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L’onda lunga della “legge Biagi” tedesca

Un anno fa è entrata in vigore in Germania una mini-riforma in materia di licenziamento, nell’ambito di un pacchetto di misure legislative che per altro verso presentano notevolissime analogie con quelle recate in Italia dalla cosiddetta legge Biagi. Una riforma dello stesso segno di quella voluta dal nostro Governo di centrodestra, ma per alcuni aspetti più incisiva, lì è varata da un esecutivo socialdemocratico. I dati disponibili mostrano, peraltro, come la nuova legge tedesca si innesti in un sistema complessivamente meno rigido rispetto a quelli dell’Europa meridionale e a quello italiano in particolare.

Tra il 2000 e il 2003 in Germania è stato progressivamente varato un pacchetto di nuove norme in materia di lavoro che per una parte notevole presentano numerose marcate analogie con la “legge Biagi” e con le altre iniziative del Governo italiano sulla stessa materia. Sono la legge del 2000 sul contratto a termine e sul part-time e le quattro “leggi Hartz”, due del 2002 e due del 2003, che prendono il nome dall’ex direttore del personale della Volkswagen, studioso di economia, incaricato a suo tempo dal Governo tedesco di delineare le riforme necessarie per combattere la disoccupazione e aumentare il tasso di occupazione.
È presto per una valutazione circa gli effetti di queste riforme; colpisce, comunque, che lì sia il partito socialdemocratico a promuovere mutamenti del diritto del lavoro analoghi a quelli che da noi sono promossi da una maggioranza di segno politico opposto e contro i quali la sinistra politica e sindacale italiana fa le barricate.

Riconosciuti e regolati staff leasing, job on call e mini-jobs

Come la nostra “legge Biagi”, le nuove leggi tedesche si propongono di rendere più efficienti e capillari i servizi di collocamento, allargano un po’ le maglie della disciplina della fornitura di lavoro temporaneo da parte delle agenzie specializzate e – cosa impensabile, in Germania come da noi, soltanto dieci anni or sono – consentono la fornitura di lavoro a tempo indeterminato da parte di agenzie specializzate: quello che negli Usa e nel Regno Unito viene chiamato staff leasing. Vengono inoltre riconosciuti e regolati il lavoro a chiamata (o job on call) e i cosiddetti mini-jobs, ovvero i rapporti di lavoro domestico a basso numero di ore: si cerca di far emergere il lavoro irregolare in questo settore riducendone gli oneri fiscali e contributivi e semplificandone gli adempimenti amministrativi.
L’ultima delle quattro “leggi Hartz”, emanata nel 2003 ma entrata in vigore il primo gennaio di quest’anno, riforma incisivamente i trattamenti di disoccupazione (che in Germania arrivano in via ordinaria a poco meno dei due terzi dell’ultima retribuzione), condizionandone l’erogazione a una ricerca attiva del nuovo lavoro da parte del disoccupato e a un progressivo allargamento della sua disponibilità per mansioni diverse dalle ultime svolte, nonché per una retribuzione più bassa.

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La riforma investe anche la materia dei licenziamenti

A differenza della “legge Biagi”, le “leggi Hartz” non si limitano a intervenire nell’area della disoccupazione e in quella del lavoro periferico, marginale: esse intervengono anche – sia pure in modo molto prudente, poco incisivo ‑ sulla materia del licenziamento per motivi economici; ovvero, fanno qualche cosa di vagamente simile a ciò che le barricate italiane hanno impedito di fare al nostro Governo di centrodestra.
Una delle leggi Hartz, entrata in vigore all’inizio dello scorso anno, si propone di decongestionare il contenzioso su questa materia favorendo l’accordo tra le parti sull’indennizzo dovuto dal datore al prestatore di lavoro, con l’intendimento dichiarato di sostituire, almeno tendenzialmente, al filtro giudiziale del “giustificato motivo” di recesso il filtro automatico costituito da un firing cost prestabilito, una sorta di tariffa legale per la “monetizzazione” del danno da perdita del posto di lavoro. In estrema sintesi, il nuovo meccanismo funziona così: all’atto del licenziamento per motivi economici, l’imprenditore può offrire al lavoratore l’indennizzo previsto dalla legge; in tal caso, se il lavoratore non lo accetta e impugna il licenziamento (sostenendo, ad esempio, che esso è dettato da motivi futili, discriminatori, o comunque illeciti), egli rischia – qualora il giudice dia ragione all’imprenditore – di perdere l’indennizzo.

