Vincenzo Visco commenta la lettura del DPEF fornita da Riccardo Faini e Francesco Giavazzi per quanto riguarda gli aiuti al Sud. È giusto l’impegno ad aprire le ostilità con Bruxelles sulla differenziazione regionale delle aliquote sui profitti?  

CORAGGIO PROF. SINISCALCO!

Ci sono novità significative nel Dpef, molte affermazioni coraggiose, alcuni impegni importanti, ma si poteva fare di più e alcuni passaggi suscitano perplessità. Soprattutto rimangono molte questioni aperte.
Sui conti pubblici il Dpef e il nuovo ministro dell’Economia inaugurano una stagione di trasparenza che potrà giovare al dibattito di politica economica. Manca in particolare un’indicazione sul timing degli sgravi fiscali che l’esecutivo intende attuare. In assenza di queste informazioni è difficile valutare la congruità del quadro macroeconomico programmatico. Perchè la "manovrina" del luglio 2004–7,5 miliardi di risparmi pari allo 0,6 per cento del pil–dovrebbe avere un effetto recessivo sull’economia, mentre l’aggiustamento ben più forte degli anni successivi dovrebbe accelerarne la crescita? E’ perché si pensa che la riforma fiscale avrà effetti espansivi sulla domanda interna? Potremmo essere d’accordo, ma allora vorremmo saperne di più. Oppure è per via degli interventi di liberalizzazione previsti? Anche questo è possibile; ma l’ipotesi sull’evoluzione della domanda finale interna–una crescita media del 2,5 per cento l’anno tra il 2006 e il 2008–è troppo importante per essere sottaciuta.
E’ evidente che per la finanza pubblica si prospettano tempi assai difficili. Anche tralasciando eventuali sgravi fiscali, l’aggiustamento richiesto per il 2005 (ottenuto confrontando l’indebitamento tendenziale con quello programmatico) è pari all’1,7 per cento del pil (24 miliardi di euro e questo assumendo che l’ANAS venga scorporata dai conti delle amministrazioni pubbliche). Nel 2006, l‘esigenza di sostituire le "una tantum" che si esauriranno con misure strutturali (0,5 per cento del pil) e l’ulteriore aggiustamento richiesto (a quel punto lo scarto fra tendenziale e programmatico sarà salito al 2,1 per cento del pil) richiederanno la manovra pari all’1 per cento del pil, in aggiunta a quella dell’anno precedente. Arriviamo così a una manovra di poco meno di 40 miliardi su due anni. Se teniamo conto anche dell’esigenza di finanziare eventuali sgravi fiscali (altri 13 miliardi ), e degli effetti del rinnovo dei contratti dei pubblici dipendenti (di difficile quantificazione ma che rischia di gravare non poco sui conti pubblici) superiamo i 50 miliardi. . E’ per questo che l’ipotesi sugli effetti "keynesiani" o "non-keynesiani" dell’aggiustamento fiscale è tanto importante e dovrebbe essere discussa apertamente.
Ma rimaniamo ai 50 miliardi totali delle prossime due Finanziarie: in che modo si potrà realizzarli? Significativi tagli di spesa sono difficili da individuare nel momento in cui si afferma che "scuola, sanità, sicurezza e servizi sociali non avranno a risentire della politica economica del Governo" e "particolare attenzione verrà prestata a potere di acquisti": quest’ultima affermazione (p. 27 del Dpef) lascia presagire un atteggiamento non proprio rigoroso in occasione dei prossimi rinnovi dei contratti del settore pubblico. Dobbiamo quindi attenderci interventi sulle accise? Oppure si prevede che una più efficiente gestione del patrimonio pubblico—le concessioni ad esempio—dia frutti importanti? Anche ciò è possibile, ma vorremmo sapere in che misura si prevede che ciascuna voce contribuirà.
"Un euro in meno di aiuti alle imprese per un euro in meno di Irap" aveva chiesto il presidente di Confindustria: il Dpef è molto meno ambizioso I tagli ai trasferimenti alle imprese vengono sostituiti da finanziamenti agevolati—tagli "finti" quindi in quanto i prestiti agevolati, pur non essendo conteggiati nel disavanzo di competenza, continuano ad alimentare il debito, con il risultato o di farlo crescere oppure, più probabilmente, di lasciare meno spazio per una riduzione dell’Irap.
