Tra breve saranno pubblicati i risultati di Pisa 2003, lo studio comparativo internazionale sul rendimento scolastico dei quindicenni. Probabile che si riproponga uno scenario già visto: mentre nel mondo accenderà discussioni, analisi e interventi per migliorare i sistemi scolastici, in Italia l’indagine sarà accolta con fastidio e scarsamente pubblicizzata. Per una antica e generale sottovalutazione della ricerca educativa, ma anche perché evidenzia che la scuola italiana post-riforma va controcorrente rispetto a quanto avviene negli altri paesi economicamente avanzati.

In dicembre verranno resi noti, a livello internazionale, i risultati di Pisa 2003.
Il Programme for International Student Assessement è il più vasto studio comparativo internazionale sul rendimento scolastico degli studenti mai realizzato fino ad ora. Promosso dall’Ocse e affidato per la gestione a un consorzio internazionale di istituti di ricerca, coinvolge quasi tutti i paesi dell’organizzazione e molti altri che non ne fanno parte. È organizzato in cicli triennali e si propone di rilevare le competenze degli studenti quindicenni in comprensione della lettura, matematica e scienze. In ciascuna delle rilevazioni (la prima è stata realizzata nel 2000), l’attenzione è focalizzata su uno di questi ambiti, con una parte di domande, numericamente meno rilevante, anche sugli altri due.
La rilevazione del 2003 ha posto al centro le competenze in matematica.

Un silenzio tutto italiano

Al di là dei rilievi e delle osservazioni critiche di cui può essere oggetto, è comunque indubbio che, per ampiezza e caratteristiche, Pisa rappresenta una fonte notevolissima di dati sui sistemi scolastici. E offre l’opportunità di un confronto di grande utilità per capire meglio quali caratteristiche di ciascun sistema scolastico siano alla base di risultati migliori o peggiori in tre aree fondamentali della formazione scolastica.
Non a caso, a partire dalla pubblicazione dei risultati di Pisa 2000, in molti paesi si è sviluppata una discussione ampia e spesso aspra sulla loro interpretazione, sulle cause dei livelli di rendimento degli studenti considerati insoddisfacenti, sulle decisioni da adottare per migliorare i sistemi scolastici. L’attesa per i risultati di Pisa 2003 è già alta: ne sono prova il numero degli articoli apparsi sulla stampa specializzata (ma non solo), i dibattiti pubblici, le iniziative adottate in preparazione della presentazione dei risultati.
In Italia, niente di tutto questo. Non è stato mai pubblicato alcun rapporto sui risultati di Pisa 2000, niente si sa di che cosa si intenda fare per la presentazione dei risultati di Pisa 2003. Molto probabilmente, a parte qualche articolo sulla stampa a ridosso della presentazione dei risultati internazionali, anche questa volta tutto verrà messo in sordina.
Le cause di questo atteggiamento sono molteplici.

