Il governo chiede di formulare proposte alternative alla propria riforma delle pensioni entro il 10 gennaio. Rispondendo all’invito de lavoce.info e alle informazioni offerte da Boeri e Brugiavini, intervengono Pierpaolo Baretta (Cisl), Giulio de Caprariis (Confindustria), Beniamino Lapadula (Cgil) e Gabriele Olini (Cisl).

Intervento di Pierpaolo Baretta

È stato detto, da più parti, che le ultime decisioni del Governo in tema di pensioni sono il risultato di un negoziato tra il nostro esecutivo, i mercati finanziari internazionali e la Comunità, a fronte dell’insostenibilità del debito pubblico italiano, aggravata dalla negativa congiuntura economica.

Il richiamo dell’Europa

Non si tratta, però, di una manovra finalizzata al rientro del debito pubblico.

La riforma delle pensioni parte, infatti, dal 2008. Ovunque, in Europa, la persistenza degli squilibri finanziari è riconducibile all’insufficienza di politiche adeguate ad affrontare, soprattutto, due grandi questioni: le trasformazioni del sistema produttivo e del lavoro e la crisi delle natalità, accompagnata dallo straordinariamente positivo aumento dell’aspettativa di vita.
La dirompenza dei processi economici e sociali, imposta dalla globalizzazione dei mercati; la nuova organizzazione dei sistemi produttivi e del lavoro e i vincoli derivanti dal processo di unificazione monetaria, hanno rappresentato e rappresentano i principali fattori critici con i quali, negli ultimi anni, quasi tutti i paesi dell’Unione europea hanno dovuto confrontarsi.

L’orientamento a intervenire sugli squilibri dei sistemi previdenziali al fine di rispettare il Patto di stabilità, nella sua interpretazione evolutiva, si è affermato progressivamente sin dall’inizio del 2003, attraverso il “metodo del coordinamento aperto”, nei Consigli dei ministri dell’Unione europea.
Sulla base del confronto comunitario, Francia e Germania hanno provveduto a correggere, in modo radicale, le regole dei loro sistemi pensionistici (non a caso si tratta di due paesi che, insieme al nostro, presentano un elevato rapporto deficit pubblico/
PIL).
Nella percezione che la “dimensione europea” del problema si stava inesorabilmente stringendo attorno a noi, in contrapposizione alla tesi di una “Maastricht delle pensioni” promossa, sin dalla primavera, dal presidente del Consiglio, avevo lanciato la proposta di una “Lisbona del welfare“.

Lo scopo era quello di ricercare la definizione di un quadro certo ed esigibile di diritti di cittadinanza europei, fissando obiettivi sociali comuni affinché la competitività indotta dall’allargamento dell’Unione si orientasse sulla qualità e sulla solidarietà e non si attestasse esclusivamente sui costi e sul ridimensionamento delle prestazioni sociali.
Ma questa proposta nasceva anche dalla consapevolezza che le differenze profonde fra i sistemi sociali dei vari Stati membri rischiano di diventare più un vincolo che una risorsa per un’Unione europea che, invece, vorremmo basare – per dirla con le parole usate da Jacques Delors al recente congresso della Ces – su: “una competizione che stimola, una cooperazione che consolida, una solidarietà che unisce”.
Lo Stato sociale che vogliamo è ambizioso, diffuso, efficace e, perciò, costoso. Non dobbiamo negare questa complessità; non dobbiamo cadere nella trappola ragionieristica che ci viene tesa dal ministro dell’Economia.
L’attuale struttura non coglie, infatti, la complessità di una società flessibile e dinamica (nel bene e nel male), nella quale il welfare è, ancora oggi e più di ieri, il filo di Arianna che unisce i lavoratori ai pensionati, i giovani agli anziani, i ricchi ai poveri.

