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Un Senato federale, ma all’americana

Un Senato federale può essere utile per risolvere i problemi aperti dalla riforma del Titolo V. A due condizioni. Deve rappresentare i territori e costruire meccanismi decisionali efficienti. La proposta appena approvata in prima lettura non soddisfa nessuna delle due. La contestualità imperfetta non funziona, mentre sono forti i rischi di conflitti tra le Camere. E se dobbiamo scegliere un modello straniero, meglio guardare agli Stati Uniti che alla Germania.

Tra gli aspetti innovativi della legge di riforma costituzionale (vedi Bordignon), c’è anche la trasformazione del Senato in “Senato federale“, con compiti differenziati rispetto alla prima Camera, la “Camera politica”, e forme diverse di rappresentanza.
Lo scopo dichiarato è quello di rendere il sistema compatibile con le nuove attribuzioni di competenze tra i diversi livelli di governo introdotte con la riforma costituzionale del Titolo V nel 2001. Al nuovo Senato vengono in realtà attribuiti anche altri compiti. Ma non c’è dubbio che il cuore del progetto sta nel tentativo di rispondere alle esigenze generate dal decentramento del 2001.
La proposta risponde davvero a queste esigenze? E se no, come potrebbe essere modificata?

La Camera territoriale

Innanzitutto, abbiamo davvero bisogno di introdurre una Camera territoriale?
La letteratura suggerisce come l’effetto fondamentale del bicameralismo (rispetto anche a una singola Camera con rappresentanza mista) sia quello di focalizzare il dibattito politico e l’evoluzione legislativa sugli aspetti di rappresentanza degli interessi su cui le due Camere più differiscono.
Per capirsi, una seconda Camera composta solo da “anziani”, per esempio, focalizzerebbe il dibattito politico sugli aspetti relativi agli effetti redistributivi delle politiche pubbliche sulla popolazione per classi di età, una di rappresentanti di “categorie professionali” sugli aspetti relativi agli effetti relativi alle politiche sulle classi professionali, e così via.
Una seconda Camera che avesse una chiara connotazione territoriale focalizzerebbe dunque il dibattito politico sui cleavage territoriali, la contrapposizione degli interessi tra i cittadini come appartenenti a uno Stato nazionale e come appartenenti a determinati territori.
Sarebbe questo utile nel contesto italiano? Probabilmente sì, perché potrebbe aiutarci a risolvere i due problemi fondamentali lasciateci in eredità dal nuovo Titolo V: il problema del coordinamento verticale tra Stato e governi territoriali nella determinazione delle politiche, e il problema della risoluzione politica del conflitto distributivo tra territori, inevitabile dato il marcato dualismo economico del paese.
Perché questo avvenga, tuttavia, almeno due condizioni dovrebbero essere soddisfatte: le procedure legislative dovrebbero essere in grado di funzionare efficacemente e il Senato dovrebbe rappresentare effettivamente i territori. È questo il caso con la legge 2544?