In materia fiscale coraggioso è invece l’impegno (p. 30) ad aprire le ostilità con Bruxelles sulla differenziazione regionale delle aliquote sui profitti. La Commissione e la Corte di Giustizia fanno risalire il divieto alla differenziazione regionale delle aliquote a un’interpretazione dell’articolo 92.1 del trattato. Esso tuttavia esclude "aiuti di Stato che distorcano la concorrenza", non la differenziazione regionale delle aliquote. Per la teoria occorre dimostrare che una regione è specializzata nella produzione di pochi beni, che essi sono prodotti da imprese con un elevato potere di mercato, e che perciò una modifica delle aliquote altera la concorrenza internazionale: non pare esser questo il caso del Mezzogiorno. Nessuno ci ha ancora spiegato perché l’Irlanda può decidere autonomamente le proprie aliquote (purché il bilancio pubblico complessivo non violi i limiti del patto di stabilità) e la Scozia no. La motivazione formale (l’Irlanda è una nazione indipendente, la Scozia no) è debole. Come debbono interpretarla i cittadini del nostro Sud, oppure i baschi, che hanno simili problemi con Bruxelles? Come un invito alla secessione?
Vi saranno nuove misure "una tantum"? Dalla Tabella III.4 si comprende che le nuove "una tantum" saranno pari a 0,8 per cento del pil nel 2004 e 0,5 per cento nel 2005. Poiché più avanti si legge che i provvedimenti adottati dal governo con il decreto di luglio 2004 saranno resi strutturali, ciò significa che dobbiamo attenderci ancora una dose cospicua di una tantum. Non vogliamo neppure pensare che queste "una tantum" includano altri condoni, tanto più che ripetutamente il Dpef pone come obiettivo "il contrasto dell’evasione fiscale" . È quindi essenziale che il ministro dell’Economia chiarisca quali "una tantum" intende utilizzare nel 2004 e nel 2005. Se, come pare, una quota importante deriverà da nuove dismissioni immobiliari, vorremmo essere rassicurati che i costi dell’eventuale ri-affitto da parte delle amministrazioni pubbliche di immobili dimessi sia stato conteggiato nelle spese degli anni successivi.
L’impegno sulle dismissioni è coraggioso, ma vorremmo sapere in che misura la cifra indicata (120 miliardi fra il 2004 e il 2008, una cifra enorme) si distribuirà tra dismissioni immobiliari e cessioni di aziende. La differenza è importante—oltre quanto abbiamo scritto sopra sugli effetti della vendita di immobili pubblici sui bilanci futuri–perché solo quanto ricavato dalle cessioni di aziende va in riduzione del debito pubblico. Per rendere vincolante questo impegno straordinario (per raggiungerlo, è bene ricordarlo, sarà necessario cedere completamente – al mercato e non alla Cassa Depositi e Prestiti – Enel, Eni, Finmeccanica e ancora saremmo solo a metà strada) è opportuno, come fece a suo tempo il governo Ciampi, tradurlo in un "Calendario delle privatizzazioni" da presentare in Parlamento con nomi delle aziende le cui azioni verranno cedute, modalità di cessione e tempi delle operazioni. Altrimenti come si fa a credere che una maggioranza che in tre anni non venduto altro che una piccola azienda di tabacchi, improvvisamente smobilizzi tutte le partecipazioni dello Stato?
"Una politica di soli tagli senza un disegno di sviluppo provocherebbe un violento rallentamento della crescita, vanificando il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica. […] Liberalizzazioni, privatizzazioni di servizi e la riforma delle professioni" sono quindi parte integrante degli interventi per stabilizzare la finanza pubblica. Questa affermazione e gli impegni che essa sottende potrebbero essere la parte più innovativa del Dpef e della politica economica del nuovo ministro dell’Economia. E invece, all’atto pratico lasciano molto delusi. "Riforme in questo senso verranno proposte al Parlamento in tempi rapidi", si limita a dire il Dpef: come tante volte nel passato, è "wishful thinking". Se davvero le liberalizzazioni sono parte integrante della prossima legge Finanziaria, esse devono essere rese certe inserendole nel disegno di legge collegato alla stessa Finanziaria. Come si può pensare che una maggioranza che sinora ha protetto tutte le professioni e le corporazioni di questo paese, che si è strenuamente opposta alla privatizzazione delle ex-aziende municipali di servizi, improvvisamente smantelli gli albi professionali o privatizzi le aziende di servizi locali? C’e’ un solo modo per obbligarla a farlo: condizionare a queste liberalizzazioni l’approvazione della Finanziaria. Il ministro dell’Economia lo sa bene: coraggio, professor Siniscalco!

