio il modello del “dialogo sociale” comunitario, che vorrebbe essere la risposta liberal alla concertazione dirigista, è una forma di democrazia politica procedurale, che ha poco a che fare con un autentico “ordinamento intersindacale”.
Anche a questo proposito il Libro bianco “equivoca”, focalizzando il falso obiettivo della presunta differenza tra “concertazione” e “dialogo sociale”. Mentre la distinzione da farsi sarebbe quella tra la concertazione (alias “dialogo sociale”), intesa come forma di cooperazione tra pubblico e privato-collettivo, e la contrattazione collettiva, che è invece una forma di manifestazione dell’autonomia negoziale privata, in virtù della quale le parti sociali esercitano poteri propri, senza che sia necessario alcun rinvio a opera della legge.

È alla luce di tale distinzione che bisognerebbe affrontare il problema della riforma delle “regole della rappresentanza sindacale”.
Ma da una prospettiva siffatta il problema presenta connotati alquanto diversi rispetto a quelli usuali nel dibattito politico-sindacale.
Non si tratta, infatti, di decidere se sia meglio una disciplina legale o negoziata. E non si tratta nemmeno di stabilire regole per la misurazione della rappresentatività, che valgano per decidere “chi contratta e per chi”: come accade nel pubblico impiego “contrattualizzato”.

Si tratta, invece, di fissare criteri per l’individuazione dei soggetti collettivi coi quali instaurare pratiche concertative e di dialogo sociale: e a tal fine la sperimentata nozione di “maggiore rappresentatività” (sia pure nella innocua variante della “rappresentatività comparativamente maggiore”) conserva intatta la sua idoneità selettiva.
Si tratta anche di conciliare l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi con il pluralismo sindacale imposto dall’articolo 39 Costituzione: sarebbe incompatibile con tale principio la sottrazione della libertà di contrattazione collettiva a sindacati (datoriali e dei lavoratori) che, pur essendo genuina espressione di gruppi più o meno numerosi di lavoratori, non siano annoverabili tra quelli “rappresentativi” negli ambiti e secondo i criteri (inevitabilmente) stabiliti dalla legge.

L’occupazione cresce ancora: di Pietro Garibaldi

Nel corso del 2003, il mercato del lavoro italiano ha chiaramente risentito del brusco rallentamento dell’economia, ma è rimasto un mercato che crea posti di lavoro. Nel 2004 gli occupati sono aumentati 170mila unità, con uno sviluppo su base annua pari allo 0,8 per cento.
Tenendo conto che la crescita del prodotto nel 2003 è stata dello 0,4 per cento, il risultato complessivo del 2003 è decisamente positivo.
Rispetto a gennaio 2004, il tasso di disoccupazione è sceso dal 9,1 percento all’8,7 per cento, continuando un trend in atto dal 1998, quando il tasso di disoccupazione aveva raggiunto il 12 percento. Il tasso di occupazione, il rapporto tra occupati e popolazione in età lavorativa, è cresciuto di 1,4 punti percentuali, raggiungendo quota 55,8 per cento, una cifra che rimane comunque bassissima su base europea, e molto lontano dal 70 per cento richiesto dagli obiettivi di Lisbona.

I motivi di questa onda di medio periodo dell’occupazione italiana sono stati più volte analizzati (vedi ” Il bicchiere mezzo pieno dell’occupazione“), e rimangono legati alla lunga serie di riforme del mercato del lavoro, alla moderazione salariale, al ruolo degli incentivi all’occupazione e, in parte, anche all’emersione di lavoro precedentemente sommerso.
Inoltre, anche l’invecchiamento della popolazione facilita un miglioramento delle statistiche del lavoro (vedi “La popolazione invecchia, le statistiche migliorano“).

Un segnale preoccupante

Se analizziamo i dati su base congiunturale, confrontando i dati de-stagionalizzati delle rilevazioni di gennaio 2004 con quelle di ottobre 2003, emerge un segnale decisamente preoccupante.
La crescita occupazionale ha tenuto. Il mercato del lavoro ha infatti creato in un trimestre 45mila posti di lavoro, una cifra che su base annua permetterebbe comunque di mantenere un tasso di crescita pari allo 0,8 per cento. Tuttavia, la crescita dei posti di lavoro è avvenuta intermente nel Nord Italia (con una crescita pari allo 0,4 per cento) mentre è rimasta pressoché invariata nel Centro Italia e completamente piatta nel Mezzogiorno.

Questo è un dato allarmante, in quanto implica un ripristino del divario territoriale del mercato del lavoro, un fenomeno che sembrava invertito all’inizio del decennio. Probabilmente, per recuperare crescita occupazionale nel Mezzogiorno, sarebbe necessario ricorrere a un decentramento territoriale della contrattazione collettiva, uno dei meccanismi in grado di legare la domanda di lavoro alle condizioni locali. Recentemente ci sono state numerose aperture sindacali in questa direzione , ed è bene sperare che alle parole possano presto seguire i fatti.

Infine, la distribuzione della crescita occupazionale per settore di attività suggerisce che la maggior parte dei posti di lavoro sono creati nel settore delle costruzioni, un settore caratterizzato da alta volatilità occupazionale.
In quest’ottica, non è affatto detto che gli ultimi posti creati siano stabili e duraturi.

Il ruolo del part-time

La distribuzione della crescita occupazionale per tipologia di lavoro mostra che quattro su cinque dei nuovi lavoratori sono dipendenti, mentre la metà di questi ultimi sono lavoratori temporanei o a tempo parziale.
È utile riflettere sul ruolo dei lavoratori part-time, una tipologia di contratto che ha raggiunto in Italia quasi il 6 per cento dell’occupazione. La crescita del part-time è sempre vista come un fenomeno cruciale per aumentare l’occupazione italiana femminile nel lungo periodo.

Tuttavia, non si deve dimenticare che un aumento di lavoratori part-time determina automaticamente una diminuzione del numero di ore lavorate per addetto, una statistica che vede l’Italia indietro rispetto agli altri paesi dell’Ocse.
È vero che quantitativamente la crescita del part-time può spiegare soltanto una parte minore della differenza tra le ore lavorate per addetto in Italia e Stati Uniti. Tuttavia, alla luce dell’auspicato aumento del part-time in Italia, il divario nelle ore lavorate per addetto continuerà ad aumentare.

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