Riformare l’intero stato sociale


È solo all’interno di una visione generale e integrata che potremo accettare, senza conflitti corporativi e con equità, di ridistribuire, rimodulare e rendere efficiente il nuovo Stato sociale.
Senza affrontare alcuno di questi problemi, il Governo ha messo il sindacato di fronte al fatto compiuto, annunciando alle parti sociali, senza un preventivo negoziato, un insieme di proposte che stravolge, di fatto, il sistema pensionistico uscito dalle riforme degli anni Novanta.


Le ragioni della determinazione del Governo a procedere con la presentazione dell’emendamento alla delega sono apparse, da subito, contraddittorie e infondate.
È stato lanciato un allarme drammatico sui conti previdenziali che non corrisponde alla realtà.
I risparmi operati con le tre riforme previdenziali degli anni Novanta (oltre 100 miliardi di euro) hanno, come tutti ormai riconoscono, tolto il sistema dal rischio del collasso.

Inoltre, se prendiamo in considerazione il fatto che la spesa previdenziale italiana comprende, diversamente dagli altri paesi europei, voci che sono di pura natura assistenziale (integrazioni al minimo, tra cui il fallimentare intervento per i 516 euro, servizio militare, invalidità, maternità, reversibilità) e che la spesa per le pensioni è conteggiata al lordo delle imposte diversamente da altri paesi che la calcolano al netto (ad esempio, la Germania), ci rendiamo conto che il completamento del processo di separazione contabile tra assistenza e previdenza comporterebbe una riclassificazione della spesa sociale italiana, modificando completamente i termini della discussione.
È certamente vero che l’impatto della spesa sociale complessiva sul
PIL, naturalmente, non varierebbe, ma questo problema sarebbe oggetto di un negoziato più ampio, poiché, se è vero che la nostra spesa previdenziale supera di oltre due punti percentuali la media dell’Unione europea, è altrettanto vero che la spesa complessiva per la protezione sociale è inferiore rispetto al resto d’Europa .

Non siamo in emergenza

Non siamo in emergenza: è lo stesso Governo ad ammetterlo quando dà inizio alla propria riforma dal 2008, il che rende “sospetta” la fretta di approvare il tutto in poche settimane.
La dinamica di crescita della spesa previdenziale, dal 2008 al 2031-33, è certamente elevata ma questo problema va affrontato all’interno di una generale politica del welfare, adeguata e socialmente sostenibile.
La scelta di tagliare la spesa previdenziale dell’1 per cento è stata presa al di fuori di ogni confronto e addirittura sbagliata a detta della stessa Ragioneria che l’ha corretta allo 0,7 per cento.
Il Governo non ha spiegato a nessuno perché si è dato questo obiettivo quantitativo. È un problema procedurale e di contenuti molto delicato. Difatti, diciamolo con chiarezza, se si sta parlando di previdenza, un punto di rientro della spesa, al di fuori di un contesto di rilancio dello Stato sociale, è socialmente insostenibile. Mentre se parliamo di debito pubblico è addirittura esiguo.

È evidente che il metodo scelto dal Governo è, per noi, sbagliato e inaccettabile.
Sbagliato perché non affronta i problemi aperti dalle trasformazioni sociali, del sistema produttivo e del lavoro. Inaccettabile perché rompe la coesione sociale, facendo passare l’idea che qualunque Governo possa decidere, in assoluta solitudine, passando sulla testa dei lavoratori e delle loro rappresentanze.

Quattro punti per una riforma

Il dibattito che si è aperto si deve, dunque, misurare con proposte alternative capaci di tenere insieme quattro fondamentali aspetti: la sostenibilità finanziaria, indicata dal Governo nel contenimento dello 0,70 per cento del PIL; la garanzia di un tasso di sostituzione, formato dalla somma della previdenza pubblica e complementare, non inferiore al 70 per cento; l’equità intergenerazionale e tra le diverse professioni, raggiungibile con la realizzazione, in un arco di tempo medio, di un’aliquota previdenziale unica; il riequilibrio derivante dall’attesa di vita che risulta aumentata, dal 1995 al 2008, di circa due anni.

