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Il gatto del protezionismo si morde la coda

Le misure invocate in difesa del made in Italy sono miopi e non tengono conto delle caratteristiche del processo di integrazione delle nostre imprese nel mercato internazionale. Il protezionismo non crea quasi mai le condizioni per il proprio superamento. E’ sbagliato condizionare gli incentivi al mantenimento di una quota “sostanziale” di attività in Italia. Perché la delocalizzazione ha fornito alle aziende più dinamiche un importantissimo vantaggio competitivo. Invece di favorire questo processo, lo seppelliamo di vincoli e ne aumentiamo i costi.

Il made in Italy soffre e si lamenta. È comprensibile: il nostro paese è più esposto degli altri alla concorrenza di aree a basso costo del lavoro, Cina, India o Brasile che siano. Ma le misure di difesa invocate dalle imprese, o almeno da una parte di esse, e sostenute con schieramenti variabili dalle diverse componenti di Governo, sono miopi e non tengono conto delle caratteristiche del processo di integrazione delle nostre imprese nel mercato internazionale.  Ci riferiamo alle richieste all’Unione europea di introdurre barriere alle importazioni cinesi (dazi anti-dumping, clausole di salvaguardia) e alle misure contenute nel piano economico per lo sviluppo, che vietano l’accesso ai principali strumenti di supporto finanziarioall’internazionalizzazione (export o investimenti) "per le imprese che, investendo all’estero, non prevedano il mantenimento sul territorio nazionale delle attività di ricerca, sviluppo, direzione commerciale, nonché di una parte sostanziale dell’attività produttiva".

CHI GALLEGGIA

Iniziamo con la miopia. Verso la Cina è possibile invocare (a livello europeo) misure di salvaguardia di diverso tipo, sia per i prodotti tessili che per qualunque altro bene la cui produzione nazionale sia seriamente danneggiata dalle importazioni cinesi (indipendentemente dal grado di scorrettezza di queste ultime). La ragione di queste misure è dare alle imprese tempo e ossigeno per ristrutturare e ri-organizzare le proprie attività. Ma l’ossigeno dura poco e la marea delle importazioni cinesi, spinta dalla forza di condizioni di produzione generali estremamente competitive (costo del lavoro e altro), riprenderebbe presto a salire. Dunque, l’ossigeno va usato bene e in fretta.
Peccato che le nostre imprese del tessile e abbigliamento in passato abbiano avuto molti margini per riorganizzare le proprie attività, al relativo riparo dalla concorrenza internazionale. Il settore tessile è stato fin dagli anni Settanta protetto dall’"accordo multifibre", un sistema di quote bilaterali che colpiva solo le esportazioni dei paesi in via di sviluppo, in palese violazione delle norme del Gatt. Inizialmente, l’accordo multifibre doveva durare soltanto cinque anni, ma fu continuamente rinnovato fino a quando nel 1994, con l’"Agreement on Textile and Clothing", si decise finalmente di smantellarlo. Ma ancora una volta si scelse di procedere con estrema gradualità concedendo ben dieci anni di tempo per permettere ai paesi importatori di compiere i necessari aggiustamenti.
Cosa è accaduto in questi dieci anni? In Europa, invece di seguire un percorso di transizione graduale, si è sostanzialmente mantenuto invariato il sistema delle quote fino alla fine del 2004. Ora, le imprese meno efficienti, che non hanno usato questo tempo per riorganizzare le proprie attività, vanno sotto l’onda della fine del Multifibre. Il galleggiante delle clausole di salvaguardia potrebbe forse dar loro un po’ di respiro, ma per quanto tempo se non hanno imparato a nuotare dopo quasi quaranta anni di protezione?  La verità è che il protezionismonon crea, quasi mai, le condizioni per il proprio superamento. È difficile quindi non pensare che anche oggi, dietro alle richieste di misure temporanee, si nasconda il desiderio di perpetuare un sistema di protezione che però nel lungo periodo fossilizzerebbe il nostro sistema produttivo rendendolo ancora meno competitivo.