Un firing cost più basso rispetto alla “fascia mediterranea”

L’indennizzo previsto dalla legge Hartz è pari a mezzo stipendio mensile per ogni anno di anzianità: entità relativamente modesta, che costituisce un indice eloquente – e in qualche misura sorprendente ‑ della minore rigidità effettiva del regime tedesco rispetto a quelli della cosiddetta “fascia mediterranea”.
In Spagna l’indennizzo previsto dalla legge è il doppio: una mensilità di retribuzione per anno di anzianità di servizio del lavoratore licenziato.
In Francia, la convention de conversion che l’imprenditore è tenuto a stipulare per ciascun lavoratore licenziato con l’ente pubblico cui compete di assisterlo nella transizione alla nuova occupazione difficilmente costa meno di una annualità dell’ultima retribuzione, anche per anzianità di servizio modeste; e a questo costo possono aggiungersi le sei mensilità ulteriori di indennizzo disposto dal giudice in favore dello stesso lavoratore, se questi vince la causa (vedi l’articolo di Olivier Blanchard e Jean Tirole sulla riforma della materia da loro proposta e attualmente allo studio in Francia).
In Italia la tariffa transattiva praticata normalmente per la “monetizzazione” del posto di lavoro nelle aziende con più di 15 dipendenti varia, anche per lavoratori con bassa anzianità di servizio, da una a due annualità e mezza di retribuzione, con punte che arrivano persino a quattro.
Se il legislatore tedesco ha ritenuto che la mezza mensilità per anno di anzianità costituisca un indennizzo appetibile per il lavoratore, questo mostra come in quel sistema – che pure è considerato uno dei più rigidi del mondo ‑ il firing cost sia mediamente inferiore rispetto ai paesi dell’Europa meridionale.

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Un modello di intervento discutibile, ma da valutare pragmaticamente

Come da noi la legge Biagi, anche questa riforma tedesca pare aver scontentato tutte le parti interessate: gli imprenditori, che chiedono modifiche assai più incisive dell’ordinamento del lavoro, non meno dei sindacati, contrari alla nouvelle vague flessibilizzatrice. Come da noi, per altro verso, anche in Germania gli osservatori qualificati prevedono che l’effetto di riduzione della rigidità effettiva del sistema prodotto da questa riforma risulterà, sul piano pratico, molto modesto. Sta di fatto, però, che lì è il Governo socialdemocratico a cimentarsi su questo terreno (con una opposizione di centrodestra che propugna interventi di liberalizzazione del mercato del lavoro assai più incisivi) e l’esperimento – compresa la nuova norma sui licenziamenti ‑ è in atto fra molti attriti politici, ma senza guerre di religione. Il che dovrebbe indurre a qualche riflessione critica i costruttori di barricate italiani.
L’auspicio è che il giudizio su questo modello di intervento, così come su quello che è allo studio in Francia, venga dato, da noi come in quegli altri paesi, sulla base di uno studio attento dei risultati prodotti dalle nuove norme e non sulla base di preconcetti politico-ideologici, che la comparazione mostra essere davvero privi di senso.

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Tre crack nessuna riforma

  1. Alessandro Condina

    Gentile professor Ichino,
    non mi sembra che il governo tedesco sia stato esentato dalle “barricate” della sinistra, dei sindacati e dei lavoratori. semplicemente, ha deciso di andare avanti “nonostante” quelle obiezione e ha difeso le proprie scelte. ciò che il governo italiano non ha voluto o potuto fare, vuoi per scarsa convinzione vuoi per carente coesione della coalizione al potere.
    la sinistra fa il suo mestiere a opporsi a queste contro-riforme, se poi il governo non regge alla protesta è un problema sua.

