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Parlamento, Presidenza della Repubblica e Banca d’Italia

Banca d’Italia va riformata, per cambiare governance e Governatore. In un paese normale, lo si farebbe subito. Da noi si temporeggia. La riforma dovrebbe prevedere il mandato a termine, istituire un ristretto board che renda collegiali le decisioni in materia di vigilanza, risolvere la questione della struttura proprietaria, dettare norme transitorie per il passaggio al nuovo regime. Basterebbe un decreto legge. Ma la nostra classe politica, per interesse o debolezza, preferisce non intervenire. Con il rischio di pericolose supplenze giudiziarie.

Parlamento, Presidenza della Repubblica e Banca d’Italia

Nessuno può levare le castagne dal fuoco al Governo e al Parlamento: Banca d’Italia va riformata, e subito per cambiare governance e Governatore. Altra strada non c’è. In un paese normale, lo si farebbe con un progetto da votare in un mese o per decreto legge. Da noi si temporeggia, col Governatore screditato e il rischio di pericolose supplenze giudiziarie.
Pochi anni fa il Governatore della Bundesbank fu sostituito in due o tre settimane. Con la famiglia aveva accettato un paio di giorni di ospitalità a spese di un soggetto vigilato. La cosa finì sui giornali; il Fazio tedesco si profuse in scuse, ma dovette andarsene.
Da noi, non funziona così. La sensibilità per i comportamenti (forse) non penalmente rilevanti, ma peggio che inopportuni, è diversa. Molti non si indignano affatto; di quelli che si indignano, i più lo fanno per convenienza. Tutto è tattica subordinata a interessi partigiani. Leggo ora che la Lega tenta lo scambio Banca popolare italiana-Fazio.

Un Governatore in una botte di ferro

L’occasione d’oro per provvedere, quando Cirio e Parmalat avevano già segnalato l’esistenza di seri problemi, il Parlamento l’aveva avuta, ma dal progetto sulla tutela del risparmio le norme sulla temporaneità dell’incarico di Governatore e sulle funzioni di Banca d’Italia furono stralciate a furor di Fazio e Lega, con benedizione di pezzi dell’opposizione. Ora la stalla è vuota.
Il Governatore, dal canto suo, resiste all’ondata di discredito che si è attirato. Se lo fa – a me sembra – è perché il contesto politico glielo permette, ma anche perché dispone di un quadro giuridico che lo pone in una condizione di forza. Può andarsene se, quando e come vuole. Per esser chiari: a legislazione vigente, il Governatore è in una botte di ferro. Perché, è presto detto.
La sua nomina e revoca dipendono da un troppo ampio concorso di volontà: formalmente spettano al consiglio superiore della Banca; ma la delibera di questo assume valenza nell’ordinamento pubblico solo se fatta propria da un decreto del presidente della Repubblica, su proposta del presidente del Consiglio di concerto col ministro dell’Economia, previa deliberazione del Consiglio dei ministri. Ciò di per sé è un poderoso ostacolo a scelte rapide e incisive.
Per di più, la struttura societaria e di governo della Banca, che pure sarebbe un “istituto di diritto pubblico”, è peggio che curiosa, e da sempre sfida le categorie dei giuristi. Figlia della sua storia, non ci si è curati di adeguarla, ignorando la trasformazione del sistema bancario. Così, il consiglio superiore è ancora eletto dai soci della Banca; questi soci sono banche (sempre le stesse) che ne detengono il capitale, nominalmente irrisorio (156mila euro). Ciò (più in teoria che in pratica) mal si concilia con le funzioni di vigilanza: ma un tempo aveva una logica perché le banche “proprietarie” erano (quasi) tutte pubbliche. Non è più così.
Come che sia, questi strani soci nominano nel consiglio superiore degne persone, scelte di fatto, non da loro, ma dal Governatore stesso; questi, come sanno ormai anche i bambini, non solo è a tempo indeterminato, ma non conosce pensionamento.
Ecco perché l’unica ipotesi giuridicamente prevista per liberarsi di un Governatore senza che lo voglia, è la revoca da parte di quel consiglio superiore: il che, di fatto, è come pretendere una sorta di 25 luglio della Banca d’Italia (Mussolini fu sfiduciato da un organo, il Gran consiglio, che era tutto di sua nomina). Ma una replica in via Nazionale sembra difficile.
Come se ciò non bastasse, per ottime ragioni – dato il ruolo dei governatori delle banche centrali nazionali nella Banca centrale europea, del cui direttivo fanno parte di diritto, col divieto di “sollecitare o accettare istruzioni” da chicchessia, governi inclusi) – le norme dell’Unione tutelano sia l’indipendenza delle banche centrali sia i singoli governatori: non solo impongono il mandato lungo (almeno cinque anni), ma ne disciplinano con sfavore la rimozione.
Infatti, il Protocollo sulla Bce, in relazione alla revoca di un Governatore (a) la subordina a condizioni che esso stesso indica (è lecita “solo se [il governatore] non soddisfa più alle condizioni richieste per l’espletamento delle sue funzioni o si è reso colpevole di gravi mancanze”) e (b) dà espressamente facoltà al Governatore rimosso di far ricorso alla Corte di giustizia.
Sono norme disegnate in base all’ipotesi, generalizzata, di governatori con incarico a termine, dunque soggetti comunque a periodica conferma (per cui la revoca è quasi inimmaginabile). In Italia, hanno l’effetto di blindare una carica che, come il pontefice cattolico, è vitalizia (c’è in Europa, pare, un altro governatore senza scadenza, in Danimarca, ma a settanta anni va in pensione).
Perciò, ove anche quel famoso “25 luglio” si verificasse, un Fazio revocato potrebbe sempre adire la Corte di giustizia.
A legislazione vigente, non esiste altra autorità che possa intervenire. Neppure il Presidente della Repubblica, il quale, in materia, è legato alla proposta del Governo che, tutt’al più, può rifiutarsi di far propria, ma senza la quale non può che affidarsi alle cosiddette esternazioni: strumento delicato da usare con cautela, essendo l’equivalente presidenziale della moral suasion. Non obbliga e ove non assecondata, espone chi vi ricorre a brutte figure.