Le competenze

Il modello del nuovo Parlamento ipotizzato dalla legge di riforma è basato su una rigida divisione di competenze tra le due Camere, costruita alla luce dell’altrettanto rigida attribuzione di competenze tra Stato e Regioni del Titolo V.
Alla Camera politica spetta il compito (esclusivo) di dare la fiducia all’esecutivo e di legiferare sulle competenze esclusive dello Stato, così come enucleate nel secondo comma dell’articolo 117. Al Senato, è assegnato il compito di legiferare sulle materie concorrenti tra Stato e Regioni, indicate nel terzo comma del medesimo articolo. A tutte e due assieme, di legiferare sulla perequazione territoriale e sul federalismo fiscale, cioè sull’articolo 119.
Ogni Camera, su richiesta di due quinti dei propri membri, può richiedere di esaminare una legge approvata dall’altra, ma solo a quest’ultima spetta la decisione finale sulle eventuali proposte di modifica avanzate.
Può funzionare un simile sistema?
La risposta è quasi certamente no. Il problema è che esiste una forte interdipendenza tra le decisioni che dovrebbe prendere la prima Camera e quella che dovrebbe prendere la seconda e viceversa, e non si capisce come le due potrebbero prendere decisioni diverse, potenzialmente contraddittorie, sulla stessa materia.
Prendiamo per esempio la Sanità. Sulla base della legge 2544, la Camera politica determina i servizi essenziali (articolo 117, comma m), il Senato federale determina i principi generali della tutela della salute, le Regioni determinano la legislazione di dettaglio (e hanno competenza esclusiva sull’organizzazione del sistema sanitario grazie alla devolution), e Camera e Senato determinano assieme le risorse. Chi garantisce che le prime due decisioni siano coerenti tra loro? Come si fa a determinare i principi generali di tutela della salute se gli standard relativi ai servizi li decide un’altra Camera, e viceversa? E cosa si deve finanziare con la perequazione, i principi generali o gli standard?
In altre parole, il rischio è che il nuovo modello, invece di mediare il conflitto tra Stato e Regioni, e tra le stesse Regioni, ne introduca altri, questa volta all’interno dello stesso Stato.

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La rappresentanza

La seconda domanda è se il Senato federale sia davvero “federale”, cioè se rappresenti effettivamente i territori. Nel modello proposto, questa rappresentanza dovrebbe essere garantita soprattutto dal principio della “contestualità imperfetta” tra elezioni del Senato e elezioni regionali, cioè dal fatto che i due turni elettorali dovrebbero avvenire assieme (contestualità), e che, se un consiglio regionale viene sciolto anzitempo e si tengono nuove elezioni, la durata del nuovo consiglio viene ridotta in modo da ricostruire la contemporaneità delle elezioni nel futuro (imperfetta). L’idea di fondo è che ci sia una sorte di effetto di “traboccamento” tra le due elezioni, cosicché il colore politico dei senatori eletti assomigli a quello dei governi delle Regioni di provenienza.
È sufficiente questo a garantire la rappresentanza territoriale del Senato?
È assai dubbio. Primo, perché anche a parità di sistema elettorale non c’è ragione per cui i cittadini, a meno che non siano costretti a farlo, debbano votare nello stesso modo per il Senato e per i governi regionali.
L’evidenza nazionale e internazionale è piena di esempi di divided vote, del resto totalmente giustificabile perché senatori e presidenti delle Regioni fanno un mestiere diverso e si devono occupare di cose diverse. Secondo, perché non c’è ragione per cui il sistema elettorale debba essere lo stesso per le Regioni e per il Senato. Il primo deve garantire la governabilità, il secondo no, visto che il Senato non vota la fiducia al Governo. Ma se il sistema elettorale è diverso, per esempio maggioritario il primo e proporzionale il secondo, non c’è ragione per cui i risultati debbano essere gli stessi. Terzo, perché la soluzione trovata umilia i consigli regionali e ne mette in dubbio l’efficacia decisionale (chi si candida per un consiglio regionale che resta in carica un anno?).

Il Bundesrat?

Il sistema individuato dalla legge 2544 dunque appare assai carente sia in termini di rappresentanza che di efficacia decisionale. Ci sono alternative valide?
Qui il discorso si fa più complesso. Molti commentatori di destra o di sinistra sembrano essere affezionati al modello del Bundesrat tedesco, il Senato delle Regioni, in cui i senatori sono semplicemente dei funzionari dei governi regionali che intervengono soltanto su un gruppo specifico di materie, nel nostro caso quelle delle competenze concorrenti.
Certamente, questo modello risolve il problema della rappresentanza (dei governi regionali, non necessariamente dei territori), ma è carente da molti altri punti di vista, come del resto dimostra chiaramente l’evidenza tedesca. Soprattutto, non risolve il problema della funzionalità del sistema. Il livello di integrazione delle funzioni svolte tra i diversi governi è tale da rendere difficile tracciare una linea precisa, tant’è che si calcola che il Bundesrat tedesco intervenga ormai su oltre l’80 per cento delle materie, con forti capacità di ricatto nei confronti della Camera politica su tutto il resto. Non pare saggio affidare a funzionari compiti di pertinenza dei politici.

