Con la ripresa dovrebbe migliorare la situazione dei conti pubblici in Europa: rischia di essere un ragionamento troppo ottimista. La riduzione dei tassi di interesse conseguente al rallentamento del ciclo può avere un effetto particolarmente favorevole per i paesi altamente indebitati, come il nostro. Paradossalmente, è del tutto possibile che l’Italia non tragga grande beneficio dalla modesta ripresa, ma ne soffra le conseguenze in termini di più alti tassi di interesse europei. Il nuovo Dpef dovrebbe tener conto di questi fattori.

Uno dei pochi punti di consenso tra gli economisti è che il rallentamento economico abbia svolto un ruolo di tutto rilievo nel deterioramento dei conti pubblici dei paesi europei. La più bassa crescita comporta infatti un calo delle entrate e nella maggior parte dei casi (l’Italia, dato lo scarso rilievo degli ammortizzatori sociali, è però un’eccezione al riguardo) anche un aumento delle spese, con effetti negativi sulle finanze pubbliche. La speranza è che la tanto sospirata ripresa economica riesca a riportare un po’ di luce anche sui disastrati conti pubblici italiani tenendoli lontani dalla soglia di Maastricht.

OTTIMISMO FUORI LUOGO

Ma sarà proprio così? Purtroppo l’ottimismo, anche in questo caso, rischia di essere fuori luogo. Vediamo perché. Proprio per tenere conto degli effetti del ciclo economico sui conti pubblici, la Commissione europea calcola regolarmente un saldo di bilancio corretto per gli andamenti del ciclo economico e lo utilizza sistematicamente per formulare le proprie raccomandazioni ai paesi membri in termini di politica fiscale.
Come viene effettuato il calcolo? Il primo passo è la stima del Pil potenziale, il livello del Pil che si avrebbe se l’economia funzionasse a pieno regime. La differenza fra Pil effettivo e Pil potenziale dà il cosiddetto output gap.
Il secondo passo è la stima dell’intensità (l’elasticità, nel gergo degli economisti) con cui entrate e spese primarie (al netto cioè degli interessi) reagiscono a variazioni del Pil. Si calcola infine il saldo di bilancio nell’ipotesi di un output gap pari a zero. Questa misura è nota come disavanzo strutturale, il disavanzo che si avrebbe se il Pil fosse pari al suo potenziale.
Nel calcolo, tuttavia, non si tiene conto, presumibilmente per le difficoltà tecniche che ciò comporterebbe, degli effetti del ciclo sulla spesa per interessi. Ma non si tratta di una voce di scarso rilievo, soprattutto per un paese altamente indebitato come l’Italia. In risposta a un aumento dello scarto fra output potenziale e effettivo, la Banca centrale interverrà infatti riducendo i tassi, con un effetto particolarmente favorevole per i paesi altamente indebitati o con un debito sbilanciato verso il breve termine. Se prendiamo per buone le stime disponibili della funzione di reazione della Banca centrale, vediamo che un deterioramento dell’output gap di un punto percentuale induce una riduzione dei tassi perlomeno di 50 punti base (mezzo punto percentuale). A regime, il miglioramento per il disavanzo pubblico di un paese con un rapporto debito/Pil pari al 100 per cento è quindi di circa mezzo punto percentuale: una minore crescita del Pil di un punto dà luogo a un diminuzione del tasso di interesse di mezzo punto che implica una minore spesa per interessi pari ancora a mezzo punto di Pil. Naturalmente l’effetto sulla spesa per interessi non è istantaneo: secondo le stime ufficiali del Tesoro una diminuzione di un punto del tasso di interesse ha un impatto sulla spesa per interessi pari allo 0,23 per cento del Pil dopo un anno, 0,41 per cento del Pil dopo due anni, 0,51 per cento del Pil dopo tre anni.
È indubbiamente vero che un peggioramento dell’output gap deprime le entrate e accresce il disavanzo (nel caso dell’Italia la stima è ancora di quasi mezzo punto di Pil per ogni punto di output gap), ma dopo tre anni metà del peggioramento è compensato dal calo della spesa per interessi e dopo circa cinque anni (questo è il tempo necessario perché una variazione dei tassi di interesse si trasferisca interamente sul costo del debito) la compensazione è completa.
In conclusione, il metodo di correzione per il ciclo utilizzato dalla Commissione europea e da altre istituzioni internazionali rischia di fornire un quadro eccessivamente ottimista (pessimista) per un paese altamente indebitato come l’Italia durante i periodi di rallentamento (ripresa) dell’economia.

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SE L’ITALIA NON AGGANCIA LA RIPRESA

Ma vi è un altro rischio. Supponiamo che l’Italia manchi, come sembra possibile, l’aggancio con la ripresa europea. Secondo le stime di primavera della Commissione europea la crescita nel 2004 sarà pari all’1,7 per cento per l’area euro ma solo all’1,2 per cento per l’Italia. Anche nel 2005 l’area euro dovrebbe crescere più rapidamente dell’Italia. Le migliorate condizioni economiche nell’area dell’euro, e un’ulteriore ‘stretta’ della Fed, potrebbero indurre la Banca centrale europea ad aumentare i tassi di interesse. Paradossalmente, è del tutto possibile che l’Italia non tragga grande beneficio dalla modesta ripresa a livello nazionale, ma soffra le conseguenze in termini di più alti tassi di interesse della ripresa a livello europeo.
Le stime sull’andamento dei conti pubblici dell’Italia rischiano quindi di peccare, nuovamente, di ottimismo. Rimane da sperare che il nuovo Dpef, che dovrebbe essere varato nei prossimi giorni, tenga conto di questi fattori e riesca a fornire un quadro un poco più realista della situazione della nostra finanza pubblica, anche a costo di dovere ammettere che non vi è spazio per gli sgravi fiscali.

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