Con la legge 335 la copertura assicurata dalla pensione pubblica si è progressivamente ridotta. Ma il processo di riduzione del rapporto tra pensione e ultima retribuzione è destinato a peggiorare nel tempo sino a stabilizzarsi dopo il 2050, per effetto dell’entrata a regime del metodo contributivo per tutto lo stock di pensioni in essere a quella data.
È pur vero che una più lunga permanenza al lavoro determina un recupero, ma, in ogni caso, questa deriva raggiunge risultati ancora più preoccupanti se la si confronta con la massiccia diffusione dei contratti di lavoro flessibili, temporanei o parziali che produce fabbisogni previdenziali crescenti per le nuove figure professionali.
Ecco perché la scelta più urgente da compiere riguarda l’accelerazione del processo di armonizzazione contributiva, immediatamente, un’aliquota contributiva previdenziale al 20 per cento per tutta l’area del lavoro indipendente (lavoratori professionisti, commercianti, artigiani, parasubordinati e lavoratori a progetto, associati in partecipazione).
Questo intervento, promesso dal Governo, in occasione della Legge Biagi e non mantenuto, fornirebbe una risposta efficace ai bisogni previdenziali di tutta l’area del lavoro autonomo e atipico, attenuando il deficit di bilancio dell’Inps per un valore pari a 4,5 miliardi di euro l’anno, riducendo anche l’incidenza percentuale della spesa previdenziale sul
PIL di circa la metà dell’obiettivo dello 0,70 per cento.
Inoltre un’unica aliquota di ingresso al 20 per cento per tutti i lavori indipendenti potrebbe avviare, nel lungo periodo, un percorso di graduale allineamento delle aliquote contributive.

Il secondo pilastro

Eppure, nonostante tutto ciò, non saremo in grado di assicurare, solo con la previdenza pubblica, un valore delle pensioni decente per i lavoratori di oggi, prossimi pensionati, tanto meno per quelli futuri.
L’intervento della Dini sul tasso di sostituzione fu derivato da motivi di insostenibilità finanziaria e doveva essere compensato con una diffusione della previdenza complementare.
Le cause delle difficoltà di avvio della previdenza complementare sono molteplici, a cominciare dalla scarsa pubblicità della reale copertura assicurata dalla previdenza pubblica e del ruolo della previdenza integrativa. Sicché, permane la percezione che “la pensione” sia ancora quella erogata e garantita dallo Stato, tramite gli enti previdenziali.
Anche nella terminologia utilizzata: “aggiuntiva, complementare, integrativa”, si evidenzia il carattere accessorio del secondo pilastro. Questa concezione era, forse, accettabile all’origine, con i tassi di sostituzione di allora, con quel mercato del lavoro non ancora del tutto esploso. Ma, oggi, si finisce per esorcizzare il fatto che, nell’attuale e futuro contesto produttivo e sociale, il secondo pilastro costituisce una necessità.
Pensare alla “pensione” come un corpo unico retto da due gambe, una pubblica e l’altra privata, è il salto di qualità per orientarci ad assicurare un valore della pensione rispetto all’ultima retribuzione che sia non inferiore ad almeno il 70 per cento
Infine, occorre affrontare le questioni derivanti dall’invecchiamento della popolazione che è ormai riconosciuto da tutti come il problema centrale per le future politiche di welfare.

Un sistema di quote

Nel corso del negoziato sulla delega il tema della accresciuta attesa di vita e della armonizzazione dell’età effettiva di ritiro dal lavoro tra l’Italia (59,4) e l’Europa (59,9) era stato affrontato prevedendo di innalzare l’età pensionabile tramite politiche volontarie e incentivanti.
Tale politica non va abbandonata. Anzi, al fine di renderla più efficace, va presa in considerazione l’ipotesi di affiancare agli incentivi monetari previsti dalla delega, un incremento incentivato di almeno 1 punto della percentuale di rivalutazione della pensione per coloro che restano al lavoro oltre la età prevista dai requisiti per la anzianità (attualmente il 2 per cento annuo). Questo incentivo renderebbe davvero interessante per il lavoratore la scelta di optare per rimanere al lavoro.

