Un’adeguata riforma del sistema universitario italiano, che lo renda maggiormente competitivo a livello internazionale, richiede una forte mobilità degli studenti dagli atenei “peggiori” a quelli “migliori”. Per ottenere questo risultato occorre incidere non solo sui costi della frequenza universitaria fuori sede, ma anche sui benefici. Attraverso sistemi di differenziazione che accentuino le distanze tra università, ben oltre le differenze attuali, in gran parte illusorie. E garantendo meccanismi di selezione di tipo meritocratico.

Il sistema universitario pubblico italiano ha resistito a ogni tentativo di differenziazione. Non esiste un sistema duale di “research universities” e “community colleges”, come negli Stati Uniti, né una esplicita graduatoria degli atenei basata su valutazioni della ricerca e della didattica realizzate su scala nazionale, come nella più vicina Inghilterra. Con qualche eccezione prevista dalla normativa comunitaria e dall’istituzione di nuove facoltà, i criteri di ammissione degli studenti non sono regolamentati dalla presenza di numero chiuso e da regole meritocratiche, e le tasse di iscrizione sono relativamente basse.

Differenze tra atenei

In questo contesto, è lecito attendersi che l’università di provenienza abbia un effetto limitato sul successo economico dei laureati, misurato dalle retribuzioni e dalla probabilità di trovare lavoro. In apparenza però non è così.  Se si usano i dati prodotti dall’Istat sugli sbocchi professionali dei laureati italiani, che registrano le performance occupazionali a tre anni dalla laurea, e si depurano le differenze osservate da fattori quali la facoltà frequentata, il background familiare, il talento individuale e la Regione in cui si trova il posto di lavoro – fattori che condizionano la scelta delle sedi e delle facoltà da parte degli studenti – emerge un quadro contrassegnato da differenze significative, come mostra la figura qui sotto. (1)
Se definiamo pari a 1 il prodotto tra le retribuzioni mensili e la probabilità di occupazione a tre anni dalla laurea a Campobasso (CB nella figura) e a Cagliari (CA nella figura), dove si verificano i valori più bassi, in molte università del Nord e in qualche università del Centro (Pisa, Firenze, Roma Luiss) si registrano valori superiori a 2 – il doppio. Le differenze sono notevoli non solo tra Regioni dove l’ateneo è collocato, ma anche all’interno di ciascuna Regione. Ad esempio, in Lombardia, a parità di caratteristiche individuali osservabili, si registra un premio pari al 22 per cento per chi studia a Milano Statale (MISTA) piuttosto che a Brescia (BS). Tale premio sale al 60 per cento circa in Sardegna se si confrontano Cagliari e Sassari (SS).  Le differenze tra atenei che appartengono a Regioni diverse superano di gran lunga quelle esistenti tra atenei pubblici e privati. Le nostre stime indicano infatti che, a parità di condizioni, chi si laurea in un ateneo privato può attendersi un guadagno – pesato per la probabilità di occupazione – pari a circa il 18 per cento rispetto a chi si laurea in un ateneo pubblico.

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Figura 1. Effetti dell’università di provenienza sulle retribuzioni attese tre anni dopo la laurea

Le sigle si riferiscono agli atenei, e i valori sono depurati dagli effetti della facoltà di provenienza

Un vantaggio transitorio

Ma se le differenze sono così significative, perché non osserviamo consistenti flussi di studenti che si spostano dagli atenei che hanno una performance peggiore a quelli che “funzionano” meglio? Come mostra la tabella qui sotto, la mobilità studentesca è limitata, in particolare dalle Regioni del Sud alle università del Nord. Perché dunque gli studenti del Sud non si iscrivono in massa negli atenei del Nord, vista la differenza di rendimento atteso? Per tre ragioni.
Primo, il differenziale di guadagno espresso nella figura 1 è nominale, non reale. Poiché i prezzi sono significativamente più bassi al Sud, il vantaggio di frequentare atenei del Centro-Nord in termini di potere di acquisto è decisamente minore se chi studia al Nord finisce anche per lavorare al Nord. Secondo, la nostra ricerca mostra come una parte notevole del vantaggio economico conferito dalle università del Nord a tre anni della laurea tenda a scomparire nel tempo, via via che i laureati si sistemano in posti di lavoro più stabili. Le differenze nella figura 1 sono quindi transitorie, non permanenti: sono infatti in gran parte attribuibili alla maggiore probabilità di occupazione dei neo-laureati di atenei del Nord, un vantaggio che tende a ridursi notevolmente con l’età. Da ultimo, i costi di frequenza per uno studente fuori sede al Nord sono circa il 30 per cento più alti dei costi di frequenza al Sud. (2)

Tabella 1. Flussi degli studenti universitari dalla Regione di residenza prima dell’università alla Regione in cui si trova l’università

 

Università

Nordovest

Università

Nordest

Università

Centro

Università

Sud

Residenza prima dell’università Nordovest

90.78

7.39

1.52

0.30

Residenza prima dell’università Nordest

3.79

93.41

2.50

0.31

Residenza prima dell’università Centro

0.88

4.79

93.69

0.64

Residenza prima dell’università Sud

3.56

4.04

18.86

73.54

I numeri sommano a cento per riga.

Molti osservatori sottolineano che un’adeguata riforma del sistema universitario italiano, che lo renda maggiormente competitivo a livello internazionale, richiede una forte mobilità degli studenti, che dovrebbero spostarsi dagli atenei “peggiori” a quelli “migliori”.  Se si vuole ottenere questo risultato, però, occorre incidere non solo sui costi della frequenza universitaria fuori sede, ma anche sui benefici: pensando a sistemi di differenziazione che accentuino le distanze tra atenei “migliori” e “peggiori”, ben oltre le differenze in gran parte illusorie illustrate nella figura 1. E garantendo meccanismi di selezione di tipo meritocratico. Un compito certamente non facile.

(1) I dati usati sono quelli dell’indagine del 2001 sui laureati del 1998. Solo atenei con almeno tre facoltà. Le stime da cui questa articolo è tratto sono state fatte presso il laboratorio Adele dell’Istat. Maggiori dettagli in Brunello, G. e Cappellari, L., 2005, “Does Alma Mater matter? Evidence from Italy”, mimeo, Università di Padova.

(2) Catalano e Fiegna, 2003, “La valutazione del costo degli studenti universitari in Italia”, Il Mulino

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