Per valutare le proposte di revisione del Patto di Stabilità e Crescita, è necessario comprender la ratio storica del Patto stesso: essenzialmente, esso fu concepito come uno strumento per eliminare le mele marce, cioè paesi con politiche economiche fuori controllo. I vincoli imposti sono certo arbitrari, e le regole hanno costi. Ma anche un innegabile vantaggio: offrono a cittadini, sindacati e aziende uno scenario stabile e prevedibile. Le proposte attualmente in discussione hanno una loro motivazione, ma in pratica aumenteranno l’ incertezza del quadro di politica economica e il contenzioso fra paesi. E allentare una regola ogni volta che qualcuno si lamenta aprirà la strada a nuove richieste di allentamento alla prossima difficoltà.

Per valutare le recenti proposte di revisione del Patto di Stabilità e Crescita, è importante comprendere la ratio storica di quest’ ultimo. Essenzialmente, il Patto è uno strumento per eliminare le mele marce. Il governo tedesco si lasciò convincere con riluttanza a rinunciare alla stabilità monetaria assicurata dal marco, e a fare un salto nel buio con la moneta unica. Ma impose come condizione di non dover negoziare il governo della moneta comune con paesi caratterizzati da politiche economiche fallimentari. Da allora, gli economisti europei hanno continuato a discettare se, a livello teorico, sia o meno rilevante condividere il governo della moneta con un paese virtuoso o con un paese che non controlla la propria politica economica. Solo gli economisti possono farlo: come si può dubitare che faccia differenza dover negoziare le scelte di politica monetaria con la Svizzera o con il Venezuela?

 

Lo scopo del Patto

 

Il problema, ovviamente, è come si definisce una politica economica fallimentare. Nessuno lo sa, ma è plausibile pensare che un alto deficit e un alto debito siano due fra gli indici più affidabili che la politica economica è sfuggita di mano. Lo scopo del Patto era esattamente di evitare di dover condividere la moneta unica con paesi con un deficit di bilancio dell’ordine del 10 per cento del Pil per parecchi anni di seguito, come Italia, Portogallo e Grecia negli anni Ottanta, non di evitare un deficit del 3,3 per cento per un anno in due paesi dell’Unione.

Da questo punto di vista, la regola prescelta (un rapporto massimo deficit/Pil del 3 per cento, debito/Pil del 60 per cento), benché totalmente arbitraria, era perfettamente ragionevole, come ragionevole sarebbe stato il 2,5 per cento o il 3,5 per cento. Ma una volta introdotta una regola, i numeri non sono più tutti uguali.

 

Un dibattito senza vincitori: regole contro discrezione

 

Per comprenderlo, è fondamentale comprendere che il dibattito di questi giorni sulla riforma dello Patto non è altro che una riedizione dell’eterno dibattito su regole contro discrezione in politica economica (incidentalmente, il Nobel per l’economia del 2004 è stato attribuito ai due economisti che più di altri hanno contribuito a formalizzare questo dibattito). Fra economisti e policymakers vi è un crescente consenso che l’incapacità di battere l’inflazione negli anni Settanta e Ottanta fu dovuta in parte all’esercizio discrezionale della politica monetaria da parte delle banche centrali. Meglio sarebbe stato, sostengono in molti, annunciare fin da subito che la banca centrale si occupa solo della stabilità dei prezzi, e perseguire questo obiettivo senza occuparsi di nient’altro, rinunciando all’esercizio di politiche discrezionali. Sindacati e aziende si sarebbero convinti presto che non vi era spazio per un accomodamento degli aumenti salariali e dei prezzi attraverso una politica monetaria allegra, e l’inflazione sarebbe stata battuta senza eccessivi costi in termini di disoccupazione.

Questo ragionamento è alla base del pressoché universale movimento verso una politica monetaria basata su regole, in particolare sull’annuncio di un obiettivo di inflazione da perseguire indipendentemente da ogni circostanza esterna.

Le regole hanno un vantaggio: offrono a cittadini, sindacati e aziende uno scenario stabile e prevedibile di politica economica. Ma hanno anche un costo: la risposta ottimale a certi shock può essere diversa da quella prescritta dalla regola.

Non c’è soluzione a questo dilemma: ogni società decide quale è il giusto margine fra i costi e i benefici delle regole e della discrezione. Qualunque corno del dilemma si scelga, è certo che, se ogni volta che qualcuno si lamenta la regola viene allentata, la regola stessa non esiste più.

 

Le proposte in discussione

 

Con questa premessa, torniamo al dibattito recente sulla riforma del Patto, e consideriamo alcune delle proposte di riforma più popolari sul tavolo di discussione, senza la pretesa di essere esauriente.

