Università e studi post laurea possono essere visti come beni internazionalmente commerciabili. L’Italia non ha in questo momento alcun vantaggio comparato nella produzione di formazione avanzata. Che perciò dovrebbe essere “importata” dall’estero, per esempio utilizzando i consorzi internazionali cui partecipano facoltà italiane. Più opportunità nella ricerca di punta, da rilanciare anche con la creazione di centri d’eccellenza. Potrebbero poi derivarne benefici anche per i programmi di dottorato italiani.

Forse per deformazione professionale, o per introdurre una nota di divertissement in un dibattito troppo acceso, ritengo che la valutazione della proposta di istituire un Istituto italiano di tecnologia, come anche la rivisitazione della struttura del cursus universitario articolata in 3+2+PhD, possano utilmente essere ricondotte alla specializzazione internazionale basata sul vantaggio comparato.

Nell’ultima “Lezione Angelo Costa”, tenuta alla Luiss da Andreu Mas-Colell, il titolo stesso, se non proprio il contenuto, poneva giustamente il problema in un contesto internazionale: “The European Space of Higher Education”. E invece a me sembra che troppo spesso si dia per scontato che il processo “produttivo” che conduce dalla scuola primaria fino al dottorato di ricerca e oltre, debba essere visto come un’industria verticalmente integrata a livello nazionale.
Mi sembra evidente che, dalla scuola materna alla scuola superiore, i servizi prestati ai discenti sono beni non internazionalmente commerciabili, nel senso che devono essere prodotti laddove normalmente risiede il loro utilizzatore. Dall’università fino al dottorato, invece, l’istruzione diventa un bene internazionalmente commerciabile; ma non nel senso che si importano o esportano i servizi di istruzione universitaria, bensì nel senso che gli utilizzatori di tali servizi possono più facilmente spostarsi all’estero per usufruire di quelli prodotti da altri paesi, se quelli nazionali non sono altrettanto competitivi. A maggior ragione ciò è vero per i servizi offerti dai centri di ricerca scientifica.

Lo studio, un processo per fasi

La disarticolazione del processo di studio e di ricerca in fasi, alcune delle quali possono essere localizzate in paesi diversi da quelli in cui si localizzano le precedenti, è fenomeno da favorire, per sfruttare al massimo il vantaggio comparato che i diversi paesi godono in una o l’altra di tali fasi; a meno di dimostrare che vi siano forti economie di scala o esternalità fra le diverse fasi produttive, tali da giustificare un’integrazione verticale, in ambito nazionale, della “filiera” scuola-università-ricerca.
È pericoloso generalizzare per le varie discipline, ma credo che mentre tali economie sono prevalenti fino al livello della laurea triennale, esse si attenuino passando alla laurea specialistica e al dottorato.
A questo livello prevalgono le economie di scala orizzontali e le esternalità di rete.

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La discussione sul ruolo della laurea specialistica in vista o meno del PhD, sulla possibilità o meno di rilanciare il dottorato italiano, e lo stesso dibattito sui centri di ricerca eccellenti e quindi sul progetto Iit, debbono considerare in quali di queste fasi il nostro paese gode attualmente di vantaggi comparati. Sono questi, e non i vantaggi assoluti, che contano per identificare un’efficiente specializzazione internazionale della produzione di conoscenza. Ma anche che tali vantaggi non sono statici nel tempo.

Outsourcing all’università

Nel campo delle scienze economiche, ritengo che il nostro paese non abbia attualmente un vantaggio comparato nella produzione di dottorati di ricerca. Questi dovrebbero essere importati in qualche modo dall’estero. Ciò è difficile da accettare politicamente; eppure ci sono modi per partecipare dignitosamente ed efficientemente alla produzione altrui, ad esempio con i consorzi di dottorati internazionali. A tal fine, i finanziamenti pubblici dovrebbero privilegiare le borse di dottorato svolto all’estero nell’ambito di istituzioni associate a consorzi in cui partecipano università italiane. L’esperienza dell’outsourcing, tanto sfruttata dalla nostre industrie manifatturiere, potrebbe altrettanto sistematicamente essere imitata dalla nostra “industria” universitaria.
E veniamo all’Iit. Concordo con coloro che, senza scartare a priori la proposta, hanno sollevato critiche costruttive. Quello che apprezzo nella posizione dei proponenti non è la sfiducia nella possibilità di riformare il sistema italiano di università e ricerca, quanto il tentativo, in questo contesto storico e almeno per alcuni settori scientifici, di disarticolare tale sistema in almeno due fasi produttive. In certe discipline e in un certo periodo storico, queste fasi possono essere disgiunte e parzialmente dislocate.

In altre parole, ritengo che attualmente, almeno in economia, sia più facile per l’Italia trovare un vantaggio comparato a livello della ricerca di punta che non a quello dell’organizzazione di dottorati di ricerca.
Naturalmente non si dà ricerca senza insegnamento avanzato, e viceversa.
Quanto a me, credo piuttosto nel “viceversa”: come scrivevano Umberto Eco e Alfonso Traina in un testo in latino per il nono centenario dell’università di Bologna, “magister, dum quaerit, docet”.
Ritengo quindi che sia oggi più efficiente rilanciare la ricerca in centri di eccellenza, come si vorrebbe fosse l’Iit, almeno inizialmente disgiunti da programmi di insegnamento.
Dal rilancio della ricerca potrà poi discendere anche un rilancio dei programmi di dottorato italiani.Difficilmente vedo, nel contesto attuale, la possibilità del processo inverso.

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