Le modifiche suggerite dalle Commissioni parlamentari peggiorano ulteriormente il testo sulla previdenza complementare e minano l’asse portante della delega. Se il Governo le accettasse, i lavoratori più giovani sarebbero discriminati nell’adesione alla previdenza complementare. Inoltre, la concorrenza fra fondi pensione contrattuali e adesioni collettive ai fondi pensione aperti sarebbe marginale e si baserebbe sulla forzatura delle norme che regolano i contratti di lavoro. La governance dei fondi sarebbe ridondante o contraddittoria, quella delle polizze previdenziali assicurative insufficiente.

Le osservazioni pericolose di Marcello Messori

Alla fine di settembre le Commissioni parlamentari hanno fornito il necessario parere al Governo sullo schema di attuazione della parte della legge delega 243/04 relativa alla previdenza complementare. Lo schema, predisposto ai primi di luglio dal ministero del Lavoro, presentava problemi così gravi da costituire un ostacolo anziché uno stimolo allo sviluppo della previdenza complementare. A parte modesti miglioramenti su punti specifici, le modifiche suggerite dalle Commissioni peggiorano il testo di luglio. La speranza, peraltro resa ancora più flebile dall’inquietante rinvio di ieri, è che il Governo eserciti la delega rigettando molti dei suggerimenti parlamentari e migliorando il testo originario di inizio luglio.
Se così non fosse, il risultato sarebbe disastroso: (1) i lavoratori più giovani, che sono destinati a ottenere un’inadeguata copertura dal pilastro previdenziale pubblico, sarebbero discriminati nell’adesione alla previdenza complementare; (2) la concorrenza fra fondi pensione contrattuali (Fpc) e adesioni collettive ai fondi pensione aperti (Fpa) sarebbe marginale e si baserebbe sulla forzatura delle norme che regolano i contratti di lavoro; (3) la governance dei Fpc e dei Fpa sarebbe ridondante o contraddittoria, quella delle polizze previdenziali assicurative insufficiente.

Breve storia di un disastro annunciato

Per capire perché si stia arrivando a un simile risultato, è necessaria una rapida cronistoria di quanto è accaduto da inizio luglio a oggi.
Lo schema di decreto legislativo è stato trasmesso al Parlamento all’inizio di luglio prima del confronto fra Governo e parti sociali. Si è trattato di un’evidente forzatura. Il ministro Maroni aveva però sollecitato i sindacati, la Confindustria, altre associazioni settoriali e le associazioni degli intermediari finanziari ad avanzare proposte di modifica al testo entro i primi di settembre. Arrivate da più di venti organismi rappresentativi di varie fonti istitutive dei fondi pensione contrattuali sotto la regia di Confindustria e dei tre maggiori sindacati dei lavoratori, le richieste di cambiamento si sono caratterizzate per due aspetti: un passo indietro rispetto all’apertura concorrenziale fra fondi pensione contrattuali e fondi pensione aperti per le adesioni collettive specie nelle piccolo-medie imprese; un impegno a fare sì che, come previsto dalla legge delega, il trasferimento di flussi di Tfr alle diverse forme pensionistiche complementari non comportasse per le imprese alcun onere aggiuntivo sui finanziamenti sostitutivi.
Verso la metà di settembre il confronto con le parti sociali e con i rappresentanti degli intermediari finanziari è sfociato in un nuovo schema di decreto attuativo ancora carente, ma più equilibrato rispetto a quello di luglio. Il ministro Maroni ha trasmesso questo testo di compromesso alle Commissioni parlamentari; ha però declinato ogni responsabilità in merito al suo recepimento e si è dedicato a risolvere uno solo dei molti problemi rimasti aperti: la costituzione del fondo di garanzia richiesto per allineare al rendimento del Tfr il costo del finanziamento bancario sostitutivo. Il risultato è stato quello più prevedibile: le Commissioni parlamentari non hanno condiviso i contenuti essenziali del nuovo schema di decreto attuativo e hanno emendato il testo di luglio, peggiorandolo. Soltanto Confindustria appare soddisfatta del risultato ottenuto: un corposo aiuto statale alla parte meno fragile delle imprese e il possibile rafforzamento dei fondi pensione contrattuali, già oggi più radicati.