Ciò che, invece, riteniamo inaccettabile è la scelta operata dal Governo di elevare di fatto l’anzianità contributiva necessaria per accedere alla pensione di anzianità di cinque anni, attraverso la abolizione del doppio requisito di accesso previsto dalla 335/95.
In tal modo si è trasformata la età di accesso per vecchiaia (65 anni per gli uomini e 60 per le donne) da età massima per l’andata in pensione in età minima per tutti, sia che siano assoggettati al sistema retributivo o al contributivo.
Questa assurda decisione penalizza i giovani e le donne, rende rigido il mercato del lavoro esponendo maggiormente la generazione di mezzo a rischi di espulsione.

Il punto di partenza per ogni nostro ragionamento è, dunque, costituito da due condizioni: la prima consiste nel ripristino del doppio canale di accesso, attualmente a regime con 35 anni di contributi e 57 anni di età e la seconda nel ripristino della situazione ex ante per gli assunti dopo il 1 gennaio 1996, prevista dalla 335 in 5 anni minimi di contributi e 57 anni di età.
Va notato come il combinato disposto tra cresciuta attesa di vita e dinamicità della condizione lavorativa pone al centro di ogni riflessione il tema della flessibilità dell’accesso e della liberalizzazione dell’età di pensionamento.
Ricordo che nel dibattito nel corso del negoziato per la Dini, si parlò molto di “quote” per l’accesso. Ma, la soluzione adottata fu, per la esigenza di salvaguardare il criterio dei 35 anni di contributi (che intendiamo riconfermare), il combinato di due dati rigidi (35 e 57), non la quota.
C’è da chiedersi se l’introduzione della quota corrispondente alla combinazione dei due dati, contributi più età, non aiuterebbe la flessibilità di accesso alla pensione, riducendo, al contempo, la propensione alla fuga.

Dobbiamo, inoltre, decidere con chiarezza se, nell’affrontare le conseguenze dell’aumentata attesa di vita, la riduzione delle prestazioni sia una prospettiva accettabile, così come già previsto nella verifica del 2005. Personalmente penso di no. La nostra priorità deve essere quella di evitare che gli effetti dell’aumentata attesa di vita si risolvano nella riduzione delle pensioni.
In ogni caso, ogni intervento sull’età deve prevedere l’avvio di un serio confronto sulle condizioni di lavoro nel nostro paese. A cominciare da quelle degli anziani la cui occupabilità sul mercato del lavoro va rafforzata anche stimolando il ruolo della negoziazione fra le parti sociali, per favorire tutte le soluzioni alternative al pensionamento anticipato e di anzianità.

 

Meglio meno ma meglio?Intervento di Giulio de Caprariis

Nel presentare, insieme a quelli della Legge finanziaria, gli obiettivi dell’emendamento alla “delega previdenziale”, il Governo indicava in 1 per cento del Pil la correzione strutturale che si intendeva così conseguire nella spesa per pensioni. Nel corso di questi due mesi si è appreso che gli interventi proposti in realtà valgono uno 0,7 per cento di Pil. È molto probabile che il tentativo, da poco rilanciato, di trovare il maggior consenso sociale e politico possibile porterà a limare qualche altro decimo di punto. Ciò non porta però necessariamente a un miglioramento degli aspetti strutturali (ad esempio, equità, flessibilità) del provvedimento. In realtà, indebolendone la portata macro, si rischia di non risolvere nessuno dei problemi che giustificano un intervento forte sulla riforma del 1995.

Un problema di scelte

Si dice spesso che il solo, grande difetto della riforma del 1995 sia la lunghissima fase di transizione prevista, che sostanzialmente la rinvia al futuro. Ora, la riforma del 1995 ha certamente il merito fondamentale di aver introdotto un forte principio di correlazione attuariale tra contributi e prestazioni e, a determinate condizioni di steady state demografico, ciò può riportare il sistema in equilibrio finanziario, in un arco di tempo accettabile se si rivedranno le norme sulla transizione. Un problema fondamentale, però, è che la riforma non modifica per nulla alcuni parametri centrali, essenziali per sorreggere un nuovo sviluppo del nostro paese. Non è un difetto del modello contributivo, ma è un problema di scelte del legislatore.