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La riforma necessaria

Ma poi, non è solo questione di questo Governatore. Un problema di funzioni e di governance della Banca d’Italia c’è comunque, e da tempo.
Ipotizzare un’autoriforma, è politicamente indecoroso e istituzionalmente senza senso (si potrebbe introdurre il mandato a termine, ma non cambiare funzioni e poteri). Il Governatore in carica, al più, può dare i suoi suggerimenti: e senza ostruzionismi, se vuol rispettare il Parlamento.
Anche, ma non solo per questo, il legislatore è l’unico che può e deve intervenire: con norme di portata generale che non configurino l’ipotesi di una revoca per legge. Perciò vanno poste le basi per una seria modifica di Banca d’Italia, previa, s’intende, richiesta del parere della Banca centrale europea, come da Trattato.
Ma anche qui, nessuna confusione: di parere obbligatorio ma non vincolante, come diciamo noi giuristi, si tratta. Autorevole, da seguire se possibile a scanso di grane, ma poi decidendo in proprio: non può essere la Bce a riformare la banca centrale italiana. Né vedo come, da parte dell’Unione europea, si potrebbe equiparare a una revoca di fatto, vietata, una riforma legislativa che introducesse il mandato a termine in un contesto più ampio che prevedesse la collegialità.
La riforma allora, potrà e dovrà: (i) prevedere il mandato a termine; (ii) istituire un ristretto board che renda collegiali le decisioni in materia di vigilanza (non quelle in materia monetaria che al Governatore spettano personalmente in base alle norme Ue: a garantire ciò, queste sono finalizzate; non quelle in materia antitrust che andrebbero attribuite ad altra autorità); (iii) risolvere la questione della struttura proprietaria (cosa complicata dalla consistenza in termini patrimoniali che alle quote nominali possedute dalle singole banche è stato consentito di assumere: ma bisognerà pure uscirne ora che le banche sono private); (iv) dettare norme transitorie per il passaggio al nuovo regime, nell’ambito delle quali si può anche immaginare – per assecondare il parere Bce del 2004 – formule quali l’introduzione di un’età di pensionamento oppure un mandato assai breve (“di cortesia”, posto che la meriti) per il Governatore in carica al momento della riforma. Ma di ciò non dovrebbe esserci bisogno se si introduce la collegialità di cui dicevo, che giustificherebbe la nomina, subito, del nuovo organo, quindi del Governatore.
Se la nostra classe dirigente di governo condividesse solo in parte la sensibilità contro comportamenti eticamente impropri di altre classi dirigenti; se in nome di ciò, essa fosse in grado di stabilire una collaborazione bipartisan a difesa di una delle fin qui più rispettate istituzioni del paese, si potrebbe immaginare uno strumento normativo incisivo e immediatamente vigente: un decreto legge con i contenuti indicati, destinato per definizione a fulmineo e sicuro iter parlamentare. Decreti legge hanno tagliato la contingenza, salvato le reti tv private, imposto la par condicio (con in gioco principi costituzionali non meno rilevanti di quelli di cui si ragiona qui): perché non lo si fa a salvaguardia della credibilità della nostra banca centrale?
Invece, come si vede, nemmeno se ne parla. Perché? Semplice: non lo si vuole, un po’ per scelta, un po’ per ignavia, un po’ per debolezza. E il tempo passa.
Il fantasma delle supplenze della magistratura torna, fatalmente, ad aleggiare.