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IL COMMENTO DI VINCENZO VISCO

Si sostiene la necessità di introdurre una "fiscalità di vantaggio" per il Sud. Proprio quello che aveva fatto il governo di centrosinistra con diversi strumenti coordinati fra loro e compatibili con la normativa europea. Il sistema riusciva a fornire anche un incentivo"di funzionamento", purché esso derivasse da un nuovo investimento che avesse effettivamente aumentato la capacità produttiva del paese. Mentre una riduzione delle aliquote di imposta al Sud non sembra essere una soluzione efficace.

LA FISCALITA’ DEL MEZZOGIORNO
di Vincenzo Visco

Negli ultimi mesi esponenti della maggioranza e del governo hanno sostenuto la necessità di introdurre a favore del Mezzogiorno una "fiscalità di vantaggio". Anche il Dpef ne fa cenno, e Riccardo Faini e Francesco Giavazzi la richiamano nel loro recente scritto su lavoce.info.

LA FISCALITA’ DI VANTAGGIO 

La cosa è sorprendente e interessante al tempo stesso, dal momento che il precedente governo aveva introdotto con diversi strumenti coordinati tra loro e tutti compatibili (in via di principio, o di fatto) con la normativa europea, una robusta e solida fiscalità di vantaggio che viceversa l’attuale governo si è affrettato a cancellare.
Lo strumento principale era il credito di imposta automatico per i nuovi investimenti effettuati nelle zone degli obiettivi 1 e 2, concesso a fronte di tutte le imposte e contributi pagati.
L’ammontare del credito variava a seconda dell’intensità dell’aiuto prevista per un dato territorio. La misura, concordata in sede europea, era rigorosamente coperta (e senza fatica eccessiva, dal momento che il costo per il bilancio era rappresentato dal credito di imposta applicato agli investimenti che si sarebbero comunque fatti anche in assenza del credito stesso) ed ebbe un certo successo iniziale; per esempio portò alla decisione della ST di raddoppiare lo stabilimento di Catania, invece di quello di Singapore. Attualmente i dirigenti della società sono fortemente pentiti della scelta fatta allora in quanto, in seguito al ridimensionamento/cancellazione del credito di imposta operato dal governo, con effetto retroattivo, l’investimento risulta ora in perdita.
Ma il credito di imposta non era l’unico vantaggio fiscale previsto; infatti, grazie al meccanismo incrementale della Dit, pressoché tutto il reddito derivante dai nuovi investimenti (esenti in virtù del credito) avrebbe pagato di fatto solo il 19 per cento. L’effetto Dit risultava quindi maggiore che nel resto del paese.
Infine, era stata prevista la possibilità per le Regioni di ridurre (o di aumentare) fino a un punto percentuale l’aliquota dell’Irap con l’intesa che nell’esercizio dell’autonomia tributaria locale le Regioni meridionali avrebbero potuto utilizzare questa facoltà per ridurre la tassazione sulle imprese.
Il vantaggio del meccanismo descritto per un investimento di 100 esente in virtù del credito di imposta è notevole: per un investimento che fornisce flussi di reddito per 10 anni, con ammortamenti della stessa durata, un tasso di rendimento del 10 per cento e un tasso di sconto del 5 per cento, il valore attuale del flusso di reddito netto dell’investimento agevolato supera quello dell’investimento non agevolato di poco meno del 65 per cento.

E GLI INCENTIVI DI FUNZIONAMENTO

Il sistema peraltro riusciva a fornire anche un incentivo "di funzionamento" (vietato normalmente – e giustamente – dalla Comunità), purché esso derivasse da un nuovo investimento che avesse effettivamente aumentato la capacità produttiva del paese.
Questo è un punto importante di possibile dissenso con l’approccio di Faini-Giavazzi che, per quanto capisco, attraverso il riferimento all’Irlanda sembrano ritenere che la soluzione del problema dovrebbe essere quella di ridurre le aliquote di imposta al Sud rispetto al Nord.
In verità, l’abbondante letteratura teorica ed empirica sugli incentivi fiscali concorda nel ritenere efficaci e utili gli incentivi solo se concessi al margine. Ed è questo il motivo per cui in sede comunitaria gli incentivi di funzionamento non sono ammessi. Essi infatti si traducono inevitabilmente o in un finanziamento delle inefficienze di gestione, o di aumenti salariali superiori alla produttività, o provocano complessi arbitraggi fiscali, per cui il beneficio viene trasferito altrove. Del resto, in Italia per molto tempo abbiamo avuto proprio questo tipo di incentivazione: esenzione dall’Ilor, fiscalizzazione degli oneri sociali, con risultati che possono essere eufemisticamente definiti deludenti.
In realtà, a ben vedere la scelta è tra il trasferimento di risorse a favore di chi già comunque opera nel Mezzogiorno, o di chi vuole dare oggi un contributo allo sviluppo del territorio. È evidente che la seconda scelta è meno costosa e più efficace.
Quanto all’Irlanda, in quel caso siamo di fronte a un paese che ha basato il suo sviluppo su fondi strutturali europei e sui fondi di coesione, e che al tempo stesso ha praticato e pratica una forte concorrenza fiscale sleale (dannosa) nei confronti degli altri paesi europei senza eccessivi costi per il proprio bilancio dal momento che la gran parte delle imprese irlandesi sono straniere e di nuova costituzione. Il problema "irlandese" quindi andrebbe affrontato per quello che è. Un problema di mancata armonizzazione sia pure a livelli minimi che è uno dei principali problemi aperti nell’Unione del diritto di veto.

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