A regime, cioè tra 40 anni, il sistema andrà in equilibrio finanziario con un’aliquota di contribuzione altissima, il 32,7 per cento a cui si dovrebbe aggiungere il 7 per cento di contribuzione ex Tfr ai fondi pensione. Certo, un progresso rispetto all’attuale aliquota teorica di equilibrio (circa 44 per cento), ma che non incide in misura sostanziale sulle differenze rispetto ad altri paesi europei. In Germania, gli interventi allo studio si pongono l’obiettivo di mantenere invariata un’aliquota contributiva che è all’incirca il 60 per cento della nostra..In Svezia, l’aliquota di contribuzione è intorno a 18 per cento.

Tutto questo è causa e conseguenza di un equilibrio economico caratterizzato da bassa occupazione. Inoltre è lo specchio di un sistema di welfare squilibrato a favore della funzione vecchiaia e superstiti (63,4 per cento della spesa sociale totale contro il 46,6 per cento della media europea), che viene usata per coprire (in modo poco efficiente e poco flessibile) anche altri bisogni sociali, ad esempio la disoccupazione.

A parità di prestazioni, bassi livelli di occupazione implicano alte aliquote di equilibrio, le quali a loro volta contribuiscono a deprimere l’occupazione (regolare). Come uscire da questo circolo vizioso?

Alzare il tasso di occupazione

In Italia vi è un generale consenso sul fatto che è necessario alzare il tasso di occupazione (55,4 per cento il più basso in Europa), con particolare riguardo a donne ed anziani (solo il 28 per cento delle persone tra 55 e 64 anni risulta occupato). Questo obiettivo si consegue intervenendo sul mercato del lavoro (ad esempio incoraggiando i contratti part-time, i contratti di reinserimento etc.), adeguando il sistema degli ammortizzatori sociali all’obiettivo di accompagnare ad un nuovo lavoro anziché alla pensione il disoccupato cinquantenne e, appunto, intervenendo sulle regole del sistema pensionistico per rendere meno conveniente il pensionamento in età relativamente giovane e per diminuire l’aliquota media di contribuzione. La delega presentata dal Governo ha il merito di affrontare questi due aspetti; il demerito è che non offre soluzioni ottimali.

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Per quanto riguarda l’elevazione dell’età media di pensionamento, l’intervento proposto riguarda soprattutto il pensionamento di anzianità. Su questo punto, l’idea di Confindustria (ripetuta nelle varie audizioni fatte al Parlamento) è che sarebbe grandemente preferibile un equilibrato meccanismo di disincentivi e incentivi, applicando coefficienti di correzione delle prestazioni per anzianità liquidate antecedentemente a una data età anagrafica e maggiorazioni nei trattamenti liquidati in età più elevate, con una qualche flessibilità (ad esempio per il lavoratori cosiddetti precoci) nello stabilire l’età di benchmarking.

L’applicazione di tale sistema fin dalla prima fase di attuazione della riforma consentirebbe di realizzare con maggiore gradualità l’obiettivo dell’innalzamento dell’età effettiva di pensionamento, e assicurerebbe più significativi margini di flessibilità per i lavoratori. Riguardo invece l’eliminazione della flessibilità nella scelta dell’età di pensionamento per i lavoratori interamente contributivi, è giusta l’osservazione di Gronchi (link) che in uno schema contributivo gli effetti sull’aliquota di equilibrio sarebbero effimeri. Sarebbe qui opportuno mantenere la flessibilità e indicizzare alle variazioni di speranza di vita, a parità di coefficienti di trasformazione, i limiti di età previsti (57 e 65 anni).

