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Prezzi alti, concorrenza scarsa

La lettura dei dati di contabilità conferma che molti settori della nostra economia stanno soffrendo, presentando risultati quanto meno allarmanti, con la necessità da parte delle imprese di contrarre i margini per preservare i volumi di vendita. Ma ve ne sono altri che godono di ottima salute, con miglioramenti marcati della redditività delle imprese. Peccato però che in diversi casi si tratti di uno stato di salute non conquistato sul campo, con la capacità di competere e di innovare, quanto l’esito dell’esercizio di potere di mercato a scapito degli acquirenti finali.

In un recente lavoro la Banca centrale europea ha mostrato che nel periodo 2001-2004 la maggiore inflazione dell’Italia rispetto alla media dell’area euro riflette in eguale misura la maggiore crescita dei costi unitari del lavoro e quella dei profitti unitari. (1)

Le disomogeneità settoriali

Il dibattito sulla bassa crescita della produttività italiana fornisce spiegazione a tale andamento. Ciò nondimeno stupisce la maggiore crescita dei profitti se si pensa allo stato di stagnazione della nostra economia e alle forti difficoltà lamentate da molte imprese. Un’analisi dei dati di contabilità consente di mettere in luce le forti disomogeneità settoriali sottostanti a tale dato aggregato.
Negli ultimi quattro anni in Italia la crescita media dei prezzi – misurata dal deflatore del valore aggiunto – è stata del 2,9 per cento. Dietro l’aumento dei prezzi sta una crescita del costo unitario del lavoro pari al 3,1 per cento e un aumento medio dei profitti per unità di prodotto del 2,7 per cento. In genere, aumenti dei profitti unitari testimoniano il buono stato di salute di un settore; i profitti segnalano che vi sono buone prospettive di crescita di cui potrebbe beneficiare anche il sistema economico in senso lato. Talvolta però la media nasconde percorsi molto diversi nei singoli settori dell’economia. Le differenze possono derivare da andamenti differenziati del costo del lavoro o, come più spesso accade, da diverse dinamiche settoriali della produttività.
Come documenta la tabella allegata (si veda documento in fondo), la dispersione nelle dinamiche dei profitti unitari all’interno dell’economia è molto ampia. Alcuni settori presentano variazioni di segno negativo, e testimoniano la necessità da parte delle imprese di contrarre i margini al fine di preservare i volumi di vendita; è il caso di molti settori del manifatturiero. Un andamento di questo tipo non è affatto sorprendente in un periodo di stagnazione economica. Desta semmai sorpresa il fatto che in alcuni settori industriali e del terziario, nonostante l’assenza di pressioni sul versante dei costi unitari del lavoro, i prezzi abbiano continuato a correre, sostenendo la crescita dei profitti. Ad esempio, i profitti unitari da contabilità sono aumentati ad un ritmo del 30,5 per cento all’anno nel settore assicurativo, spiegando da soli, nonostante il modesto peso del settore sulla nostra economia, uno 0,1 per cento di aumento annuo dell’indice complessivo dei prezzi. Queste elaborazioni portano sostegno alla tesi secondo cui la forte crescita delle tariffe assicurative (tra il 2001 e il 2004 l’assicurazione Rc-auto è rincarata di circa il 30 per cento) riflette la forte crescita dei profitti per unità di prodotto realizzati dal settore, peraltro con progressi di produttività che hanno sterilizzato le spinte del costo del lavoro. Allo stesso modo, nel settore dell’energia l’indice dei prezzi (il deflatore del valore aggiunto) è aumentato dello 0,9 per cento nonostante l’ampia flessione del costo del lavoro per unità di prodotto (-5,9 per cento all’anno). Gli aumenti di produttività, che in questo settore ci sono stati e hanno permesso di ridurre i costi unitari del lavoro, non sono stati scaricati sui prezzi finali pagati dal consumatore (che in questo caso si chiamano tariffe), ma sono andati a rimpinguare i profitti. I guadagni di efficienza, testimoniati dalla discesa del Clup e dell’aumento della produttività, non hanno favorito una discesa dei prezzi probabilmente a causa di un deficit di concorrenza.
Si ricorda che gli acquirenti di energia non sono solo i consumatori finali, ma anche i settori del manifatturiero che utilizzano l’energia come input nel processo di produzione. I profitti del settore energetico hanno dunque peggiorato la posizione competitiva degli altri settori del manifatturiero, esposti alla concorrenza internazionale.

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Il consumatore non ci guadagna

