Il mantenimento di una fase di appello dalla portata tanto ampia in un sistema accusatorio è frutto di una opzione politica dagli effetti dirompenti. Un generalizzato processo di appello come riesame del fatto, infatti, non è più una esigenza del nostro sistema processuale. Determina però un aumento medio della durata dei processi di almeno tre anni. Si dovrebbe perciò pensare a una riforma del sistema delle impugnazioni. Anche perché un giudizio in tempi eccessivamente lunghi contribuisce a impoverire la democrazia.

Una volta il malessere della giustizia penale era identificabile nella sua struttura inquisitoria naturalmente esposta a rischio di errori giudiziari. Oggi, con l’introduzione dei principi del “giusto processo”, questo rischio è ridotto al minimo (30 per cento di assoluzioni in primo grado secondo la relazione del procuratore generale della Cassazione, 7 per cento di assoluzioni in appello secondo un rilevamento eseguito nel distretto di Bologna), ma il malessere è egualmente strutturale.

Situazione peggiore di quel che appare

Le regole del contraddittorio dibattimentale dinanzi a un Tribunale collegiale, quelle che assicurano a un processo per un reato grave o delicato una decisione ponderata e meditata, sono di tale complessità, ma anche di tale ricaduta effettiva sulla decisione, da comportare tempi di trattazione eccessivamente lunghi.
Ciò rende incoerente la possibilità che una decisione elaborata con tanto travaglio possa essere ribaltata, per motivi esclusivamente di merito, da un collegio di appello che non abbia preso cognizione diretta della prova e che oggi ha una facoltà di intervento sulla sentenza di primo grado molto ampia e non prevista in nessun altro ordinamento.

Non è soltanto un problema di coerenza con il principio del contraddittorio – affermato dal nuovo articolo 111 della Costituzione, ma non rispettato in sede di appello – per il quale la giustezza della decisione dovrebbe essere affidata solo alla percezione diretta della prova da parte del giudice, ma anche un problema di mancato adeguamento del sistema processuale al principio della ragionevole durata del processo, imposto invano dalla stessa norma costituzionale.

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Oggi la situazione della giustizia penale italiana è peggiore di quanto possa apparire.
I dati della durata dei processi che vengono diffusi si riferiscono a medie che comprendono anche quelli celebrati con riti alternativi (circa un terzo). Se essi vengono scorporati, la media di durata di sei anni indicata dal procuratore generale della Cassazione sale a nove anni, cui vanno aggiunti altri tre anni prima che le decisioni di condanna possano diventare esecutive.

La risposta giudiziaria in tempi non più adeguati alle aspettative, con il conseguente avvilimento dei diritti, l’inefficacia sistematica della reazione dell’ordinamento alla violazione della norma penale e la sensazione diffusa di una legalità solo apparente, compromettono in modo irrimediabile l’immagine stessa dello stato di diritto e contribuiscono a impoverire la democrazia.
La crisi della giustizia penale, specie se analizzata in una prospettiva che lascia intravedere condizioni di ulteriore peggioramento (i tempi di durata dei processi per reati più gravi celebrati dal tribunale collegiale tendono vistosamente ad aumentare), non si presenta più solo come un problema degli operatori del diritto, bensì come un problema politico che investe l’intera comunità in tutte le sue componenti.
Era inevitabile che la scelta di mantenere i caratteri e il peso di due diversi modelli processuali, quello accusatorio e quello inquisitorio, avrebbe determinato un appesantimento dell’intero processo, che di fatto comporta anche una difficoltà a sostenerne i costi eccessivi.

Un sistema incoerente

In passato, il tentativo di trovare soluzioni (a volte inadeguate) era sempre stato continuo.
Oggi, per effetto della recente introduzione della normativa sul giusto processo, la situazione si è aggravata, come dimostra concretamente il monitoraggio informatico, in grado di produrre dati in tempo quasi reale.
Nonostante ciò, le modifiche normative proposte in questa legislatura sono rivolte ad altro. Esprimono la concezione autoritaria e oscurantista secondo la quale avvilendo la funzione giudiziaria e perseguendo disciplinarmente i magistrati, si possano ottenere recuperi nei meccanismi di funzionalità del processo penale.
Non viene affrontata nessuna delle riforme che potrebbero migliorare la situazione senza costi e senza incidere sul “giusto processo”. Dalla riforma del sistema delle impugnazioni potrebbero derivare ampi effetti sulla durata del processo.

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Oggi l’appello consente riforme in tema di responsabilità solo nel 7 per cento dei casi (in parte anche per effetto delle depenalizzazioni) e riduzioni della pena nel 30 per cento, mentre nel 25 per cento dei casi il reato si prescrive.
Il dubbio è che quest’ultimo dato sia destinato ad aumentare vertiginosamente e che una massa cospicua di processi destinati alla prescrizione continui a paralizzare per i prossimi anni buona parte dell’attività dei giudici penali.

Gli aspetti tecnico giuridici della questione sono chiari: un generalizzato processo di appello come riesame del fatto non è più una esigenza del nostro sistema processuale né di uno stato di diritto. Ci costa però un aumento medio della durata dei processi di almeno tre anni. Avere mantenuto in un sistema accusatorio una fase di appello dalla portata tanto ampia è stato il frutto di una opzione politica i cui effetti si sono rivelati dirompenti sulla funzionalità del processo penale. Ed è una opzione politica assunta surrettiziamente dal legislatore contraddicendo i principi del rito accusatorio che intendeva affermare.
Ora che la diagnosi è lucidamente percepibile, non intervenire a sciogliere questa contraddizione, non prestarvi attenzione e omettere ogni forma di intervento, appare una precisa scelta contro la funzionalità del processo penale.

 

 

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