Nel senso di incentivare l’occupazione va invece la riduzione dell’aliquota contributiva per i nuovi assunti a tempo indeterminato. Insieme con il conferimento del Tfr alle forme di previdenza complementare ciò consentirebbe una sostanziale equivalenza delle prestazioni pensionistiche individuali, pur con una diminuzione della prestazione pubblica di base. In questo modo non muterebbe l’equilibrio finanziario a regime del sistema e si andrebbe verso una ricomposizione tra componente a ripartizione e a capitalizzazione della prestazione pensionistica. Nel corso dell’iter legislativo questo punto è stato notevolmente peggiorato, nel senso di garantire l’invarianza anche della prestazione di base (come risulta dalla Relazione tecnica), scardinando uno dei principi fondamento del sistema contributivo, l’eguaglianza tra aliquota di finanziamento e aliquota di calcolo della prestazione. È bene sottolineare che è questo particolare modo di attuare la riduzione contributiva e non la riduzione in sé che avrebbe effetti negativi permanenti sul disavanzo pubblico.

Per non cadere nell’immobilismo

Infine, vi sono le cose che avrebbero dovuto esserci e che non ci sono. Queste riguardano soprattutto vari meccanismi della riforma del 1995 come l’aggiornamento dei coefficienti di trasformazione (la prevista revisione decennale si è già rivelata inadeguata rispetto all’incremento effettivo della speranza di vita), la mancanza di coefficienti per età superiori ai 65 anni, disegnare un più equo e rapido percorso di transizione per coloro che stanno nel mezzo, affrontare la soluzione ambigua data al problema dell’indicizzazione delle prestazioni. Anche questi sono capitoli rilevanti di un intervento che voglia effettivamente migliorare la coerenza e la sostenibilità del sistema pensionistico.

Tuttavia, nel complicato processo politico italiano le riforme si riesce a farle solo a pezzi e bocconi. È un procedere rischioso, in cui però la ricerca di compiutezza può facilmente diventare alibi di immobilismo. Insomma, il problema che oggi abbiamo davanti è: meglio una riforma con molti difetti emendabili in seguito, ma che affronta i problemi, oppure un altro anno di discussioni?

 

 

Una strada alternativa ai tagli. Intervento di Beniamino Lapadula

Boeri e Brugiavini dimostrano nel loro Studio che la delega pensionistica potrebbe costare di più dello status quo già nel 2024 e quindi contribuire ad accentuare gli effetti negativi della gobba demografica.
Non c’è da meravigliarsi di tale possibile risultato: Tremonti, aveva bisogno di un taglio strutturale per sostituire le una tantum e doveva tener conto dell’opinione del suo più importante alleato Umberto Bossi, non si è preoccupato della stabilità di lungo periodo del sistema pensionistico. Due sono stati, infatti, gli obiettivi realmente perseguiti: fare accettare da Bruxelles una cattiva manovra finanziaria e creare gli spazi per la realizzazione del secondo modulo della riforma fiscale in vista delle elezioni politiche del 2006. Il taglio delle pensioni servirebbe così a ridurre le imposte ai cittadini più abbienti.
E’ per questo motivo che la Tremonti impone di colpo requisiti contributivi molto elevati che aboliscono la pensione di anzianità. Nei fatti, ove queste misure fossero approvate, le donne non andrebbero mediamente in pensione prima dei 60 anni e gli uomini prima dei 64. Questa rigidità, che comporta un aumento dell’importo medio delle pensioni, una volta introdotta non può più essere abbandonata. Il ritorno ad un sistema flessibile, infatti, sommerebbe un nuovo effetto numero all’effetto importo, determinando per un certo arco temporale un’impennata della spesa pensionistica. Per fare cassa oggi, viene così compromesso il futuro eliminando ogni possibile flessibilità del sistema pensionistico.

