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La Scala di seta

La vicenda della Scala insegna che si sarebbe dovuto fare un minimo di analisi costi-benefici, prima di avviare un progetto che ha forti probabilità di diventare una pesante perdita netta. Milano è però solo la punta di un iceberg. Nel 2004 il deficit complessivo di gestione dei teatri lirici ha raggiunto i quaranta milioni di euro. Accade per la scarsa cultura musicale degli italiani, ma anche per distorsioni e disfunzioni che si potrebbero risolvere nel breve e medio periodo. E infatti non mancano alcuni tentavi di razionalizzazione. La Scala ne è rimasta distinta e distante.

Parafrasando Gioacchino Rossini, la Scala di seta si è spezzata a meno di tre mesi dalla riapertura della sala del Piermarini, con una soirée in grande spolvero nonostante un’opera, “L’Europa riconosciuta” di Antonio Salieri, che potrebbe fare concorrenza sleale al “valium”.  È esploso ciò che gli interessati al settore sapevano da tempo: da anni, la litigiosità all’interno della Fondazione, in particolare tra il sovrintendente Carlo Fontana e il direttore musicale Riccardo Muti, ha raggiunto livelli tali che non si è neanche attesa la scadenza contrattuale del mandato del primo, per revocarlo. L’operazione, però, non è stata indolore: in pratica, l’orchestra non ha dato il proprio gradimento al nuovo sovrintendente, Mauro Meli, proveniente dal Teatro lirico di Cagliari, e ha protestato il proprio direttore musicale. Le cronache ci diranno come finirà la vicenda.

La punta di un iceberg

Il caso è la punta di un iceberg che riguarda sia la Scala sia, più in generale, la musica lirica nella patria del “recitar cantando”.
In primo luogo, la Scala riemerge dopo una laboriosa e costosa ristrutturazione, che ha comportato la costruzione di una seconda sala, gli Arcimboldi per 2.300 posti e la messa a punto di uno dei palcoscenici più moderni d’Europa. Nessuno ha mai pubblicato dati certi sui costi in conto capitale dei lavori, peraltro non ancora ultimati. Su www.lavoce.info, Roberto Perotti li ha stimati in 150 milioni di euro. La cifra, mai smentita, rappresenta un’approssimazione per difetto. Verosimilmente, i costi sono stati – anzi saranno – molto più elevati, specialmente se al conto capitale si aggiunge, come doveroso, una stima attualizzata delle sovvenzioni pubbliche necessarie per fare funzionare le due sale. In effetti, con la ristrutturazione della sala del Piermarini e la costruzione degli Arcimboldi, la Fondazione si è data una”call option” sul bilancio dello Stato, e degli enti locali, esercitatile, e ripetibile, in qualsiasi momento. Gli interessati, su cui grava una “liability option”, probabilmente non se ne sono resi conto; i disavanzi crescenti dimostrano che la “call option” (sui contribuenti) viene già esercitata.

Repertorio o stagione?

Veniamo ai benefici. Due interrogativi: ha Milano la capacità di assorbimento di due grandi teatri d’opera o, quanto meno, di due grandi spazi permanenti per il teatro in musica? Può la Scala, unica in Italia, abbandonare la programmazione “per stagione”, diventata ormai tipica del nostro paese, e adottare, come previsto dal nuovo palcoscenico, il “repertorio”, al pari di Germania ed Europa centrale, nonché Metropolitan e City Opera di New York, Covent Garden e English National Opera di Londra? Adesso, nel complesso dei due teatri si rappresenta un titolo ogni due-tre settimane. “Repertorio“, invece, vuole dire quattro-cinque titoli la settimana in ciascuno dei due teatri, quindi, venticinque-trenta titoli l’anno, con nuove produzioni ogni anno tre-quattro. Vuole anche dire allestimenti (regia, scene, costumi) che non cambiano, salvo pochi adattamenti, per alcuni lustri, una compagnia di canto stabile, con contratti pluriennali, arricchita dalla presenza di qualche ospite, e una squadra di maestri concertatori disposti a passare da un’opera a un’altra e da un compositore a un altro.
Sulla possibilità di realizzare il cambiamento, non è stata fornita alcuna seria indicazione. Anche ove le articolazioni organizzative e artistiche fossero state elaborate, ci si dovrebbe chiedere da dove verrebbe il pubblico per riempire a Milano, quasi ogni sera, due teatri per circa 5mila posti complessivi, e, per di più, a biglietti tra i più cari d’Europa.
Buon senso avrebbe voluto un programma molto più modesto, e molto meno costoso, per i lavori essenziali alla sala del Piermarini, riattivando la Piccola Scala per le opere da camera. Nonché le “operine” con cui, nel resto del mondo, vengono avvicinati i bambini alla musa bizzarra e altera, per predisporli a essere futuri spettatori. In breve, si sarebbe dovuto fare un minimo di analisi costi benefici, o (ancora più semplicemente) costi efficacia prima di imbarcarsi in un progetto che ha forti probabilità di diventare una pesante perdita netta.

