Partono i negoziati per l’adesione della Turchia all’Unione Europea. Se guardiamo alle condizioni da soddisfare per l’avvio delle trattative, una analisi oggettiva sui criteri politico ed economico rivela differenze evidenti tra la Turchia di oggi e i paesi dell’Europa centro-orientale nel 1998. E infatti la Commissione ha introdotto formule che potrebbero rimandare o limitare l’adesione piena del paese alla Ue. Ma sono ambiguità che sarebbe corretto chiarire subito, per consentire ai cittadini europei e turchi un sereno giudizio sulla questione.

Siamo finalmente arrivati al controverso punto di svolta nella geo-politica dell’Europa: dal 3 ottobre, sotto presidenza di turno britannica, l’Unione Europea avvia i negoziati per l’adesione della Turchia. Tale atto segna la conclusione del “percorso di avvicinamento” all’Europa intrapreso dalla Turchia ormai da qualche anno, e l’inizio di una nuova fase dei rapporti di questo importante paese con l’Unione Europea.
Eppure, dietro una data per molti versi storica, si celano ancora numerosi interrogativi e molte, pericolose ambiguità, mai risolte dagli attori istituzionali. Ambiguità che sarebbe invece corretto chiarire sin da subito, per consentire un sereno giudizio sulla questione ai cittadini europei e turchi.

Tre criteri da rispettare

L’adesione all’Unione Europea comporta vari passaggi istituzionali: tutti i paesi “europei” (inclusa la Turchia, in virtù dei suoi territori a nord della Grecia) possono fare domanda di adesione, ma devono impegnarsi a soddisfare tre criteri, noti come “criteri di Copenhagen“, dal Consiglio europeo che nel 1993 li mise a punto.
I primi due criteri, uno politico e uno economico, devono essere soddisfatti dal paese candidato quale condizione necessaria per l’avvio formale dei negoziati. Il criterio politico impone che il paese candidato debba essere una democrazia dotata di istituzioni stabili, che rispetta i diritti umani e le minoranze. Il criterio economico prevede che il paese candidato abbia una economia di mercato funzionante, in grado di far fronte alle pressioni competitive del mercato interno europeo. Una volta soddisfatti entrambi, a insindacabile giudizio della Commissione europea, l’Unione decide all’unanimità l’avvio di negoziati bilaterali volti al rispetto di un terzo criterio per l’adesione, ossia l’incorporazione nel corpus legislativo del paese candidato di tutte le norme giuridiche che disciplinano il funzionamento del mercato unico in Europa (il cosiddetto acquis communautaire). Chiuso questo processo, la cui durata non è definita, tutti i membri dell’Unione Europea e il paese candidato devono formalmente ratificare (con voto parlamentare o attraverso referendum popolari) l’adesione del nuovo Stato.
Nell’ottobre 2004, la Commissione europea ha ritenuto che la Turchia, a seguito delle riforme varate dal governo Erdogan, soddisfi i primi due criteri, politico ed economico. Nel dicembre 2004 i capi di Stato e di governo dell’Unione Europea hanno dunque deciso all’unanimità di avviare, appunto da ottobre 2005, i negoziati per l’adesione della Turchia, affinché il paese si avvii a incorporare al proprio interno tutta la legislazione in vigore nell’Unione Europea.
Fin qui, si potrebbe argomentare, niente di strano: si tratta della stessa procedura formalmente seguita negli scorsi anni per l’adesione all’Unione Europea degli otto nuovi Stati dell’Europa centro-orientale più Malta e Cipro, e attualmente in corso di definizione finale con Bulgaria, Romania e Croazia (le ratifiche formali dovrebbero concludersi da qui a dodici mesi).
E tuttavia sono in molti a ritenere che dal punto di vista sostanziale l’adesione della Turchia sia qualcosa di diverso dagli altri allargamenti. Ad esempio, si fa spesso notare come in termini geo-politici l’Unione Europea allargata alla Turchia confinerà, tra gli altri, con Iran, Iraq e Siria, con tutti i problemi che ciò comporta. Per quanto attiene agli aspetti economici, l’Unione riceverà oltre 70 milioni di nuovi cittadini, che però, a oggi, godono di un reddito pro-capite pari a meno del 20 per cento di quello medio europeo, e così via.
Chiaramente, tali argomentazioni possono facilmente risentire delle opinioni personali. Infatti, è molto facile contrastare gli esempi “problematici” con altrettanti a favore dell’adesione della Turchia all’Uunione Europea: si crea un fondamentale precedente di integrazione tra una società di matrice cristiana e una islamica moderata. Con la Turchia (già membro Nato), l’Unione entra a pieno titolo da protagonista in un’area geografica strategica per i futuri equilibri mondiali. Le prospettive economiche di sviluppo del mercato turco sono interessanti, e così via.