Le proposte alternative

Lo studio pubblicato dalla Voce.info propone un intervento alternativo che anticipa l’entrata in vigore della Dini prevedendo, per chi esce a 57 anni, una riduzione massima degli importi delle pensioni pari al 23 per cento. Certamente tale misura darebbe risparmi più certi di quelli previsti dalla delega del governo,  cosa ancora più importante la flessibilità del sistema, ma non assicurerebbe un’equità intergenerazionale migliore rispetto allo status quo. L’accelerazione della transizione prevista dalla Dini, in assenza dello sviluppo dei Fondi pensione, finirebbe, infatti, per creare nuove iniquità. I lavoratori, senza copertura complementare e privi di un adeguato sistema di ammortizzatori sociali, continuerebbero ad essere espulsi dalle imprese e sarebbero costretti ad “accontentarsi” di una pensione di poco superiore al 50 per cento delle loro ultime retribuzioni. E’ questo un problema estremamente serio, tanto è vero che Sandro Gronchi, nel proporre l’introduzione di correttivi attuariali suggerisce di porre a carico di un apposito Fondo le compensazioni alle decurtazioni pensionistiche subite dai lavoratori espulsi a seguito dei processi di ristrutturazione.

Anche nell’ipotesi di Gronchi resterebbe però, comunque, il problema di garantire a tutti i lavoratori la flessibilità autofinanziata prevista a regime dalla riforma Dini. Essa, per poter essere fruita anche dai lavoratori a bassa e media retribuzione, deve poter contare sulla previdenza complementare, altrimenti il reddito pensionistico sarebbe del tutto insufficiente.

Completare e rafforzare la Dini

Invece che proporre interventi di riduzione delle prestazioni pensionistiche, è quindi opportuno concentrare tutti gli sforzi sul decollo della previdenza complementare, indispensabile per assicurare in un sistema flessibile tassi di sostituzione, pensioni-retribuzioni socialmente sostenibili. In assenza di tale intervento, infatti, si rischia di togliere credibilità all’intero impianto scaturito dalle riforme degli anni ’90. La riforma Dini va piuttosto completata e rafforzata soprattutto per le nuove generazioni di lavoratori che hanno rapporti di lavoro sempre più precari. In attesa della verifica prevista per il 2005, che dovrà tenere conto dell’aumento della speranza di vita, occorre favorire, su base volontaria e incentivata, l’innalzamento dell’età di fatto di ritiro dal lavoro degli anziani. Vanno inoltre previste forme di pensionamento flessibile, (part-time più pensione) e una specifica normativa per rafforzare il diritto degli anziani al lavoro e per incentivare le imprese a trattenerli.

Una strada alternativa

Cosa altro si può fare per affrontare allora il tema della sostenibilità della spesa pensionistica nel lungo periodo?

Forse è arrivato il momento di prendere spunto da una proposta avanzata alcuni anni fa da Franco Modigliani: passare il TFR all’Inps costituendo riserve da investire sui mercati. A differenza di Modigliani non bisognerebbe però mettere in discussione la finalizzazione principale del TFR che deve essere indirizzata alla previdenza complementare. Nel pieno rispetto di quanto previsto dalle riforme degli anni ’90 e dai contratti collettivi di lavoro si potrebbe investire il TFR che i lavoratori non intendono trasferire ai Fondi pensione sui mercati finanziari e ricavarne risorse per far fronte all’incremento della spesa pensionistica connesso alla gobba demografica, che così non graverebbe sulla finanza pubblica. Altre risorse potrebbero essere ricavate da una migliore sinergia tra primo e secondo pilastro. Ad esempio si potrebbe prevedere, così come stabilito dalla riforma svedese, che i montanti dei contributi capitalizzati nei fondi pensione possano essere trasformati in rendita oltre che da soggetti di mercato, da soggetti pubblici. In questo modo verrebbe introdotta anche in Italia una modalità già ampiamente presente in Europa. Ben 10 membri dell’UE dispongono infatti di fondi di riserva in grado di finanziare, almeno in parte, il futuro aumento della spesa pensionistica.

 

Intervento di Gabriele Olini

L’Italia ha affrontato, nel corso degli anni ’90, una serie di riforme della previdenza. Queste hanno inciso profondamente sulle regole del gioco, sono costate sacrificio per molti lavoratori, hanno elevato ad un tempo la sostenibilità del sistema.