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E CHI NUOTA

Per fortuna, nel made in Italy vi sono anche dei nuotatori. Hanno investito in nuove tecnologie, aumentato la qualità dei prodotti e soprattutto hanno riorganizzato la loro attività produttiva frammentandola in diversi paesi.
Qui sta proprio il secondo problema: la richiesta di protezione non tiene in alcun conto questi processi di riorganizzazione geografica. Non viviamo più in un mondo in cui si commerciano solo prodotti finiti. Una quota enorme del commercio internazionale è rappresentato da componenti, semilavorati, che le imprese manifatturiere producono e assemblano in vari paesi del mondo. La Benetton nel 1992 produceva il 100 per cento in Italia, ora solo il 70 per cento.  Ecco, dirà qualcuno, proprio quello che bisogna impedire, dobbiamo tornare a una Benetton che produca tutto in Italia. Peccato che se la Benetton non avesse trasferito le proprie attività in parte all’estero, oggi probabilmente in Italia produrrebbe ben poco perché non sarebbe più competitiva. La delocalizzazione ha fornito alle nostre imprese più dinamiche un importantissimo vantaggio competitivo, una delle ragioni per cui possiamo ancora vantarci o almeno parlare del made in Italy.
Ma il commercio di componenti e semi lavorati, per cui i pantaloni sono tagliati in Italia, cuciti in Cina con cerniere importate dal Vietnam e venduti in Giappone, prospera solo se i costi di trasporto delle merci, e dunque le barriere commerciali, sono bassi. Se noi alziamo le barriere verso la Cina puniamo anche le nostre imprese, aumentando ad esempio il prezzo dei pantaloni italiani cuciti in Cina e rivenduti in Europa. Tanto più se un’azione forte dell’Europa nei confronti della Cina avesse l’effetto perverso di rallentare il processo globale di liberalizzazione degli scambi commerciali nell’ambito del Wto invece di accelerare l’auspicata liberalizzazione del mercato cinese.

LA DELOCALIZZAZIONE

Questa chiave di lettura spiega anche perché sbaglia, e sbaglia di grosso, il Governo (posizione del resto piuttosto condivisa a livello europeo) a punire le imprese che delocalizzano, condizionando l’accesso a diversi strumenti di incentivo al mantenimento di una quota ‘sostanziale’ di attività in Italia. I vincoli sono rilevanti, impediscono di accedere ai finanziamenti agevolati della Simest per la costituzione e lo sviluppo di joint venture all’estero (legge 100/1990), ai finanziamenti dei crediti all’export, ai servizi assicurativi della Sace, che copre i rischi politici ed economici relativi alle attività internazionali delle nostre imprese (decreto legge n. 143/1998) e ad altre misure per favorire l’iniziativa privata e lo sviluppo della concorrenza (legge 273/2002). La giustificazione di questo provvedimento è evitare che le imprese scappino e impoveriscano il tessuto produttivo nazionale. Ma si dimenticano tre cose fondamentali.
Primo, che le imprese vanno all’estero per preservare e rafforzare la propria competitività (delocalizzare è costoso, perché farlo se non conviene o non è necessario?).
Secondo, che le attività ad alto valore aggiunto rimangono in Italia se i costi nel nostro paese sono competitivi.
Terzo, che non tutte le imprese hanno bisogno di delocalizzare nello stesso modo. Per alcune imprese forse sarà necessario produrre tutto all’estero per poter mantenere il design e la ricerca e sviluppo in Italia, per altre solo una piccola fase produttiva.  Fissare il confine tra delocalizzazione virtuosa e viziosa per decreto è demagogico. Infatti, si usa il termine di ‘sostanziale’ proprio perché una misura precisa non può essere definita e come sempre la indefinitezza dei provvedimenti di legge apre le porte alla discrezionalità della burocrazia. Insomma, invece di favorire un processo che permette di accrescere la nostra competitività, lo seppelliamo di vincoli e ne aumentiamo i costi.

