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Per innovare bene, bisogna valutare

Paesi grandi e piccoli hanno cominciato ad analizzare i loro sistemi innovativi nel loro complesso, al fine di identificarne aree di forza e di debolezza. In alcuni casi, i risultati della valutazione sono già diventati ingredienti per la preparazione dei programmi degli anni successivi. Niente di tutto questo accade in Italia. Eppure dagli errori del passato c’è molto da imparare. Per esempio, l’inefficacia di offrire alle imprese incentivi temporanei all’interno di una giungla di altre agevolazioni, spesso sostitutive le une delle altre.

Come riportato nello Science, Technology and Industry Outlook 2004, negli ultimi due anni molti paesi hanno intrapreso iniziative sistematiche di valutazione dell’efficacia delle loro politiche di incentivo della ricerca scientifica e dell’innovazione. L’Italia non è tra questi.


Come si valutano gli altri


Alcuni grandi paesi, come Australia e Canada, hanno cominciato ad analizzare i loro sistemi innovativi nel loro complesso, al fine di identificarne aree di forza e di debolezza. Altri paesi (come Regno Unito, Svezia, Nuova Zelanda e Olanda) hanno addirittura introdotto per legge l’obbligo di valutare le politiche innovative. In Olanda, ad esempio, il decreto legislativo prevede una valutazione ex-ante (cioè l’obbligo di considerare i pro e i contro dell’impiego di misure alternative), un monitoraggio in corso di attuazione e una valutazione consuntiva. L’efficacia dei vari strumenti di agevolazione viene poi sottoposta a revisione ogni cinque anni.
L’opportunità di ricorrere alla valutazione sistematica degli esiti e degli strumenti delle politiche di incentivo è riconosciuta come fondamentale anche in paesi più piccoli. I più attivi nel campo della valutazione delle politiche sono Finlandia e Irlanda. Questi paesi sono riusciti a sfuggire alle coalizioni di accademici e scienziati nazionali, ricorrendo ad esperti internazionali indipendenti e a pratiche di benchmarking internazionale per valutare se l’investimento di fondi pubblici per l’innovazione e la ricerca è produttivo oppure no. I buoni esempi in questo campo vanno però ben oltre i soliti noti. Come evidenzia il rapporto dell’Ocse, anche altri paesi piccoli come Belgio e Lussemburgo valutano le loro politiche dell’innovazione (in Belgio, i Fiamminghi lo fanno separatamente dai Valloni, ma lo fanno). Lo stesso vale anche per due paesi di recente ammissione nell’Unione europea, come la Repubblica Ceca e l’Ungheria.
In alcuni casi, i risultati della valutazione sono già diventati ingredienti per la preparazione dei programmi degli anni successivi. In Olanda, ad esempio, la valutazione delle politiche innovative ha prima portato a coordinare e poi a ridurre il numero (ma non l’entità complessiva) dei programmi di sostegno dell’innovazione, accrescendone la trasparenza e l’accessibilità per le nuove imprese. Nel Regno Unito, seguendo i suggerimenti contenuti nel
Dti Innovation Report, fondi pubblici sono stati destinati alla condivisione dei rischi tra imprese inglesi e Governo per l’utilizzo a fini industriali di nuove scoperte scientifiche di base, provenienti dal mondo accademico del paese e dall’estero.


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E in Italia?