Il confronto tra paesi Peco e Turchia

Eppure, che con la Turchia le cose stiano in maniera sostanzialmente diversa dall’esperienza dell’allargamento ai paesi dell’Europa centro-orientale (Peco) lo può dimostrare una semplice analisi oggettiva condotta sui primi due criteri di Copenhagen. Tali criteri fanno riferimento a giudizi molto generali (democrazia “stabile”, economia di mercato “funzionante”), che tuttavia possono essere quantificati attraverso una analisi statistica, e dunque confrontati in termini più o meno “scientifici”.
Partendo da un insieme di variabili che misurano il grado di efficienza delle istituzioni politiche ed economiche, (1) si può effettuare una analisi fattoriale sulle stesse, ossia identificare due o tre indicatori che, essendo legati a tutte le altre variabili, da soli rappresentano in larga misura il criterio che si vuole analizzare. Ad esempio, facendo tale analisi sui dati di Polonia e Romania, si trova che in larga parte il criterio politico viene colto dalle variabili legate agli indicatori di corruzione percepita e indice delle libertà civili, mentre il criterio economico è colto in larga misura dalla composizione settoriale del prodotto interno lordo (quanto lo stesso risulti più o meno ancorato al settore agricolo) e dalla incidenza degli investimenti diretti esteri sul totale del Pil. (2) Confrontando poi tali indicatori per la media dei Peco e per la Turchia nel tempo, si può tentare di capire se, al momento dell’avvio dei negoziati di adesione nel 1998, questi paesi erano più o meno nelle stesse condizioni della Turchia di oggi.
Come si può notare dai grafici, le differenze sono evidenti. Allo stato attuale, per tutte le variabili considerate, la Turchia risulta molto più indietro di quanto non fossero, nel 1998, i paesi dell’Europa centro-orientale. Eppure, la Commissione europea nell’ottobre 2004 ha dato luce verde all’avvio dei negoziati, cui ha fatto seguito, all’unanimità, la decisione dei governi dei 25 Stati membri.
Si tratta di un clamoroso abbaglio? Probabilmente no, poiché, a leggere tra le righe della decisione, appaiono differenze significative tra il caso turco e quello dei paesi dell’Europa centro-orientale.
La Commissione europea ha chiarito infatti che nel caso turco verranno avviate sì le procedure, ma “i necessari preparativi per l’adesione dureranno fino al prossimo decennio”. Inoltre, la Commissione afferma che “per sua stessa natura, si tratta di un processo il cui esito non può essere determinato o garantito in anticipo”. Insomma, si sa quando si inizia, ma non si sa quando, e soprattutto se, si finisce. In alcuni settori chiave, che di fatto reggono il mercato unico europeo, come le politiche strutturali e l’agricoltura, la Commissione ritiene poi che “possono essere necessarie intese specifiche”, ossia che il mercato europeo sarà unico, ma con l’eccezione specifica della Turchia. Infine, si ritiene che per la libera circolazione dei lavoratori, una delle quattro libertà fondamentali del mercato interno, “possono essere considerate misure di salvaguardia permanenti”, che la limitino dunque per sempre.
Eppure, per ragioni di opportunità, da un lato continuiamo a sostenere con gli amici turchi che stiamo negoziando la loro piena adesione all’Unione Europea, chiedendo loro i sacrifici necessari per adattare la struttura economico-giuridica del paese al nostro contesto legislativo. Dall’altro, tranquillizziamo i nostri inquieti concittadini nascondendoci dietro formule che, se il consenso politico dovesse mancare, possiamo all’occorrenza tirare fuori dal cilindro.
Una sola domanda: come insegna John Maynard Keynes nel suo saggio “The Economic Consequences of the Peace”, a commento del Trattato di Versailles del 1919, non è forse pericoloso gestire le relazioni tra Stati sovrani con questa elevata dose di ambiguità?

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(1) Variabili quali indici di libertà delle istituzioni, di corruzione, di stabilità governativa, peso del settore pubblico, inflazione, crescita, composizione settoriale del Pil, variabili di finanza pubblica, tasso di cambio eccetera, sono tutte misurate dalle istituzioni internazionali (ad esempio, World Bank ed Imf) in serie storica e per vari paesi.

(2) Gli indicatori scelti spiegano oltre l’80 per cento della varianza delle variabili politiche (dodici variabili iniziali) e di quelle economiche (venti variabili iniziali). Ad esempio, tali indicatori mostrano la sostanziale differenza tra Polonia e Romania al 1998, anno in cui la Commissione certificò l’avvenuto rispetto dei primi due criteri di Copenhagen da parte della Polonia, ma non della Romania. Maggiori dettagli sono disponibili su richiesta.