Perché i lavoratori giovani sono discriminati

articolo 10 dello schema di decreto attuativo dei primi di luglio prevedeva l’istituzione di “un fondo di garanzia per facilitare l’accesso al credito, in particolare per le piccole e medie imprese, a seguito del conferimento del Tfr alle forme pensionistiche complementari”. In conformità alla delega, la facilitazione si è tradotta nell’impegno ad assicurare a tutte le imprese interessate prestiti equivalenti all’allocazione dei Tfr al secondo pilastro senza oneri finanziari aggiuntivi. Per vincere le resistenze del sistema bancario alla concessione di un prestito “semi-automatico” a un tasso vincolato verso l’alto, il Governo ha però dovuto impegnarsi a coprire l’intero rischio di insolvenza sui finanziamenti e ad assumersi l’onere della differenza fra i tassi vincolati e i rendimenti del Tfr. Dovendo inspiegabilmente coprire anche i flussi di Tfr già oggi destinati alla previdenza complementare, il fondo di garanzia avrebbe comportato per lo Stato un esborso assai superiore a quello previsto nella legge finanziaria per il 2006 e a quello compatibile con i conti pubblici italiani. La pilotata “osservazione al Governo” delle Commissioni parlamentari ha semplificato il problema: “derogare, in via transitoria (…), alla normativa sul conferimento del Tfr per le imprese che non abbiano le condizioni per l’accesso al credito”. Includendo tutte le imprese a bassa patrimonializzazione e con significativi (ma non necessariamente eccessivi) oneri finanziari, la deroga rischia di interessare una fetta rilevante delle piccole e delle più fragili imprese italiane. Almeno in una prima fase, ai lavoratori di queste imprese non si applicherebbero né il meccanismo del conferimento tacito del Tfr ai fondi pensione né la libertà di scegliere la forma pensionistica complementare a cui destinare esplicitamente il Tfr.
Il Tfr è una componente del salario (differito) dei lavoratori e non una fonte di autofinanziamento delle imprese; dunque la previsione del fondo di garanzia per una parte delle imprese rischia di porre problemi di antitrust a livello europeo. Qui, però, è utile sottolineare un altro elemento. Posto che abbiano un rapporto di lavoro dipendente, i giovani meno protetti si concentrano nella tipologia più debole di imprese. Pertanto, se il Governo facesse propria questa osservazione, la nuova legge taglierebbe – almeno temporaneamente – fuori non solo (le fasce deboli de)i lavoratori autonomi, ma anche gran parte dei lavoratori dipendenti che più avrebbero la necessità di integrare la pensione pubblica. Incentiverebbe invece quella parte dei lavoratori dipendenti più protetti che già oggi hanno elevati tassi di adesione ai fondi contrattuali di riferimento.