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Per disegno o per decreto? di Franco Debenedetti

Articolo molto utile, soprattutto letto con l’allegato “Codice BCE” (a proposito perché non pubblicate la sentenza TAR del Lazio del 9-8-05, per ora unico procedimento arrivato a sentenza?)
Il ricorso al decreto legge è consentito solo se sussistono imprescindibili motivi di necessità e urgenza (articolo 77 Cost.): difficile sostenere l’urgenza di far partire una riforma che prenderà, a quanto lei dice, mesi (anni?). E va convertito in 60 gg: il termine perentorio offre un incentivo formidabile a chi voglia farlo saltare.
Invece la discussione del ddl risparmio riprenderà in Senato tra 15 giorni, appena il tempo tecnico per integrare gli emendamenti già presentati con quelli consigliati dalla recenti vicende, magari assicurandosi preventivamente dell’accordo con la BCE. Quindi con l’uso del decreto non si guadagna neppure un giorno (sulla parte relativa al risparmio invece, non ci dovrebbero essere contrasti: se é vero che il ritardo veniva imputato proprio a chi, come me, voleva usare quel ddl per varare le riforme di Bankitalia). Si perderebbe certo in enfasi mediatica: ulteriore motivo, e proprio in un caso come questo, per usare lo strumento normale. Inoltre non sfugge il valore politico di legare le riforme non solo agli ultimi controversi episodi, ma a fatti anch’essi sintomatici e gravi  (Cirio Parmalat ecc.), su cui il Parlamento ha svolto un lavoro di approfondimento ingentissimo, che altrimenti verrebbe disconosciuto e andrebbe perduto. Dato che il risparmio, a differenza ahimé della concorrenza, è tutelato dalla Costituzione (articolo 47), la riforma fatta via ddl avrebbe il più solido degli ancoraggi. E chi si dolesse del minore effetto annuncio, si potrebbe consolare notando un singolare contrappasso nei riguardi di chi, come il Governatore, ha finora usato proprio la tutela costituzionale del risparmio per giustificare la sua gestione monocratica e autocratica delle vicende del nostro mondo bancario: il loro conto incomincia ben prima delle vicende recenti.

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Un fallimento troppo “amministrato”

  1. Paolo Cervi

    Tristezza infinita. Quella che prova qualunque persona di media intelligenza che legge articoli così ineffabilmente precisi nel descrivere una situazione di cui non ci si può che vergognare.

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