 

 

1. Consentire un deficit più alto ai paesi che intraprendono “riforme strutturali”.

 

La ratio di questa proposta è che le riforme strutturali riducono il deficit nel lungo periodo ma possono aumentarlo nel breve. Il primo esempio tipico è la riforma del mercato del lavoro, che può richiedere inizialmente un aumento della spesa per ammortizzatori sociali. Il secondo esempio è la riforma delle pensioni: nei casi italiano e tedesco, effetti immediati minimi, ma risparmi previsti sostanziali fra quattro o cinque anni. Il caso della riforma del mercato del lavoro assume come un dato intoccabile la struttura della spesa attuale: ma niente impedisce a un paese di spostare risorse dalla spesa per pensioni di anzianità alla spesa per gli ammortizzatori fiscali, se lo ritiene opportuno. Inoltre, insieme ai costi della riforma vi sono anche alcuni benefici per il bilancio pubblico: per esempio, è possibile immaginare che i profitti (e quindi il gettito fiscale) delle imprese aumentino temporaneamente quando il mercato del lavoro è liberalizzato, o che siano necessari meno sussidi alle imprese. Purtroppo, chi cerca di quantificare i costi e i benefici della riforma per il bilancio pubblico è costretto a sparare nel buio, ed ecco aprirsi lo spettro di un contenzioso infinito. Infine, quanto dura lo sconto? Un paese avrà sempre incentivo a sostenere che un deficit in eccesso del 3 per cento del Pil è dovuto alla riforma del mercato del lavoro di tre anni fa, e chi può dimostrare il contrario?Analogamente, uno sconto per una riforma delle pensioni con effetti differiti, pur se ragionevole in apparenza, andrebbe incontro ad almeno tre gravi problemi pratici.

Primo, il governo attuale non può vincolare le azioni dei Governi futuri, e nemmeno le proprie azioni future. Un sistema siffatto crea un incentivo perverso a evitare qualsiasi scelta dolorosa, annunciando però che non c’è motivo di preoccupazione, perché tra quattro anni il governo allora in carica farà un vero aggiustamento di bilancio. Ovviamente, non c’è motivo per cui il governo in carica tra quattro anni non debba tentare lo stesso gioco. E nessuna Commissione sarà politicamente in grado di punirlo per non aver mantenuto le promesse di un altro governo.
Secondo, vi è un ovvio incentivo perverso a sovrastimare gli effetti positivi delle misure future. Per definizione, il futuro è incerto: perché non approfittarne per fare previsioni smodate sui futuri risparmi di spesa? La Commissione può criticare queste previsioni, ma così facendo si apre un contenzioso infinito tra due burocrazie: le mie previsioni sono migliori delle tue, e chi risolverà la questione?
Terzo, nessuna riforma può riguardare l’intero bilancio. Supponiamo che il governo attuale prometta grandi risparmi futuri dal 2020, quando l’età di pensionamento aumenterà drasticamente. Supponiamo anche che questo annuncio venga effettivamente attuato nel 2020. Ma chi può impedire ai vari Governi tra adesso e il 2020 di compensare le categorie danneggiate, per esempio diminuendo i contributi, o facilitando l’accesso alle pensioni di invalidità come sostituti per le pensioni di anzianità? Il governo attuale ottiene uno sconto per l’annuncio iniziale, ma come e dove contabilizzare gli aumenti di spesa futuri collegati a questa riforma?

 

2. Una seconda proposta è di consentire più vie di scampo, oltre a quelle già previste dal Patto.

 

Per esempio, allungare il percorso di rientro dal deficit nel caso di una grave recessione o accordarsi su un percorso di rientro personalizzato. Tutte queste proposte hanno una loro ovvia motivazione, ma ancora una volta non ci sono vie di uscita dal dilemma regole contro discrezione. Se si privilegia le seconde, si riduce il ruolo delle prime, con tutto ciò che ne consegue: diatribe a non finire – la mia recessione è più inattesa della tua, io ho diritto a un deficit del 4 per cento e tu no. Il problema ovviamente è se valga la pena sopportare questi costi per assicurarsi i benefici di una maggiore discrezionalità. La risposta qui è ovviamente soggettiva: personalmente, ritengo che sia negativa, per due motivi. Primo, se c’è una cosa di cui l’Unione monetaria non ha bisogno è più incertezza e più litigiosità su ogni minima misura di politica economica.
Secondo, e ancora più importante, è un mito senza fondamento empirico che il sistema attuale sia inadeguato a rispondere alle recessioni, soprattutto le mini-recessioni che abbiamo visto finora (si veda Galí e Perotti [2003]). Il Patto non dice che un paese in recessione non può aumentare il deficit se vuole farlo: basta lasciarsi abbastanza spazi di manovra, per esempio diminuendo il deficit in tempi di crescita alta.

Se il passato è una guida per il futuro, ogni allentamento dei vincoli verrà usato per portarsi al limite dei nuovi vincoli, col risultato che alla prima recessione se ne chiederà un ulteriore allentamento. 

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