I conti della lirica

I nodi della Scala non sono che i più gravi e i più clamorosi della lirica italiana. Nel 2004, il deficit complessivo di gestione ha raggiunto i 40 milioni di euro. Nel 2005, le stime parlano già di un ulteriore disavanzo di parte corrente: 50 milioni di euro. Lo stock di debito viene stimato in 100-120 milioni di euro, di cui circa 70 accumulati a Cagliari negli anni in cui era sovrintendente Mauro Meli.. La normativa in vigore richiede alle quattordici fondazioni lirico-sinfoniche il pareggio di gestione. Nel 2003, ultimo anno per il quale si dispone di consuntivi, solo l’Opera di Roma, il Carlo Felice di Genova e l’Accademia di Santa Cecilia hanno chiuso i conti in utile, per poi andare in rosso nel 2004, quando i contributi del Fondo unico per lo spettacolo sono stati ridotti all’inizio dell’estate, a “stagioni” in corso e scritture firmate.
Alle radici della situazione, ci sono determinanti di lungo periodo che attengono alla scarsa cultura musicale e quindi alla poca fidelizzazione del pubblico. Ci sono, però, distorsioni e disfunzioni che possono e debbono essere affrontate nel breve e medio periodo. Mediamente, mettere in scena in Italia uno spettacolo lirico costa, per serata, un terzo di più che nel resto d’Europa. Le ragioni sono numerose: frammentazione delle attività (circa settantacinque teatri sovvenzionati, invece della ventina in Francia, ad esempio); cartelloni di ciascun teatro articolati come se fossero festival, strapotere dei sindacati con conseguente sovradimensionamento degli organici e rischio di non andare in scena per scioperi improvvisi di questa o quella categoria, ricorso a cantanti già noti e stranieri, che si garantiscono nei confronti del rischio-sciopero chiedendo cachet più alti.
Qualcosa si muove. Ad esempio, una cura da cavallo ha portato allo straordinario risanamento del Teatro dell’Opera di Roma: nel 1999 avevo proposto di chiuderlo a ragione delle gravi disfunzioni. Oppure la recente decisione de La Fenice di affidare a un’équipe di giovani cantanti italiani, sconosciuti in patria, ma già affermati sui palcoscenici tedeschi, l’arduo “Maometto secondo” rossiniano. Oppure ancora, la cooperazione tra otto teatri (quattro del circuito lombardo) per la tournée di successo internazionale, di grandissima qualità e basso costo, “Il ritorno d’Ulisse in Patria” di Claudio Monteverdi. Esperienze consortili per contenere i costi, come quelle tra i teatri emiliani e toscani. La Scala è rimasta distinta e distante da tentativi di razionalizzazione come questi. Nella speranza che Pantalone apra sempre la borsa. Adesso è forse solo un’illusione.

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Sommario 7 marzo 2005

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Per innovare bene, bisogna valutare

  1. Adolfo Laurenti

    La riflessione sul mondo dell’opera dal punto di vista degli economisti offre una boccata di aria fresca su un tema in cui un certo sclerotismo e’ a lungo prevalso. Tre rapide riflessioni sullo stimolante articolo di Pennisi:
    1. Capisco l’aspirazione della Scala ad essere teatro di cartellone, non di repertorio. Capisco molto meno l’ambizione a voler essere teatro di cartellone su ENTRAMBI i palcoscenici milanesi, quando la logica mi suggerirebbe di mantenere la sala del Piermarini come vetrina, ma di allestire agli Arcimboldi le produzioni di repertorio. Che, essendo pur sempre repertorio scaligero, potrebbero comunque godere di una certa attenzione (penso all’attrazione che i capolavori verdiani o del belcanto eserciterebbero per i tanti turisti ed ospiti stranieri.)
    2. Non capisco affatto, se non alla luce di un protagonismo ed ambizione sproporzionati ai mezzi disponibili, l’aspirazione di ogni teatro italiano ad essere teatro di cartellone. Passi per Roma, Torino, Bologna, Genova, Napoli, la Fenice, forse Parma e Pesaro – la lista gia’ si allunga. Ma come giustificare i costi enormi di tale intrapresa in citta’ di provincia medie e piccole, talvolta piccolissime? Non ho mai visto seriamente messo in discussione il “modello italiano”, mentre l’esperienza tedesca e’ sempre stata liquidata con sufficienza. Mi pare, se non sbaglio, che in Germania sopravvivano numerosi teatri d’opera, che allestiscono spettacoli di repertorio con dignita’, senza creare voragini nelle finanze pubbliche, spesso con cantanti giovani o sperimentati (che vengono poi “riscoperti” in Italia con grande ritardo e grande enfasi.)
    3. Un vantaggio della programmazione “di repertorio” sarebbe il potersi affidare a compagnie di canto stabili o semi-stabili. I giovani cantanti sarebbero estremamente felici di poter avere una simile opportunita’: sia in termini di stabilita’ di occupazione, sia per la possibilita’ di approfondire ruoli, guadagnare esperienza, e maturare vocalmente. Purtroppo, in Italia non sembrano esistere opportunita’ di “fare gavetta.”
    Non ho dubbi che la logica di “public choice” e “rent seeking” da parte di sindacati, amministratori ed operatori del settore sia estremamente potente nello spiegare il perche’ il sistema italiano si sia evoluto nel modo in cui e’ evoluto. Ma forse cio’ e’ accaduto perche’, a dispetto di tradizione e popolarita’, la gestione del mondo dell’opera e’ sempre rimasta dominio esclusivo di pochi addetti ai lavori. Spero che il dibattito continui, e che la provocazione di Pennisi non rimanga isolata.

    Adolfo Laurenti
    Chicago, IL USA

  2. Nicola Tosini

    Questo articolo mi rende felice 2 volte.
    Si scrive di musica per un pubblico non necessariamente di musicofili (spesso tragicamente più inclini al culto della personalità che non alla passione per l’arte).
    Della musica si affrontano aspetti poco eterei e molto terreni: la musica, fatta di persone e di cose, è molto costosa.
    Un dettaglio dell’articolo non mi è chiaro però: comprendo il rinnovato interesse per le opzioni suscitato da FIAT, ma quale aspetto di discrezionalità si vuole metter in luce nel rapporto della Scala con lo Stato?
    Grazie
    Nicola

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