L’Italia non è nemmeno citata nelle pagine del Rapporto dell’Ocse che si occupano di valutazione delle politiche. Questa assenza è il risultato di una schizofrenia del nostro dibattito politico.
Da un lato, sottolineare l’urgente necessità di incoraggiare l’innovazione e la ricerca è ormai diventato un luogo comune. Il governo Berlusconi, per promuovere entrambe, ha promesso e parzialmente realizzato una pluralità di iniziative (puntigliosamente elencate, per esempio, dai ministri Lucio Stanca e Letizia Moratti sul Sole 24 Ore, rispettivamente, del 5 dicembre 2004 e dell’11 febbraio 2005). Tuttavia, nel nostro paese il dibattito sugli incentivi all’innovazione e alla ricerca avviene come se in passato non ci fossero mai state politiche di questo genere. Gli altri paesi provano a imparare dagli errori passati, propri e degli altri. In Italia, invece, poco importa che la TecnoTremonti, il sistema di credito di imposta introdotto in parallelo con la Finanziaria 2004 per incoraggiare la spesa in R&S e l’internazionalizzazione delle imprese, non sia mai entrata in fase di attuazione. Anzi, il Governo, nel rispondere al
questionario dell’Ocse sulla valutazione delle politiche per favorire l’innovazione e la ricerca, non si è fatto scrupolo di aggiungere la TecnoTremonti alla lista delle misure attuate.
È un peccato. Proprio dal fallimento della TecnoTremonti, si potrebbe imparare qualche cosa sull’inefficacia di offrire alle imprese incentivi temporanei all’interno di una giungla di altre agevolazioni, spesso sostitutive le une delle altre. Ma, si capisce, è più facile elencare le iniziative intraprese che valutarne rigorosamente gli esiti. Speriamo che quando (se?) il Ddl sulla competitività arriverà in Parlamento e la nuova strategia di supporto all’innovazione sarà finalmente presentata, il Governo colga l’occasione di importare dall’estero la buona abitudine di prevedere per legge che le nuove politiche di incentivo siano sottoposte a valutazione.

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  1. guido pellegrini

    Concordo con molte osservazioni presentate nell’articolo di Francesco Daveri, in particolare con l’affermazione che in Italia, specie nel campo della valutazione delle politiche di incentivazione, non si è fatto spesso tesoro delle esperienze passate. Volevo invece ricordare che vi sono stati studi (direi forse meglio “esperimenti”) di valutazione di alcune politiche di sostegno all’innovazione (in particolare la 46). Questi studi sono stati allegati nella Relazione sugli incentivi alle imprese prodotta annualmente dalla Direzione di coordinamento degli incentivi del MAP e disponibili sul sito (perlomeno lo erano).
    saluti
    guido pellegrini

    • La redazione

      Grazie del messaggio e dell’utile informazione per i lettori e per chi si occupa dell’effetto degli incentivi.

      Rimane purtroppo il fatto che l’OCSE non menziona l’Italia tra i paesi che hanno fatto uso della valutazione delle esperienze passate come guida per le politiche future. Speriamo che le cose cambino.

      Saluti,

      Francesco Daveri

  2. giuseppe di bello

    Caro Francesco,
    alcuni anni fa Alberto Arbasino invitò i letterati italiani a fare una gita a Lugano, per sottolineare il loro provincialismo.
    Se ho ben compreso, il Tuo è un invito, rivolto ai policy-makers italiani, a compiere un’escursione ben oltre Lugano, ad esempio ad Helsinki o a Dublino.
    Vorrei chiederTi delucidazioni a proposito di un passo del Tuo scritto. A proposito di Finlandia ed Irlanda, scrivi che essi “sono riusciti a sfuggire alle coalizioni di accademici e scienziati nazionali, ricorrendo ad esperti internazionali indipendenti e a pratiche di benchmarking”. A proposito di “coalizioni”, non capisco se intendi riferirTi a gruppi di pressione presenti in quei paesi o se invece scrivi facendo riferimento alla nostra situazione. Inoltre, sarei curioso di sapere come viene impostata una politica di “benchmarking” nel campo della valutazione degli investimenti in R&D e soprattutto quali siano le “pietre di paragone” scelte.
    Cordiali saluti.
    Giuseppe Di Bello

    • La redazione

      Caro Giuseppe, grazie del messaggio.

      il riferimento nell’articolo è alle coalizioni di alcuni docenti
      universitari italiani che a volte – leggo sui giornali o nelle rubriche delle lettere – si sentono offesi dall’idea di ricorrere ad esperti internazionali (“come se noi non fossimo capaci di valutare i nostri progetti o i nostri allievi”).

      Il benchmarking delle politiche di innovazione non è – credo – ancora una scienza. In linea di principio, occorrerebbe fare esperimenti di policy evaluation come suggerisce il premio Nobel Heckman. Un pragmatico compromesso tra ciò che si dovrebbe fare e ciò che una agenzia per l’Innovazione, seria ma con risorse limitate, può fare lo puoi trovare al
      sito Web della Agenzia inglese: http://www.dti.gov.uk/innovationreport/

      A presto

      Francesco

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