La nuova normativa fallimentare solleva due questioni rilevanti. Il testo approvato sembra indicare che il mantenimento del complesso aziendale è sempre preferibile, anche quando da una sua liquidazione si ricaverebbe di più. Non si rispetta così un elementare principio di efficienza economica. E si protrae artificiosamente la vita di imprese che non sono in grado di remunerare a condizioni di mercato il capitale impiegato. Quanto al comitato dei creditori, finirà probabilmente per esercitare un ruolo solo nei dissesti di maggiori proporzioni.

Lo schema di decreto legislativo per il riordino della disciplina fallimentare approvato dal Consiglio dei ministri ha suscitato reazioni contrastanti tra giuristi e operatori del campo. Vorrei qui discutere due aspetti, particolarmente rilevanti da un punto di vista economico, ma che forse non hanno ricevuto l’attenzione che meritano.

Salvataggio o liquidazione del complesso aziendale?

Quando un’impresa diventa insolvente, e gli organi del processo di fallimento (il tribunale fallimentare, il cui braccio operativo fondamentale è il curatore del fallimento) prendono possesso dei suoi beni residui, una delle scelte fondamentali riguarda cosa fare di tali beni, il cui valore verrà destinato al rimborso almeno parziale dei creditori. Spesso esiste ancora un complesso aziendale, cioè un insieme di beni gestiti nello svolgimento di un’attività produttiva, anche se in condizioni che non consentono di soddisfare gli impegni esistenti verso i creditori.
L’alternativa è quindi se sia o no opportuno cercare di “salvare” l’attività produttiva, magari concedendo il cosiddetto “esercizio provvisorio dell’impresa”. In questo modo, si evita il blocco dell’attività produttiva e commerciale, che comprometterebbe i rapporti con fornitori, clienti e dipendenti. E si evita la vendita separata dei singoli beni aziendali (scorte di magazzino, immobili, impianti, singoli cespiti produttivi) che comporterebbe la definitiva dissoluzione dell’attività aziendale, compresa, tra l’altro, la definitiva “perdita di occupazione” dovuta alla cessazione dei rapporti di lavoro in essere. In genere, quando si cerca di preservare la funzionalità dell’azienda, lo si fa in vista di una vendita in blocco del complesso aziendale o dei suoi vari rami, il cui ricavato sarà poi ripartito tra i creditori.
Gli economisti che si occupano delle procedure fallimentari (e, fortunatamente, non solo loro) sono però d’accordo su un punto: la scelta tra dissolvere o preservare il complesso aziendale dovrebbe obbedire a un solo principio, la massimizzazione del valore ripartibile tra i creditori.
Se infatti i macchinari industriali venduti separatamente come beni di seconda mano valgono più di quanto si riuscirebbe a ricavare dalla vendita del complesso aziendale, cercando di preservarne comunque l’unitarietà, non si danneggiano solo i creditori, ma si riduce anche l’efficienza complessiva del sistema economico.
Certo, è da evitare anche l’errore opposto: ritenere che il fallimento comporti l’automatica dissoluzione dell’azienda. Un errore in cui la vecchia normativa fallimentare poteva per molti versi indurre.
Ora, l’articolo 91 del nuovo testo stabilisce che “la liquidazione dei singoli beni (…) è disposta quando non è possibile procedere alla vendita dell’intero complesso aziendale, di suoi rami, di beni o rapporti giuridici individuali in blocco”.
Il testo procede poi formulando ulteriori disposizioni che sembrano esprimere una preferenza assoluta per il mantenimento del complesso aziendale.
Due sono le interpretazioni possibili: a) la norma vuole semplicemente dire che bisogna evitare di procedere precipitosamente a una liquidazione di un complesso aziendale che potrebbe valere di più se mantenuto, in tutto o in parte, in funzionamento. Oppure, b) la norma dice che se abbiamo un attivo che vale 100 liquidato disfacendo il complesso aziendale, mentre tale attivo vale 10 mantenendolo in vita (e proseguendo, almeno nominalmente, il rapporto di lavoro con i dipendenti), bisogna comunque proseguire l’attività, facendo implicitamente pagare un costo di 90 ai creditori.
Quale delle due interpretazioni è quella valida? Saperlo è importante.
Se vale l’ipotesi b, significa che la legge non rispetta un elementare principio di efficienza economica. L’effetto pratico sarebbe quello di protrarre artificiosamente la vita di complessi aziendali che non sono in grado di remunerare a condizioni di mercato il capitale impiegato, e che costituiscono un fattore di inquinamento dei mercati in cui operano. La motivazione, sbagliata, per una norma del genere si ritrova nella retorica del fallimento non come punizione, ma come cura e opportunità di preservazione del tessuto produttivo e dell’occupazione. Se vale l’ipotesi b, dunque, bisogna purtroppo concludere che l’intera normativa è viziata da un errore di fondo, con gravi danni per il sistema delle imprese italiane.

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Il comitato dei creditori

Il comitato dei creditori assume un ruolo di massima importanza nel fallimento, tanto che alcuni commentatori si sono spinti a definirlo il nuovo “dominus” della procedura. Mentre in precedenza la funzione di controllo e autorizzazione dell’effettivo amministratore del fallimento – il curatore – era chiaramente attribuita al giudice delegato dal tribunale, ora il primo interlocutore del curatore diventa un comitato in cui siedono alcuni dei creditori del fallito, in rappresentanza degli interessi della collettività dei creditori.
Alcuni ritengono che sia una scelta legislativa pericolosa: non terrebbe conto dei conflitti d’interesse che esistono tra diversi creditori, nonché dei potenziali inquinamenti nel rapporto tra i creditori che siedono nel comitato e il curatore.
Si tratta di tematiche rilevanti, ma che diventano quasi prive di significato di fronte a una questione pratica banale. Già oggi, in alcune situazioni, la legge prevede la nomina di un comitato creditori, ma nella maggior parte dei casi, i soggetti chiamati a farne parte non sono più facilmente reperibili del fallito stesso. In altri termini, escluse le procedure di grandi dimensioni (quali, per intenderci, Parmalat e Cirio), si riscontra un diffuso assenteismo dei rappresentanti dei creditori, e un loro apparente disinteresse per l’andamento delle procedure che dovrebbero controllare.
Si tratta di una circostanza tutt’altro che inattesa da un punto di vista di logica economica.
Nei fallimenti normali, in cui il passivo è al massimo di una manciata di milioni di euro, i creditori si dividono in due categorie. Da un lato, le singole banche: per loro la pratica è poco importante, e non è economico spendere tempo e risorse nel monitorare il curatore. Così facendo, infatti, sosterrebbero un costo privato generando benefici collettivi di cui non introietterebbero che una parte. Dall’altro lato, ci sono fornitori di beni e servizi: per loro la posta in gioco è magari più rilevante (si pensi alle piccole imprese), ma non hanno risorse economiche e umane per effettuare il monitoraggio del fallimento, proprio perché il loro mestiere non è quello di gestire posizioni creditorie a lunga scadenza.
C’è dunque da attendersi che, per ragioni di economicità dei singoli creditori, il comitato possa, esercitare un ruolo solo nei dissesti di maggiori proporzioni, dove sono coinvolte istituzioni finanziarie con poste in gioco sufficientemente elevate.
Si tratta evidentemente di un altro problema di non poco conto. Una delle principali innovazioni della nuova disciplina potrebbe risultare inefficace nella grande maggioranza dei fallimenti, e quindi in ultima analisi non solo inutile, ma anche dannosa, in quanto inserirebbe ulteriori elementi di farraginosità nel funzionamento del sistema.

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