Lavoce.info

Piccole imprese non crescono

Non è vero che la conduzione familiare delle aziende sia un fenomeno solo italiano. Né esiste una relazione fra la sua diffusione e la dimensione. Lungi dall’essere un valore positivo, oggi la piccola impresa è inadeguata di fronte alle sfide della globalizzazione e delle nuove tecnologie. E’ allora necessario favorire le imprese che scelgono di crescere, riducendo gli adempimenti burocratici agli ampliamenti di impianto o agevolando lo sviluppo di strumenti finanziari innovativi. E gli incentivi non devono esaurirsi proprio in conseguenza della crescita.

È opinione diffusa che la dimensione troppo ridotta delle imprese italiane e la loro conduzione a carattere prevalentemente familiare costituiscano due nodi strutturali che sempre più condizionano la performance della nostra economia. I due fenomeni vengono spesso associati. Si sostiene infatti che le nostre imprese non crescono proprio a causa della conduzione prevalentemente familiare, sia per mancanza di risorse finanziarie sia per l’inadeguatezza del management familiare.

IMPRESE FAMILIARI NEL MONDO

Vanno, a questo proposito, sfatati due miti. In primo luogo, non è vero che la diffusione delle imprese familiari sia fenomeno soprattutto italiano. In secondo luogo, non vi è evidenza che le imprese familiari stentino a crescere.
I dati parlano con chiarezza. Pur non nascondendo le difficoltà insite in un confronto fra paesi che utilizzano definizioni e fonti statistiche assai variegate, è un fatto che l’impresa familiare rappresenta una realtà assai radicata a livello internazionale. In Italia, in un campione di imprese con più di 50 addetti, che esclude quindi le realtà più piccole, più dell’80 per cento delle imprese sono considerate familiari. Analoghe percentuali si riscontrano però anche in altri paesi, 75 per cento in Spagna e 64 per cento nel Regno Unito, nonostante che in entrambi i casi la definizione di imprese familiari sia più ristretta di quella applicata in Italia. Sorprendono forse gli Stati Uniti, in cui quasi il 90 per cento delle imprese è di natura familiare, ma in questa cifra sono incluse anche le imprese individuali, escluse invece dalle statistiche negli altri paesi. Ma anche se ci concentriamo sulle imprese dell’indice Standard & Poor’s scopriamo che ben il 35 per cento è a carattere familiare.
Analogamente, non trova riscontro l’affermazione per cui le imprese familiari non riescono, o non vogliono, crescere. Dai dati della Banca d’Italia o di Unioncamere si evince infatti come non esista una relazione fra diffusione dell’impresa familiare e dimensione. In primo luogo, l’incidenza percentuale di imprese in cui la dimensione della prima quota azionaria è inferiore al 50 per cento (una caratteristica dell’impresa diffusa) diminuisce all’aumentare della dimensione. In altri termini, è proprio nelle imprese più grandi che la proprietà risulta più concentrata. Per di più, il numero di soci diminuisce al crescere delle dimensioni. Il problema della crescita dimensionale non è quindi peculiare a quello delle imprese familiari. Al contrario, sembrerebbe che proprio le imprese familiari, con un azionariato più concentrato, siano sovra rappresentate nelle dimensioni più alte.

Leggi anche:  Quanti sono gli iscritti al sindacato in Italia?