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Il disegno di un nuovo welfare

  1. A. Sala

    Ad occuparsi di Cina, mi pare, sono tre categorie professionali: i politici, i giornalisti e gli economisti. Una categoria è clamorosamente assente: gli ingegneri. Esiste infatti non solo una componente economica, ma anche una componente tecnica: la qualità dei prodotti importati dalla Cina. L’Unione Europea si è data regole abbastanza severe nel tutelare la sicurezza dei prodotti: la marcatura CE, la direttiva sui giocattoli, la direttiva sui recipienti in pressione, ecc. I prodotti cinesi, brasiliani, vietnamiti oggi e quelli africani, in un futuro non tanto remoto, rispettano le regole severe stabilite dall’Unione Europea? Non è dato sapere, perchè non esistono gli organismi di controllo. C’è qualche ingegnere che legge lavoce, che conta, che sappia spiegare ai politici, ai giornalisti e agli economisti il significato e il valore delle regole che l’Unione Europea si è data?

    Cordialità

    P.S. Ovviamente sono ingegnere, ma un ingegnere che non conta.

  2. Angelo

    Senza entrare nel merito tecnico della delocalizzazione e premettendo che sono fondamentalmente d’accordo con il non senso dei dazi, tuttavia mi rimane sempre un dubbio: se le aziende delocalizzano pesantemente all’estero cosa ne sarà dei lavoratori italiani. Verranno assunti in massa nelle restanti realtà industriali che rimangono ?
    Si potrebbe obbiettare al mio appunto che, non delocalizzando, alcune imprese avrebbero fallito perdendo competitività e questo sarebbe risultato comunque in persone che perdono il proprio lavoro.
    Allora come risolviamo questo problema ? Delocalizziamo anche gli italiani ?

  3. A.Lauri

    Ritengo la tesi sostenuta nell’articolo corretta e logica (per quanto possa valere la mia opinione). La “mano invisibile” nel lungo periodo metterà a posto le cose. Le imprese italiane faranno i loro sforzi per migliorare la competitività; e se nel gareggiare sul mercato nazionale ed internazionale saranno bastonate, è cosa buona e giusta! Come consumatore avrò prodotti di maggiore qualità e a prezzi più bassi.
    Spiegherò ai miei figli che la riduzione del tenore di vita, la difficoltà a trovare lavoro, l’affanno a fine mese teoricamente sono un bene. Alla fine, nel medio/lungo periodo …
    Intanto combattiamo il colesterolo, l’eccesso di grassi, le potenziali malattie cardiovascolari con due sane ciotole di riso al giorno. Una vita frugale vissuta cristianamente partorisce sani valori.
    Sarà come dite voi ma qualcosa non mi quadra! Non è che forse, ad onore della teoria e della logica, ci tocca sopportare un sacrificio sociale superfluo? Non sarebbe forse meglio proteggere il nostro sistema imprenditoriale e sociale fatto di garanzie per i più elementari diritti umani, frutto di una civiltà che, migliore o peggiore, è comunque la nostra?
    Sono daccordo con il commento dell’ing. Sala che mi porta a pensare che non possiamo combattere di fioretto con chi usa l’ascia!
    Chiedo scusa per le mie considerazioni profane e mi associo all’atto di umiltà espresso dall’ing. Sala nel p.s..
    Saluto cordialmente.

    • La redazione

      Ringraziamo i nostri lettori per i loro commenti, che in effetti
      trasmettono un senso di profonda preoccupazione.

      E’ possibile proteggere il nostro sistema sociale e imprenditoriale? E’ la domanda che si pongono giustamente i nostri lettori. La risposta è sì, a una condizione però, che riusciamo ad adattarlo alle nuove condizioni dell’economia mondiale. Per tanti anni abbiamo vissuto di una posizione di rendita producendo beni a bassa tecnologia e a bassa intensità di manodopera qualificata e vendendoli agli altri paesi industrializzati. Oggi tutto ciò non è più possibile, perché i paesi in via di sviluppo occupano sempre più le nostre nicchie di mercato, con costi e prezzi più bassi. Il Made in Italy è quindi condannato? Certo che no! La performance del tutto positiva della meccanica strumentale sottolinea che quando gli imprenditori italiani si specializzano in produzioni ad alta tecnologia hanno successo. Ma è tutto il sistema industriale che deve percorrere questa strada. Per questo sono indispensabili investimenti in ricerca e sviluppo, investimenti in istruzione, norme che agevolano il capitale di rischio invece di punirlo (come fa invece il nostro diritto fallimentare).