La Grecia chiede alla Turchia l’applicazione degli standard europei, di Ninni Radicini

Il 31 ottobre, durante un dibattito parlamentare sulla politica estera, il primo ministro Kostas Karamanlis ha sottolineato che il percorso della Turchia verso la Unione Europea e l’ingresso dipendono dall’adempimento delle regole e dei valori comunitari. Per questo motivo l’eventualita’ da parte di Ankara di iniziative contro la Grecia, relativamente alla politica ellenica nell’Egeo, e la occupazione militare del nord di Cipro da parte dell’esercito turco, non sono assolutamente compatibili con gli standard europei.
Karamanlis ha detto inoltre che Ankara deve “cambiare radicalmente posizione” sulla questione del Patriarcato Ecumenico, sulla Scuola teologica di Halki e sui diritti dei greci residenti in Turchia. Da Atene, sia durante il precedente governo di centrosinistra di Simitis sia con l’attuale di centrodestra, si e’ guardato con favore all’avvicinamento della Turchia alla Unione Europea, in base alla valutazione che cio’ rappresenti un vantaggio per la Grecia.
Questa linea e’ stata pero’ messa in dubbio a luglio, quando la Turchia ha firmato il protocollo di accordo di doganale con Cipro, previsto nel negoziato con la Ue, presentando in allegato una dichiarazione unilaterale con cui si riaffermava che tale accordo non e’ considerato da Ankara un riconoscimento della Repubblica di Cipro. Questo allegato, prima ancora delle ricadute politiche, comporta la sostanziale inapplicabilita’ dell’accordo doganale richiesto.
Durante il summit europeo di ottobre in Lussemburgo, per l’avvio dei negoziati di adesione con la Turchia, si e’ trovata una via di uscita che ha lasciato molte perplessita. Ma il significato di quell’atto ha avuto effetto sulle relazioni con la Grecia, il primo dei quali e’ stato la sospensione di una prevista visita in Turchia di Karamanlis (sarebbe la prima di un premier greco, dal 1959).
La questione della riunificazione di Cipro, della occupazione condotta da un esercito straniero di una parte del suo territorio (dal 1 maggio 2004 anche territorio della Unione Europea) e del riconoscimento della Repubblica di Cipro da parte di Ankara, e’ profondamente interconnessa con la evoluzione dei rapporti tra Grecia e Turchia, perche’ come ha detto di recente Karolos Papoulias, Presidente della repubblica greca, il destino della Grecia e’ legato in modo indissolubile con quello di Cipro.
Da parte turca il riconoscimento della Republica di Cipro e’ subordinato alla soluzione del problema della riunificazione. Ankara sostiene che i turco ciprioti hanno dimostrato la volonta’ di superare la divisione dell’Isola votando a favore del piano presentato dal segretario dell’Onu, Kofi Annan. Nicosia ha risposto che quel piano e’ stato bocciato invece dalla maggioranza dei cittadini di Cipro perche’, prevedendo la formazione di uno stato su base confederale (con costi finanziari e clausole sfavorevoli a carico dei greco ciprioti) invece di superare l’attuale divisione, l’avrebbe, nella forma e nella sostanza, costituzionalmente ratificata, attraverso la formazione di due entita’ separate, leggittimando di fatto l’autoproclamato stato turco-cipriota del Nord, non riconosciuto da nessuno (tranne che dalla Turchia) e considerato illegale dall’Onu.
Il presidente di Cipro, Tassos Papadopoulos, sostenitore di un progetto di riunificazione su base bicomunale e bizonale, ovvero la formazione di uno stato unitario con decentramento amministrativo per le due comunita’, ha detto di temere che il mancato riconoscimento della Repubblica di Cipro da parte di Ankara, nonostante la richiesta della Ue, si inserisca in progetto in cui l’obiettivo della Turchia non e’ la riunificazione di Cipro, ma il raggiungimento di un qualche riconoscimento diplomatico per la zona occupata militarmente da trent’anni.
Sull’adesione della Turchia alla Unione Europea come opzione favorevole per gli interessi della Grecia, e’ in corso un dibattito politico molto interessante, non solo e non tanto sulla presa di posizione in se’ quanto sul merito e sul modo di gestirla. Perche’, stabiliti quali sono i vantaggi che la Grecia puo’ trarre dall’ingresso di Ankara in Europa, allora insieme con la dichiarazione di sostegno bisognerebbe avanzare direttamente la richiesta di risolvere quelle situazioni che, se risolte, possono giustificare i vantaggi di cui sopra.
Di recente il presidente del Parlamento europeo, Josep Borrel, ha gelato la platea di coloro che si attendevano che l’ingresso di Cipro nella Ue segnasse il passaggio da Nicosia a Bruxelles della questione della divisione dell’isola: non c’e’ da aspettarsi miracoli da parte comunitaria. Adesso che il negoziato Turchia/Ue e’ iniziato, la presa di posizione di Karamanlis, rappresenta probabilmente un passo nella direzione di un confronto tra le parti non limitato agli auspici ma su questioni concrete.

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