PICCOLE NON SOLO ALLA NASCITA

Sfatare alcuni miti non implica però negare il problema. Le carenze strutturali del sistema industriale italiano sono ben documentate e hanno indubbiamente condizionato la dinamica della crescita della nostra economia.
Si considerino tre dati. In primo luogo, in un confronto internazionale, le imprese italiane sono relativamente più piccole anche a parità di settore. In secondo luogo, la loro produttività relativa è assai minore rispetto a quella registrata da imprese di taglia analoga in altri paesi industrializzati. Nel nostro paese, ad esempio, le micro imprese – con meno di dieci addetti – rappresentano quasi il 24 per cento degli occupati ma solo il 10 per cento della produzione. La loro produttività relativa rispetto al sistema delle imprese nel suo complesso è pari quindi solo a poco più del 40 per cento. Lo stesso dato si colloca al 48 per cento per l’Unione Europea nel suo complesso. In terzo luogo, le piccole imprese italiane stentano a crescere. Solo il 12 per cento di quelle più piccole, con meno di sei addetti nel 1987, aveva superato la soglia dei dieci addetti nel 2001. Poco più del 7 per cento delle imprese tra i sei e i nove addetti erano cresciute sull’arco del periodo fino a raggiungere la soglia dei venti.
La situazione non migliora se ci concentriamo sulle nuove imprese, quelle appena nate. Come rivela una ricerca dell’Ocse, il problema non scaturisce dal fatto che queste imprese nascano troppo piccole. È vero il contrario. Le nuove imprese italiane hanno una dimensione relativamente più elevata se confrontata con quella delle imprese già esistenti. Successivamente alla nascita, queste stesse imprese crescono però a tassi contenuti (meno del 30 per cento in sette anni), contrariamente a quanto accade per esempio negli Stati Uniti, dove nello stesso lasso di tempo la nuova impresa registra un aumento della propria occupazione pari al 140 per cento.

I MOTIVI DELLA CRISI. E LE SOLUZIONI

Ci si potrebbe interrogare sulle ragioni per cui un modello – quello della piccola impresa – che ha consentito alla nostra economia di crescere rapidamente fino perlomeno alla fine degli anni Ottanta oggi perda sempre più colpi. La risposta è semplice e va rinvenuta nei mutamenti strutturali che hanno caratterizzato l’ultimo scorcio del ventesimo passato: l’integrazione dei paesi in via di sviluppo nell’economia mondiale e la rivoluzione tecnologica nel campo dell’informatica e delle comunicazioni. Entrambi i fenomeni hanno eroso la posizione competitiva delle imprese di più ridotta dimensione, troppo piccole per sfruttare pienamente le opportunità del processo di globalizzazione e troppo carenti dal punto di vista delle risorse umane per trarre beneficio dalle nuove tecnologie.
La politica economica non è però impotente. È essenziale però sfatare un altro mito, che ha permeato buona parte della nostra classe politica, secondo cui la piccola impresa è di per se un valore positivo, in quanto espressione di un capitalismo dal volto più umano, più consapevole delle problematiche ambientali e sociali e più radicata sul territorio. Non vi è nessuna evidenza che tutto ciò sia vero. Rimane invece il fatto che oggi la piccola impresa è drammaticamente inadeguata di fronte alle sfide della globalizzazione e delle nuove tecnologie. La politica economica ne deve prendere atto.
La politica industriale finora si è limitata a favorire le piccole imprese con misure di carattere fiscale, amministrativo e finanziario, così creando, però, un sistema di soglie che paradossalmente scoraggiano la crescita dimensionale. È necessario invece favorire quelle imprese che scelgono di crescere, evitando che gli incentivi esistenti vengano meno proprio in conseguenza della crescita, riducendo gli adempimenti burocratici agli ampliamenti di impianto (oggi altrettanto se non più gravosi di quelli che incombono sulla creazione di nuovi impianti), agevolando lo sviluppo di strumenti finanziari innovativi (perché non creare sull’esempio degli Stati Uniti un fondo di fondi di venture capital, di natura pubblica ma gestito con criteri privatistici?), utilizzando strumenti che rendano più flessibile il mercato del lavoro per le imprese che crescono (ad esempio, allungando il periodo di prova per i nuovi assunti) e favorendo il processo di internazionalizzazione (in particolare, agevolando fiscalmente la creazione di consorzi di servizi per l’internazionalizzazione delle piccole imprese). In assenza di scelte coraggiose, l’alternativa è un lento e doloroso declino del nostro sistema industriale e il continuo ripetersi degli appelli per un protezionismo commerciale che condannerebbe all’obsolescenza la nostra economia.