    Nel merito, noto che in Germania esisteva il sussidio di disoccupazione già PRIMA di introdurre i vari job-on-call e staff leasing che aumentano in modo drammatico il precariato. gli ammortizzatori sono stati riformati, non rinviati a data da destinarsi come in Italia.
    qui chi perde il lavoro o la “commessa” dell’interinale va a casa e tanti saluti. Non male come flessibilità. eppure gli imprenditori si lamentano ancora: non so, legalizziamo la schiavitù!

    Iperboli a parte, da noi il firing cost è più alto perché chi rimane senza lavoro è solo, abbandonato dallo stato e dalla società, costretto a reinventarsi e riciclarsi in un mercato asfittico, questo sì opera dei nostri poco lungimiranti capitani d’industria.
    Quanto ad accettare “mansioni inferiori e meno retribuite”, vorrei vedere prima degli altri un economista che accetta un lavoro meno qualificato e con uno stipendio più basso. Poi ne parliamo.

    Cordialità

    • La redazione

      E’ vero: il “modello mediterraneo” produce un firing cost più elevato per le imprese in conseguenza di un mercato del lavoro più ostile e “pericoloso” per il lavoratore: non solo perché più vischioso, ma anche per difetto di servizi e di assistenza adeguata al lavoratore in cerca di una nuova occupazione. La minore asprezza del conflitto politico sindacale in Germania, rispetto al caso italiano, può spiegarsi in parte col fatto che, per quel che riguarda il funzionamento del mercato del lavoro, questo Paese si colloca sostanzialmente in una posizione intermedia tra il “modello mediterraneo” e quello nord-europeo. Sta di fatto che il dibattito su questi temi in Germania appare meno ideologizzato rispetto al nostro; e il Partito socialdemocratico tedesco affronta questa materia con un impegno pragmatico che in questo momento, su questi temi, sembra mancare all’opposizione di centro-sinistra italiana.
      p.i.

  2. Marco Marino

    E’ vero, vi sono alcune analogie nelle riforme del mercato del lavoro varate, o allo studio in alcuni paesi dell’Unione europea.
    Tuttavia,a mio parere, il processo di riforma condotto in Germania nell’ultimo triennio si caratterizza per alune specificità frutto della cultura e della tradizione del riformismo tedesco.
    Le riforme Harz sono un mix di flessibilità e sostegno per coloro che sono espulsi dal mercato del lavoro. Da un lato ,come citato nell’intervento, l’allargamento delle tipologie contrattuali che rende più flessibile il mercato del lavoro, dall’altro sostegni individualizzati per ogni disoccupato (è previsto 1 funzionario negli uffici del lavoro per ogni 75 disoccupati che dovra consigliare e collocare il disoccupato) e incentivi triennali a coloro che vogliano costiuire imprese individuali o familiari.

    Ma ciò che è interessante è che nel corso dell’lungo iter che ha portato alle riforme, anche nei momenti più critici, non si è mai spezzato il dialogo con le parti sociali che per ragioni opposte contestavano il provvedimento, nè con l’opposizione cristian-democratica e cristiano-sociale che essendo maggioranza alla Camera delle Regioni (Bundesrat) ha avuto un ruolo attivo nell’elaborazione delle riforme.

    Le riforme varate , sicuramente non perfette, sono frutto di quel metodo “compromissorio” che caratterizza il modello tedesco e che se da un lato riduce la potrata degli obiettivi fissati, dall’altro garantisce un alto grado di coesione politica e sociale che in fine aiuta nell’attuazione delle riforma.
    Per questo,credo che il 2005, che si apre con una previsione di crescita dell’1,8% sarà l’anno decisivo per valutare l’impatto delle riforme adottate della coalizione di governo che nelle politiche del lavoro si iscrive a quella tradizione riformista tipica del modello renano.

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