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Gli altri due problemi

Quasi altrettanto gravi sono le altre due novità segnalate in apertura. In primo luogo, i suggerimenti delle Commissioni parlamentari introducono ulteriori distorsioni alla concorrenza nel mercato previdenziale.
La temporanea esclusione di una fetta significativa delle piccole imprese elimina il terreno più proficuo di competizione fra fondi pensione contrattuali (Fpc) e adesioni collettive ai fondi aperti. È proprio in queste imprese che, oggi, i tassi di adesione ai Fpc sono molto bassi. Per compensare tale fatto e soddisfare comunque il principio di delega volto all’apertura del mercato previdenziale, le Commissioni non hanno esitato a negare la portata generale dei contratti collettivi di lavoro. Esse hanno infatti proposto di considerare tali anche quelli limitati “ai soli soggetti o lavoratori firmatari degli stessi”. In linea di principio, ciò apre una possibile competizione fra Fpc e adesione collettiva alle altre forme pensionistiche complementari anche nelle imprese con consolidata adesione alla previdenza complementare. Si tratta però di una possibilità remota perché basata su un diretto e grave conflitto con le rappresentanze sindacali.
Anche sulla governance dei fondi pensione aperti e di quelli contrattuali, i suggerimenti delle Commissioni introducono nuove distorsioni. Nel caso dei fondi aperti la ricerca di terzietà del responsabile del fondo (o delle polizze previdenziali assicurative) è, di per sé, auspicabile e condivisibile. Rende, però, ridondante la presenza di un organismo di sorveglianza con competenze analoghe e privo di qualsiasi rappresentatività rispetto agli iscritti.
Il tentativo di superare il problema prevedendo la nomina di due rappresentanti (l’uno per l’azienda e l’altro per i lavoratori) per ciascuna adesione collettiva ai fondi aperti almeno pari a cinquecento unità rischia poi di rendere ingestibile, e dunque inutile, l’organismo di sorveglianza. Oltre a non tutelare le adesioni al di sotto dei cinquecento aderenti, inflazionerebbe infatti il numero dei membri di questo organismo qualora i fondi aperti avessero successo. Nel caso invece dei fondi contrattuali, la presenza del responsabile del fondo confligge con le competenze dell’assemblea o del consiglio di amministrazione, a seconda che il responsabile venga considerato un controllore dell’attività del consiglio oppure una sorta di amministratore delegato. È dunque improprio prevedere, come fa lo schema di attuazione di luglio, che il responsabile del fondo possa essere un consigliere di amministrazione. Il suggerimento delle Commissioni di conferire al direttore del fondo la possibilità di fungere da responsabile diventa, però, addirittura paradossale: la novità implica infatti che il controllato possa controllare il controllore o possa essere delegato a controllare se stesso.

Riforma del Tfr e libertà di scelta, di Giampaolo Galli

Le modifiche introdotte al decreto Maroni rispetto alla versione presentata a luglio al Consiglio dei Ministri hanno peggiorato il testo, eliminando la possibilità per il lavoratore di scegliere a quale forma previdenziale aderire e introducendo significative distorsioni alla concorrenza.