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Uno Stato, un voto

Senza aver la pretesa di avere la soluzione in tasca, la discussione precedente suggerisce però alcune conclusioni.
Primo, il Senato federale si deve occupare di tutto o di quasi tutto. Visto che suddivisioni nette tra materie sono insostenibili è bene che si elimini il problema alla radice, non producendo contraddizioni dove queste non sono strettamente necessarie.
Secondo, poiché si deve occupare di tutto o quasi tutto, il Senato deve essere composto da politici eletti direttamente, non da funzionari indicati da altri governi. In democrazia, solo l’elezione diretta attribuisce la legittimità politica necessaria a occuparsi dei grandi temi della politica.
Terzo, esiste un problema irrisolto di rappresentanza dei territori. I paesi federali risolvono la difficoltà introducendo il principio federale classico: uno Stato, un voto.
Forse anche questa, magari in forma attenuata, è una possibile soluzione per l’Italia.

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  1. Paolo M.

    Pur condividendo le critiche al progetto di Senato (pseudo)federale del Centrodestra, sono in disaccordo sulla soluzione da lei proposta, basata sull’elezione diretta di un numero di senatori uguale per ogni regione a prescindere dalla popolazione (come per il Senato USA).
    Tale sistema infatti serve solo a garantire gli stati piccoli da quelli grandi (impedendo che passi una decisione nell’interesse esclusivo di pochi grandi stati) ma nulla può a garantire gli stati in generale dall’invadenza del potere federale nella loro autonomia il che, mutatis mutandis storicamente è il nostro maggiore problema. Ciò perchè senatori eletti a suffragio diretto continuerebbero ad appartenere a partiti organizzati su base nazionale e centralizzata, e ad esprimere una cultura politica basata sugli interessi del Paese, o tutt’al più o del collegio, e non dell’ente regionale di provenienza.
    Per lo stesso motivo (mancanza di rappresentanza dell’ente regionale) il modello USA da noi sarebbe inefficace ad assicurare il raccordo Stato-regioni nelle decisioni di una parte che hanno effetti anche sull’altra.
    Quindi si dovrebbe continuere ad avvalersi di organismi extraparlamentari come la conferenza Stato-regioni, dove però lo Stato può concedere tutto o nulla a propria discrezione; oppure le regioni dovrebbero ricorrere sistematicamente alla Corte Costituzionale, con danno sia della certezza nel diritto che del sistema autonomistico, messo alla mercè della bontà delle maggioranze del momento.
    Non tragga in inganno che in diversi stati federali, tipo USA e Svizzera, gli enti federati non hanno una vera rappresentanza come enti; in questi casi si tratta di paesi nati federali e nei quali il federalismo è profondamente radicato nella cultura sia di massa che delle classi dirigenti.
    Ma questo è precisamente ciò che noi non abbiamo, ragion per cui credo dobbiamo introdurre degli “anticorpi” federalisti direttamente in Costituzione.
    Io propenderei per il sistema tedesco del Bundesrat, magari allargato agli enti locali con la presenza dei presidenti dei consigli delle autonomie locali.
    Quanto al rischio di dover decidere tutto in modo bicamerale, magari con le due camere in mano a maggioranze diverse, credo che a questo si possa ovviare riducendo la sfera di materie di competenza concorrente.