L’insofferenza del ministero

Ci sono cause di carattere politico, legate alle scelte dell’attuale Governo e dell’attuale ministro dell’Istruzione.
Pisa si rivolge agli studenti quindicenni, la fascia di età che nella maggioranza dei paesi corrisponde alla fine della scuola dell’obbligo (sarebbe meglio dire della scuola comprensiva, prima della diversificazione degli indirizzi di studio). Nel nostro paese è stata fatta la scelta di abbassare l’età in cui i percorsi di studio si diversificano tra istruzione e formazione. Se a questo si aggiunge l’anticipo dell’ingresso nella scuola primaria, i nostri studenti si troveranno a scegliere tra istruzione e formazione professionale intorno ai tredici anni-tredici anni e mezzo. Si capisce come Pisa metta in luce, da questo punto di vista, una relativa anomalia delle nostre politiche educative, decisamente controcorrente rispetto a quanto avviene negli altri paesi cosiddetti economicamente avanzati.
In secondo luogo, Pisa ha l’ambizione di rilevare le competenze necessarie ai giovani per affrontare attivamente e con successo la propria vita di adulti e di cittadini. Non parte quindi dai curricoli specifici delle materie così come sono insegnate nei diversi paesi, ma dalla individuazione di alcune fondamentali competenze di base, che tutti i cittadini dovrebbero possedere (di qui il concetto di “literacy”, centrale in Pisa). 
Nella legge di riforma della scuola (Legge 53/2003) si dice esplicitamente che la valutazione esterna può rilevare soltanto conoscenze e abilità, ma non competenze (il cui accertamento è demandato ai soli insegnanti). Si può discutere su quanto le prove Pisa misurino effettivamente le competenze, ma questo rappresenta sicuramente un secondo elemento di “insofferenza” verso l’indagine da parte del nostro ministero. Un’insofferenza che si traduce nella scelta di partecipare comunque a Pisa (come giustificare una eventuale non partecipazione?), ma di limitare al massimo la sua pubblicizzazione.
Più in generale, la politica educativa di questo Governo è stata fin dall’inizio improntata da connotazioni fortemente “ideologiche”, che mal si coniugano con una cultura della ricerca e della sperimentazione. Non è un caso che i risultati di un’altra indagine comparativa sulla comprensione della lettura degli studenti di nove anni (realizzata dall’Iea – International Association for the Evaluation of Educational Achievement) siano stati fatti passare accuratamente sotto silenzio: come spiegare, infatti, a pochi mesi dalla riforma, che la nostra scuola elementare, secondo il Governo da riformare completamente perché inefficace, aveva consentito di raggiungere risultati di eccellenza a livello internazionale?

Leggi anche:  Più rigore sulle università telematiche

Ci sono, però, anche ragioni che hanno origini più antiche. Per decenni, le nostre politiche educative hanno guardato con sostanziale distacco e sistematica non considerazione i risultati della ricerca educativa. Ad eccezione di alcune brevi parentesi, le ricerche comparative internazionali sono state sempre sottovalutate, se non considerate con fastidio, perché a una lettura spesso poco attenta e limitata alla superficie, avrebbero dimostrato la debolezza del nostro sistema scolastico.
E a questo si aggiungono la mancanza di una cultura dell’accountability in ambito politico, la debolezza della ricerca e della cultura scientifica nel suo complesso, e di quella educativa in particolare.

Un’occasione per capire

Il risultato di questo scarto è duplice: occasioni perdute per riflettere sul nostro sistema scolastico e considerevole spreco di risorse.
Il paradosso è che spendiamo cifre più che rilevanti per raccogliere masse di dati che non vengono utilizzati. Non solo non vengono considerati dai nostri decisori politici, ma di questi dati si fa normalmente un’elaborazione limitatissima. Invece, potremmo trarne utili informazioni sull’insieme delle caratteristiche del nostro sistema educativo, oltreché sul rendimento degli studenti in specifiche aree disciplinari. È quanto avviene in tutti gli altri paesi. Ed è proprio per questo che l’Ocse mette a disposizione i dati delle rilevazioni Pisa immediatamente dopo la pubblicazione del rapporto internazionale: per consentirne l’uso e per favorire lo sviluppo di analisi specifiche più approfondite.
Va riconosciuto che, da questo punto di vista, oltre alla mancanza di interesse da parte dei responsabili politici, si sconta una sostanziale debolezza delle strutture di ricerca educativa nel nostro paese. Per mancanza di competenze in alcuni casi (e su questo l’attuale ministero ha responsabilità precise), per mancanza di fondi in altri.

Sarebbe quindi auspicabile che la prossima pubblicazione dei risultati di Pisa 2003 costituisse l’occasione per iniziare a invertire questa tendenza. Il nostro ministero dovrebbe finalmente capirne l’importanza, al di là di calcoli politici di corto respiro, e su questi risultati dovrebbe aprirsi un dibattito pubblico. Perché questo avvenga è necessario pubblicizzarli, renderli disponibili, pubblicarli. Di più, sarebbe il caso di rendere accessibili i dati stessi (non soltanto le loro elaborazioni) e gli elementi che ne permettono l’analisi a livello di aree geografiche, di indirizzi scolastici, di tutte le altre variabili utili a interpretarli.
Si tratta di una ricchezza che non può essere considerata patrimonio del solo ministero o dei soli ricercatori che hanno condotto l’indagine.

Leggi anche:  Lauree Stem: niente di nuovo sul fronte femminile

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Quanto contano le abilità non cognitive *