Le cause più evidenti della crisi Alitalia sono una bassa produttività del personale e dei mezzi, una politica tariffaria divenuta dinamica solo da poco e una flotta “arlecchino”. La privatizzazione della società è senz’altro indispensabile, ma può non essere sufficiente. Bisogna premere sulla Ue per una reale liberalizzazione del settore, che permetta di abbattere molti costi impropri. E in un settore in rapida evoluzione, forse converrebbe scommettere su una compagnia low cost.

Alitalia perde 50mila euro all’ora. Ma negli ultimi quindici anni ha visto pochi bilanci in attivo, e a volte solo grazie ad artifici contabili. Questo, anche negli anni in cui era monopolista, con tariffe molto alte.

Una fotografia della situazione

Quanto è costato agli italiani il monopolio in questi anni? Difficile fare i conti: ma poiché le tariffe “low cost” sono circa un terzo di quelle delle compagnie tradizionali, la stima dell’ordine di grandezza è possibile. E si immagini gli effetti sulla crescita complessiva del settore, e dell’occupazione (la domanda è molto elastica alle tariffe).
Con l’avvento di una (modesta e incompleta) liberalizzazione, le tariffe hanno iniziato a scendere, e la crisi, già nota e segnalata dagli studiosi del settore, è diventata “conclamata”.
Le cause più evidenti sono da ricercarsi nella bassa produttività del personale e dei mezzi, una politica tariffaria divenuta dinamica solo da poco, una flotta “arlecchino”, con moltissimi tipi di aereo, e alcune scelte incomprensibili (in particolare il trireattore MD11).

Il settore rimane caratterizzato inoltre da costi elevati sia per i servizi aeroportuali (non liberalizzati nonostante i richiami della Commissione europea) che per quelli del controllo del traffico aereo, mai regolati in modo efficiente.
Rimangono, poi, importanti segmenti non liberalizzati: i voli intercontinentali e i diritti di atterraggio (“slots aeroportuali”) più redditizi, proprietà esclusiva della compagnie di bandiera. Senza tali protezioni pubbliche (assimilabili di fatto a sussidi), molte compagnie di bandiera sarebbero già uscite da tempo dal mercato, e non solo in Italia.

Da notare che la dominanza della compagnia di bandiera (che detiene più del 50 per cento del mercato) genera “scioperi selvaggi”. Tali scioperi in un mercato concorrenziale farebbero rischiare il fallimento della compagnia che non riuscisse a evitarli.
Nel caso di un produttore dominante paralizzano il paese, e quindi conferiscono un potere improprio per chi li promuove. È esattamente quanto accade nel trasporto pubblico locale, anch’esso caratterizzato da scioperi selvaggi che fermano le città.
Il monopolio quindi non garantisce la pace sociale, anzi si può affermare il contrario.

Leggi anche:  Alptransit in Svizzera: perché non fu vera gloria ferroviaria

Una scelta di sviluppo

Che fare ora, con una situazione così deteriorata? La privatizzazione, sempre annunciata e sempre rimandata, sembra indispensabile, per rimettere nella gestione obiettivi di efficienza, “allontanando” le interferenze politico-clientelari.
Il cambio del management ora sembra immotivato (o peggio, ancora motivato da ragioni di controllo politico). Potrebbe essere giustificato solo se il nuovo vertice fosse scelto in base a un piano industriale più convincente di quello ora sul tavolo, ma non ci sono segnali in questo senso.

Ma il problema più di fondo, da molti sollevato, è quale politica complessiva perseguire per il settore.
Le alternative sono sempre le stesse: o una politica “colbertiana”, di rinnovata tutela del “campione nazionale”, o una politica che punta allo sviluppo di un contesto davvero concorrenziale, proteggendo gli utenti invece che i produttori, e favorendo la crescita complessiva del settore.
La prima strada punta a rafforzare le alleanze internazionali. Il loro scopo primario, si badi, non è il bene dei viaggiatori, ma la capacità di premere su Bruxelles per mantenere posizioni di privilegio nelle condizioni di apertura del mercato in corso di negoziato con gli Usa. Si tratta cioè di costituire “compagnie di bandiera europee” al posto di quelle nazionali. Questa strategia comporterebbe poi il mantenimento allo Stato di una “golden share”, che segnali la posizione di privilegio di Alitalia, e lo spostamento dei voli da Linate a Malpensa, in modo da ridurre la concorrenza sui voli intercontinentali, a danno dei milanesi (e delle città del Sud).

In passato, in questo modo non si è generata né efficienza né capacità di competere. Perché dovrebbe accadere ora?
La strada alternativa è quella di accelerare la privatizzazione senza “golden share”, e premere sull’Europa perché si acceleri la reale liberalizzazione del settore (l’Italia ha sempre agito in senso contrario, con i risultati che si vedono). La liberalizzazione dei servizi aeroportuali, e una regolazione efficiente delle concessioni (richiesta anche dall’antitrust) e del controllo del traffico aereo dovrebbe ridurre molti costi impropri.
Il settore è in rapida evoluzione con l’avvento delle compagnie “low cost”, che dovranno anche poter oprare sui servizi extra-Europa. Cosa abbiamo da perdere? Perché non scommettere su una Ryanair italiana tra qualche anno?
C’è solo da rammaricarsi che queste cose si scrivevano già cinque anni fa, in un contesto assai meno compromesso.

Leggi anche:  Per la casa non c'è un euro

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Zone 30, un dibattito senza dati