Leggi anche:  Pregiudizi e incogruenze del decreto Lavoro

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Il decreto Lavoro non aumenta il precariato

Precedente

Il Trapianto

Successivo

Più occupazione senza prodotto, un paradosso spiegato dagli immigrati

  1. Claudio Resentini

    Dissento completamente sulla proposta del prof. Faini di incrementare ulteriormente la flessibilità in ingresso aumentando il periodo di prova per le imprese che crescono.
    Con le nuove norme del diritto del lavoro italiano che hanno esteso a dismisura la possibilità di ricorso al lavoro a tempo determinato nelle sue varie forme ed alla somministrazione di lavoro (ex interinale), senza contare lo scandalo del lavoro subordinato (come dimostrano i dati ISTAT, per lo più lavoro dipendente camuffato), il periodo di prova è stato di fatto già esteso potenzialmente all’infinito e ne sanno qualcosa tutti coloro, soprattutto giovani che sperimentano sulla propria pelle lo stillicidio di “periodi di prova” camuffati da contratti a termine, missioni, collaborazioni, ecc.
    Sono d’accordo sul fatto che si tratterebbe di una scelta coraggiosa, ma non nel senso inteso da Faini, bensì nel senso che ci vuole, come si suol dire, proprio un bel coraggio a proporla.
    Mi scusi professore, ma non facciamo ancora della flessibilità del lavoro un dogma o un feticcio da agitare ad ogni difficoltà del padronato. La scarsa efficacia di questa strategia è sotto gli occhi di tutti. E poi, non facciamo pagare sempre ai soliti le cosiddette scelte “coraggiose”: è una questione di giustizia.
    Grazie per l’attenzione.
    Cordiali saluti.

  2. Claudio Resentini

    Nel commento precedente intendevo parlare ovviamente dello scandalo del lavoro “parasubordinato” e non “subordinato”. Mi scuso dell’errore.

  3. roberto romano

    La dimensione e la qualità della R&S non si misura solo in termini di percentuale sul Pil. E’ molto più rilevante la relazione tra la specializzazione del sistema produttivo e l’entità della spesa in ricerca e sviluppo. Perché il sistema manifatturiero italiano dovrebbe fare ricerca e sviluppo in misura superiore all’attuale? In realtà le imprese italiane spendono in ricerca e sviluppo nella stessa misura delle analoghe imprese europee. È difficile immaginare una impresa tessile, magari piccola, stanziare risorse finanziarie per generare innovazione. La conseguenza di questa nostra specializzazione produttiva a basso contenuto tecnologico sta in una crescita economica sistematicamente più bassa, mediamente inferiore di 0,5 punti percentuali all’anno di quella europea, con uno spread di crescita economica di almeno 5 punti di Pil dall’Europa negli ultimi dieci anni. La dinamica del commercio estero del Paese è lo specchio più fedele di questa crisi. Se la quota di export manifatturiero tra il 1990 e il 2003 è diminuito del 25%, dal 6,3% al 4,7%, quello del settore hi-tech, cioè farmaceutica, termomeccanica, chimica, materiali, automazione industriale, Tlc ed elettronica di consumo, strumentazione, componenti elettronici, areospazio, già più bassa di quella degli altri Paesi europei, è calata del 41%, dal 3,6% al 2,1%. Sostanzialmente il Paese ha un ritardo stimato in 30 anni rispetto ai paesi più avanzati. Se la situazione è quella sommariamente descritta, occorre capire da un lato che occorre un soggetto “politico” che deve determinare l’inversione di questa tendenza e, dall’altro, che questo soggetto deve mettere in campo strumenti particolarmente efficaci e tali da correggere in tempi non “storici” quei vincoli.

  4. Ermanno Brocca

    Il Professor Faini ci informa del fatto che, ovunque, la maggioranza delle imprese, anche con oltre 50 addetti, e’ di proprieta’ familiare; inoltre, la proprieta’ risulterebbe vieppiu’ concentrata al crescere dimensionale delle imprese.
    Che ne e’, pero’, della gestione, tra le imprese capaci di competere sul mercato internazionale, o su quello nazionale in presenza di concorrenti esteri? Non e’ questa delegata a managers di professionalita’ adeguata, invece che essere effettuata direttamente dai componenti del nucleo familiare detentore del capitale sociale? Insomma, non si verifica forse una separazione tra proprieta’ e gestione della grande azienda moderna allo scopo di renderla competitiva rispetto alla concorrenza? Cio’ ammesso, una tale azienda si puo’ ancora considerare “familiare”, a prescindere da chi ne sia il proprietario?
    Mi pare che permanga appieno, quindi, la considerazione che la gestione familiare delle imprese le rende inadeguate ad affrontare la sfida dell’economia moderna: solo un organigramma concepito con criterio manageriale le munisce dell’intelligenza per sopravvivere in un’economia sempre piu’ globalizzata.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén