Il ministero dell’Economia ha ceduto alle Fondazioni bancarie quote della nuova Cassa depositi e prestiti per un miliardo di euro. L’investimento ha un rendimento minimo garantito ed è previsto il diritto di recesso: le azioni privilegiate acquistate dalle Fondazioni appaiono così strumenti di debito più che quote partecipative. Quello scelto dal Governo è un modo rapido per ricapitalizzare la Cassa, in vista di una successiva privatizzazione. Ma sarebbe stato meglio vendere sul mercato parte delle partecipazioni dello Stato nelle imprese pubbliche.

Avevamo creduto che il più nobile obiettivo della riforma delle Fondazioni d’origine bancaria, proposta dal ministero dell’Economia e poi parzialmente cassata dalla Corte costituzionale, fosse quello di spezzare definitivamente il cordone ombelicale che ancora lega tali enti con le banche. In sostanza, di trasformare le Fondazioni in investitori istituzionali che investono sul mercato i loro ingenti patrimoni guardando esclusivamente al rendimento e al rischio delle diverse attività.
La stessa creazione di Sim indipendenti, che avrebbero dovuto gestire temporaneamente le loro partecipazioni bancarie, aveva questa finalità. Oggi, tuttavia, il ministero appare molto soddisfatto di aver convinto le Fondazioni a investire un miliardo di euro della loro ricchezza nella privatizzanda Cassa depositi e prestiti (Cdp), che a tutti gli effetti, come evoca il suo nome, è una banca che utilizza i soldi raccolti dal Banco Posta per finanziare gli enti locali.

Interesse pubblico ed enti privati

C’era parso di capire che, nelle intenzioni del ministero, le Fondazioni dovessero essere controllate in maniera preponderante dagli enti locali, negando in tal modo, almeno parzialmente, il loro carattere privatistico. Questo è stato, per altro, uno dei motivi che ha indotto la Corte costituzionale a bocciare la riforma.
Oggi, invece, il ministero vede le Fondazioni come un importante soggetto per iniziare la privatizzazione delle Cdp. Insomma, in alcuni istanti questi enti sembra debbano rispondere all’interesse pubblico, salvo poi trasformarsi in enti privati quando si tratta di cooperare ad alleggerire il debito pubblico.

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Una partita aperta

Le Fondazioni poi, al fine di garantirsi da un investimento, come quello della Cdp, di cui ancora non è chiara né la natura né la redditività, hanno ottenuto dal ministero una serie d’impegni volti ad assicurare loro un rendimento minimo garantito (l’inflazione più tre punti percentuali) e un diritto di recesso (a partire dal gennaio 2005), che riconosca un minimo di liquidità alle attività acquisite.
In altre parole, le azioni privilegiate acquistate dalle Fondazioni, pur essendo convertibili in azioni ordinarie nel 2010, appaiono più degli strumenti di debito che delle quote partecipative. Può tutto questo essere considerato un primo passo verso una reale privatizzazione della Cassa o piuttosto l’ennesimo artificio contabile-amministrativo?
La partita tra Fondazioni e ministero dell’Economia è, tuttavia, ancora aperta giacché quest’ultimo dovrà emettere fra gennaio e febbraio un nuovo regolamento che recepisca le obiezioni della Corte costituzionale.

La privatizzazione mancata

Infine, da un Governo di centro-destra ci si sarebbe aspettato una rapida privatizzazione, mercati permettendo, delle principali imprese pubbliche. Invece il ministero dell’Economia ha preferito “vendere” quote rilevanti delle sue partecipazioni in Enel, Eni e Poste alla Cdp.
Pur comprendendo che questo è un modo rapido per ricapitalizzare la Cassa per poi privatizzarla seriamente, è probabile che quelle partecipazioni rimangano molto a lungo sotto il controllo pubblico, dati i tempi necessari per portare sul mercato una società che per decenni è rimasta un ente pubblico.
Forse sarebbe stato meglio tentare di vendere sul mercato, anche attraverso trattative dirette, le quote di tali partecipazioni e poi utilizzare quei denari per ricapitalizzare la Cassa. Tanto più che quelle partecipazioni, con la rilevante eccezione delle Poste, hanno ben poco a che vedere con l’attività delle Cdp.
D’altra parte, fra i recenti provvedimenti del governo, figura anche la richiesta alle banche di anticipare, entro dicembre, parte dei tributi che riceveranno l’anno prossimo dalle famiglie e dalle imprese. Tributi che a loro volta rappresentano spesso un anticipo di quanto i contribuenti dovranno pagare per i redditi che percepiranno nel corso dell’anno successivo. Che pensare di un creditore che chiede l’anticipo di un anticipo?

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