Una delle questioni fondamentali che ha sinora impedito l’approvazione della riforma della previdenza complementare è quella della libertà di scelta dei lavoratori. Su questa questione vi è stata una forte contrapposizione fra le generalità delle parti sociali (sindacati e organizzazioni di categoria) da un lato e gli intermediari finanziari (assicurazioni e in parte banche) dall’altro. La geografia degli interessi in gioco è del tutto ovvia ed è stata oggetto di infiniti articoli sulla stampa nazionale: chi avesse residui dubbi guardi alla qualifica di chi scrive indicata a fianco della firma di questo articolo. Ma, per farsi un opinione, è necessario guardare al merito della faccenda, che è il seguente. Il decreto che il ministro Maroni ha portato al Consiglio dei Ministri del 5 ottobre prevedeva che il lavoratore fosse libero di devolvere il Tfr a qualunque forma previdenziale fra quelle autorizzate dalla Covip e cioè fondi chiusi (istituiti da sindacati e organizzazioni di categoria), fondi aperti (istituiti da banche, assicurazioni e Sgr) e polizze previdenziali assicurative. Prevedeva però, a differenza del testo portato in Consiglio dei Ministri a luglio, che la destinazione dell’eventuale contributo del datore di lavoro alla previdenza complementare fosse decisa dalle stesse parti sociali istitutrici dei fondi chiusi. Il che in pratica avrebbe significato – qui sta il punto cruciale -la perdita del contributo in caso di scelte diverse rispetto al fondo chiuso. Persino in caso di trasferimento dal fondo chiuso ad altra forma previdenziale – trasferimento che il decreto consente dopo un periodo di due anni -, il decreto prevedeva che: ” … il lavoratore ha diritto al versamento alla forma pensionistica da lui prescelta del TFR maturando … e dell’eventuale contributo a carico del datore di lavoro nei limiti e secondo le modalità stabilite dai contratti o accordi collettivi, anche aziendali” (Art. 14 comma 6). Quindi vi sarebbe stato un vincolo contrattuale alla portabilità del contributo aziendale anche in caso di trasferimento. Ricordando che il Tfr è pari a circa il 7% della retribuzione lorda e che il contributo aziendale, variamente determinato dai contratti di lavoro, si colloca generalmente fra il 2 e il 3 per cento, è evidente che, aderendo ad una forma previdenziale diversa dal fondo chiuso, il lavoratore avrebbe perso una quota consistente della propria ricchezza previdenziale integrativa. L’unica vera scelta per il lavoratore sarebbe stata quella fra lasciare il Tfr in azienda e aderire al fondo chiuso, essendo ogni alta scelta (fondo aperto o polizza previdenziale) evidentemente non conveniente. E ciò non solo in fase di prima adesione, ma, in sostanza, per tutta la vita lavorativa. Si trattava dunque ben di più di una corsia preferenziale per i fondi chiusi, ma di una vera e propria condizione di monopolio permanente. Su questo punto, pochi giorni prima della riunione del Consiglio dei Ministri, era intervenuta con una chiara segnalazione al Parlamento l’Autorità Antitrust. Si potrebbe obiettare che l’Art. 14 citato sopra fa riferimento anche ai contratti aziendali, non solo a quelli nazionali. Ma, come ha già spiegato Marcello Messori sulla Voce, il decreto riduceva al luminicino le possibilità di istituire nelle aziende fondi aperti ad adesione collettiva. E quand’anche questa possibilità fosse ampliata, dando un maggiore peso alle decisioni aziendali, rimarrebbe il fatto che il lavoratore sarebbe costretto ad aderire al fondo individuato nel contratto aziendale.
In linea di principio, la soluzione a questo problema è molto semplice. Basta tornare al decreto di luglio, che rispetta la lettera e il senso della legge delega approvata dal Parlamento l’anno scorso, e togliere dall’art. 14 (e da una analogo articolo 8) la locuzione riportata sopra in caratteri corsivi. Rispetto a questa proposta vi sono due obiezioni. La prima è di natura giuridica e attiene all’origine contrattuale del contributo del datore di lavoro. A questa obiezione, che ha un indubbio spessore, hanno risposto vari giuristi, tra cui Pietro Ichino nel parere reso all’Ania e pubblicato qualche giorno fa sulla Voce. La seconda obiezione è di sostanza: è vero che il vincolo di destinazione del contributo aziendale obbliga il lavoratore ad aderire al fondo chiuso, ma questa è una cosa buona, perché nei fondi chiusi il lavoratore è più protetto di quanto non lo sia, per effetto di norme e vigilanza delle authorities, nel libero mercato. Può darsi che sia così e può ben darsi che, per questo motivo, anche in un mercato liberalizzato, la maggioranza dei lavoratori decida di aderire ai fondi chiusi. Ma questo non po’ essere un buon motivo per non liberalizzare il mercato. L’unico soggetto che ha titolo per decidere di chi fidarsi è il titolare delle risorse, ossia il lavoratore stesso. Si aggiunga che è molto difficile che un operatore che agisce in condizioni di monopolio sia efficiente e ben governato. In condizioni di libertà di scelta e di concorrenza gli stessi fondi chiusi sarebbero più efficienti e meglio governati. Spetterà poi all’autorità di vigilanza garantire condizioni di trasparenza e correttezza dei comportamenti da parte di tutti gli operatori in maniera tale che le scelte, oltre che libere, siano quanto più possibile consapevoli.

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