      Il protezionismo serve? La risposta è no, eccetto forse che nella transizione. La controindicazione più grave del protezionismo nasce proprio dal fatto che induce imprese e lavoratori a rimanere e soprattutto a investire in settori che hanno sempre meno futuro in quanto il loro vantaggio competitivo si è spostato in altri paesi. Se si trattasse di misure solamente temporanee, dirette a aiutare e proteggere le persone (ma non i posti di lavoro) andrebbe tutto bene. Purtroppo, una volta introdotte, le misure protezionistiche sono difficili da smantellare. Il multifibre è sopravvissuto per più di 30 anni, ma non ha risolto i problemi di competitività del nostro settore tessile-abbigliamento, al contrario. Lo stesso discorso vale per l’agricoltura. Quello di cui abbiamo bisogno sono misure che non fossilizzino la nostra struttura industriale in una situazione non competitiva. De Arcangelis e Giovanetti ricordano nel loro articolo come negli Stati Uniti si sia riusciti meglio che da noi a conciliare l’esigenza di proteggere lavoratori e imprenditori con quella di agevolare la mobilità verso nuovi settori. Perché non fare lo stesso in Italia e in Europa?

      Un lettore mette in luce come in il costo dei materiali sia talora superiore al prezzo di vendita dei beni cinesi. E’ un caso di concorrenza sleale (dumping) per cui gli accordi del WTO prevedono degli strumenti di risposta come le azioni antidumping, di cui in passato si e’ fatto ampio uso. Anche se questi strumenti sono spesso usati a fini puramente protezionistici (e’ difficile capire se le imprese stiano effettivamente praticando delle azioni di dumping e di ‘predatory pricing’) il loro utilizzo è del tutto giustificabile. Devono essere gli imprenditori però ad attivare le procedure presso gli organismi della Commissione segnalando queste pratiche. Nel caso della Cina, poi, e’ possibile chiedere l’introduzione delle clausole di salvaguardia se un determinato settore e’ seriamente danneggiato da una crescita improvvisa delle importazioni. Si noti che per entrare nel WTO la Cina ha accettato regole particolari, che prevedono che le misure di salvaguardia possano essere unilaterali, ossia solo contro la Cina stessa. Questa e’ un’eccezione, che viola il principio di non discriminazione del GATT. In sintesi verso la Cina e’ possibile attivare misure di salvaguardia mirate e dunque più stringenti che verso altri paesi. Ma si tratta di misure temporanee che se non vengono utilizzate per affrontare i nodi strutturali del settore e dell’economia non fanno altro che ritardare e spesso aggravare il problema.

      In estrema sintesi, non possiamo e non vogliamo competere con i paesi in via di sviluppo sulle condizioni di lavoro e di salario. Non possiamo neppure far ricorso alla protezione commerciale se non come misura del tutto temporanea. La difesa del nostro sistema imprenditoriale e sociale si puo’ fare solo eliminando i fardelli che pesano sulla competitivita’ delle nostre imprese, non proteggendole in maniera di fatto permanente dalla concorrenza.

  4. Cobretti A.

    Concordo sul fatto che tra gli interlocutori dei politici sul tema della Cina dovrebbero esserci gli ingegneri, ma il problema a questo punto è che gli ingegneri in quanto tali non hanno voce in capitolo non avendo degli organismi a livello nazionale in grado di farne sentire la voce. Non c’è un minimo di tutela degli ingegneri, ognuno pensa per conto suo, si ha una visione miope del proprio ruolo. Oltre a ciò, a mio avviso, sono le stesse aziende italiane a trovare più comodo evitare di rispettare le norme europee e trovare ogni espediente possibile per aggirare tali norme…preferendo vendere i propri prodotti in stati poco evoluti tecnologicamente (Tunisia, Algeria, Paesi dell’Est, Cina) piuttosto che confrontarsi con stati come Germania, Francia, Inghilterra, Stati Uniti. Poi però ci si lamenta che gli stati in cui vendiamo ancora qualcosa poi ci copiano i prodotti…ma noi da 50 anni a questa parte cosa abbiamo fatto se non copiare continuamente l’80% di quello che abbiamo prodotto?

    Saluti,

    Cobretti A.

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