    • La redazione

      Grazie del commento. La sua posizione è vicina a quella sostenuta da molti, soprattutto tra politologi e giuristi (per esempio, dallo stesso Vassallo sulle nostre pagine e in altri scritti). Da economista, il Senato delle Regioni mi convince poco per due ragioni. Primo, perché data l’interrelazione esistente tra le varie funzioni pubbliche, non credo che si possano imporre facilmente vincoli su quello di cui dovrebbe occuparsi il Senato, perlomeno non con il livello di decentramento introdotto dalla riforma del Titolo V (oltre il 50% della spesa corrente). L’immigrazione per esempio è materia esclusiva dello Stato ma ovviamente impatta sulla Sanità (una materia concorrente) e sull’Assistenza (una materia esclusiva delle Regioni). Il rischio dunque è che il Senato delle Regioni finisca con l’occuparsi di tutto e non solo delle materie concorrenti, ma se si deve occupare di tutto è meglio che sia composto da rappresentanti eletti direttamente e non da delegati dei governi regionali (quest’ultimi eletti, verosibimilmente, per occuparsi di altro). Secondo, perché se il Senato ha qualche potere effettivo deve poter decidere sul finanziamento delle materie concorrenti e degli standard, e temo la capacità di ricatto (con connessi problemi di vincolo di bilancio soffice e tenuta degli equilibri di finanza pubblica) che un Senato delle Regioni potrebbe esercitare sulla Camera politica. Ci vuole un organo diverso, che rappresenti i territori, ma che non sia direttamente espressione dei governi regionali. Ha ragione quando dice che ciò solleva il rischio di una ri-centralizzazione del sistema, ma penso che la funzione di garanzia dei poteri dei diversi livelli di governo potrebbe essere meglio esercitata da una Corte Costituzionale adeguatamente estesa a rappresentanti regionali, piuttosto che dal Senato. Ha ragione infine quando sostiene che il sistema Statunitense potrebbe non funzionare, e potrebbe finire solo con il dare un potere eccessivo agli stati (regioni) più piccoli. Su questo, cioè su come costruire un sistema elettorale che stimoli i senatori a rappresentare i territori piuttosto che i partiti nazionali, stiamo ancora riflettendo.

      Massimo Bordignon

  2. D.Pellegrino

    Nonostante siano passati quasi tre anni ritengo che l’argomento sia di stretta attualità. A quanto pare, infatti, l’attuale dibattito (si dovrebbe dire: infinito dibattito) sulla legge elettorale molto probabilmente riproporrà la questione. Condivido la perplessità “da economista”sul modello Bundesrat, ma credo che i principali difetti di entrambi i modelli siano riconducibili al problema della disciplina di partito. E’ lecito pensare che spesso, ma ovviamente non sempre,che chi si candida o è candidato da un partito diffuso su tutto il territorio nazionale tende a tutelare più l’interesse del partito che del territorio. La stessa considerazione può essere fatta su senatori nominati dai governi regionali: non a caso i problemi del Bundesrat – che hanno portato alla recente riforma costituzionale- sono emersi da circa quindici anni, ovvero da quando la coalizione politica che governa i Laender è opposizione al Bundestag. La scelta sembrerebbe tra le alternative: una camera composta da coloro che concretamente attueranno a livello regionale le politiche decise a livello federale o da coloro che sono eletti dalle regioni e devono portare le istanze locali in un Senato che ha gli stessi poteri della Camera. Adottando un Senato all’americana si correrebbe il rischio di avere semplicemente un Senato come quello di oggi con due differenze: 1) le regioni eleggerebbero un numero paritetico di senatori 2) il Senato non vota la fiducia al governo. Passi certamente in avanti ma nessuna garanzia su una effettiva tutela degli interessi delle entità federate. Sarei per un Senato all’americana, ma cosa può superare questi problemi? Siamo un paese unitario che vuole diventare federale, mentre gli storici stati federali sembrano dirigersi verso modelli di macro-stati unitari. Sicuramente il punto di ottimo e tra i due modelli Bundesrat e Senato U.S.A., ma i rischi di malfunzionamento sono dietro l’angolo.

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