Interessante poi il caso dell’industria alimentare i cui profitti unitari negli ultimi quattro anni sono aumentati dell’8 per cento all’anno a fronte del più modesto tasso di incremento dei costi unitari del lavoro (2,4 per cento), con una crescita media dei prezzi del 4,1 per cento. D’altronde tutti rammentiamo l’ampia enfasi con cui negli ultimi anni i prezzi dei prodotti alimentari sono stati oggetto di attenzione anche nel dibattito sulla stampa. Più volte le stesse associazioni dei consumatori hanno segnalato l’alimentare come il settore in cui dopo la conversione dei prezzi in euro si sarebbero verificati rincari non in linea con l’andamento dei costi. La contabilità nazionale ha un pregio in questo caso perché la diatriba tra i diversi operatori della filiera dei beni di consumo alimentari è risolta indicando nell’industria la principale fonte dei rincari.
Come non dedicare una menzione al settore delle Poste e telecomunicazioni, dove a fronte di una caduta del costo unitario del lavoro del 6,7 per cento all’anno si osserva una diminuzione dei prezzi di appena l’1,6 per cento; i profitti unitari sono cresciuti ad un ritmo dell’1,3 per cento all’anno. Si tratta di un settore a forte crescita della produttività (circa il 10 per cento all’anno) che quindi riesce a realizzare un forte abbattimento dei costi unitari. Se vigesse un regime di completa concorrenza nel settore questi guadagni di produttività verrebbero integralmente trasferiti al consumatore finale. Le imprese del settore riescono invece ad appropriarsi di una buona fetta di tali guadagni.
La lettura che traspare dai dati di contabilità conferma che mentre molti settori della nostra economia stanno soffrendo, presentando risultati quanto meno allarmanti, ve ne sono altri che godono di ottima salute, con miglioramenti marcati della redditività delle imprese. Peccato però che in diversi casi si tratti di uno stato di salute non conquistato sul campo, con la capacità di competere e di innovare, quanto l’esito dell’esercizio di potere di mercato a scapito degli acquirenti finali. In conclusione, se è vero che molti settori dell’economia italiana “vanno male”, è anche vero che quelli che vanno bene non possono certo dirsi “casi di successo” del capitalismo italiano.

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(1) “La politica monetaria e i differenziali di inflazione in un’area valutaria eterogenea”, Bollettino mensile, Banca centrale europea, maggio 2005.

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Sommario 13 giugno 2005

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La Cina è vicina. Nell’innovazione

  1. Mannekenpis

    L’articolo dà sostanza ad una percezione diffusa nel paese ed evidente anche da Bruxelles : in Italia “il” mercato è atrofico e numerosi mercati si avvicinano – in maniera crescente da quattro anni a questa parte – più al regime di aummaummopolio che alla concorrenza perfetta.
    La conseguenza immediata è che i consumatori italiani spesso si trovano ad avere un “rough deal” su prezzi, garanzie, scelta, accesso a fornitori alternativi etc.
    Cosa si può fare? Gli strumenti legislativi, anche di buona qualità, non mancano. Banalmente, purtroppo, è però l’applicazione delle regole che è mostuosamente deficiente.
    Un primo passo necessario sarebbe a mio avviso quello di investire in maniera adulta in enforcement.
    Come nella quasi totalità dei paesi moderni e normali (definizione trita ma accurata) esiste una separazione chiara tra autorità di policy ed autorità di enforcement. Le prime corrispondono di solito a dipartimenti ministeriali, le seconde ad agenzie/autorità con vari gradi d’indipendenza dall’esecutivo e d’integrazione della dimensioni concorrenza e consumatori.
    È il caso in Italia dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato: è un centro di eccellenza dal quale cominciare il lavoro. Purtroppo – aldilà degli attacchi subiti di recente dal punto di vista dell’autonomia – l’AGCM ha a mio avviso due handicap di rilievo: un mandato ridotto ed un organico numericamente inadeguato.
    Non mi spingo fino ad immaginare per l’Italia un’autorità tutta dedicata ai consumatori ed una alla concorrenza, come in Spagna, in Svezia, in Danimarca. L’integrazione delle due politiche è una realtà che funziona in maniera coerente negli Stati Uniti, in Australia ed in Gran Bretagna.
    Una possibilità d’intervento utile potrebbe essere l’estensione del mandato dell’AGCM a tutta la legislazione di tutela dei consumatori, con il parallelo, consistente rafforzamento dell’organico dell’Autorità.

  2. alias

    Un anno fa acquistai un pc portatile, presso un punto vendita PC City. Stavo per cambiare lavoro, trasferirmi in un’altra città. Ne approfittai per acquistare, senza anticipo, un portatile da 1000 Euro, usufruendo di un finanziamento di 24 rate x 50 euro l’una; primo pagamento, a gennaio 2006. Quindi, un anno e un mese di grazia.
    L’interesse è cospicuo, ma io ho rinviato per un anno la spesa; nel frattempo ho messo da parte i soldi. In teoria, posso scegliere il rimborso anticipato in unica soluzione, prima della scadenza della prima rata.
    Invece, la finanziaria con cui ho stipulato il contratto, e alla quale voglio saldare il debito, non si fa trovare. Telefono da settimane; niente da fare. Scrivo e-mail, senza risposta. Sono tornato dal rivenditore il quale, gentilmente, mi fa presente che non sarebbe nemmeno tenuto ad occuparsi di me, dal momento il mio rapporto contrattuale con lui è esaurito …
    Sento, da colleghi informati, che la banca che mi ha finanziato (a un taeg del 20 per cento) è la stessa che paga tassi attivi, a correntisti on line, del 6 per cento. Sospetto che la banca mi faccia ostruzione, perché così può continuare a fare marketing aggressivo coi depositanti.
    Prima considerazione: sapevo, dai tempi di scuola, che se uno preferisce tenere soldi liquidi, anziché titoli che fruttano interesse, è perché si aspetta un livello di tassi di interesse superiore; acquisterà, domani, titoli di credito a prezzi scontati rispetto a oggi. E’ vero il contrario? La banca preferisce tenere vivo il suo titolo di credito nei miei confronti (anziché incassare moneta), perché anticipa tassi di interesse inferiori all’attuale?
    E poi, visto che la banca in questione è straniera, mi è venuto un altro dubbio; è così sbagliato cercare di contrastare le banche straniere, quando vengono in Italia per proporre condizioni al limite della vessatorietà, ed operano in palese contrasto con le buone, vecchie regole del mercato della moneta?

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