Cosa dice l’Europa

Un riconoscimento, che viene, innanzitutto, dalle fonti internazionali. Tra queste i due Rapporti del 2000 e 2001 dell’Economic Policy Committee, l’organismo che ha compiti di istruttoria e proposta per il Consiglio dell’Unione Europea, mostravano che l’Italia, a normativa invariata, si sarebbe trovata (con Svezia e Gran Bretagna) tra quei paesi che avrebbero risentito di meno della crescita della popolazione anziana e della riduzione della popolazione in età centrale (1).E’ anche vero che in sede europea non sono stati mai risparmiati al nostro paese inviti ad adeguare la struttura dello stato sociale e ad intervenire sulla stessa previdenza per fare fronte alle tendenze demografiche.

Lavoratori invecchiati e equilibri di spesa

Certo, la tendenza ad un pensionamento anticipato costituisce un problema reale dell’economia italiana. Nei prossimi anni il nostro sistema paese conoscerà non solo un rapporto numerico più difficile tra attivi e pensionati, ma anche un mercato del lavoro caratterizzato da una maggiore presenza di lavoratori senior. Bisognerà, cioè, recuperare un più elevato tasso di attività per i lavoratori sopra la soglia dei cinquanta anni. Finora vi è stata, in tutti i settori, un’intesa implicita tra imprese, lavoratori e sindacati per favorire uscite molto precoci dei lavoratori più anziani; ciò allo scopo di ridurre gli organici e consentire il ricambio generazionale, molto gradito alle imprese. Questa operazione in futuro sarà sempre più complicata ed un intervento di puro inasprimento delle condizioni di pensionamento, come quello che è stato pensato dal Governo, è destinato certamente ad inasprire le tensioni sociali, con i lavoratori stretti tra una pensione lontana e le imprese che non li vogliono più. Il rischio tangibile è quello di innalzare la quota dei disoccupati di lungo periodo più anziani.

L’equilibrio della spesa previdenziale è cosa ben importante e non può essere presa sottogamba. Questa considerazione non riduce, ma esalta il peso degli errori contenuti nella proposta governativa, che soffre di contraddizioni in vari punti, oltre a non offrirsi come misura equa e graduale. La riforma della riforma Dini o la controriforma delle pensioni sembra, in verità, mossa più dal condizionamento di una finanza pubblica indebolita da un’economia, che non si è riusciti a far ripartire, che dal desiderio di rafforzare l’equilibrio a medio e a lungo termine della finanza pubblica o di evitare la relativa “gobba”. Lo strappo sulle pensioni serviva al governo come lasciapassare per una manovra economica, per il resto molto debole sugli aspetti strutturali (2). Rispetto agli elementi di merito, l’intervento di contenimento della spesa previdenziale a medio e a lungo termine, che viene posto in essere dal Governo, avviene non solo a scapito delle aspettative di coloro che dovrebbero andare in pensione dopo il 2007, ma rappresenta per il lavoratore un forte arretramento rispetto alla possibilità di scegliere il momento in cui andare in pensione. Ciò lo si trova sia nella cancellazione della pensione di anzianità per i lavoratori del sistema retributivo e misto, che, in sovrappiù nell’innalzamento dell’età minima di pensionamento per coloro che sono nel sistema contributivo.

Due pregi della Dini

Si cancellano, così, due pregi importanti della riforma Dini. Il primo era costituito dalla presa d’atto dei rilevanti cambiamenti del mercato del lavoro, che portano ad un ingresso normalmente ritardato al lavoro e a frequenti entrate ed uscite dall’attività; imporre i 40 anni di contributi per i lavoratori che iniziano tardi, e che hanno periodi non coperti, significa ignorare la realtà attuale del mercato del lavoro e costringere molti, loro malgrado, a rimanere al lavoro fino all’età di pensionamento di vecchiaia. Il secondo era la possibilità per i lavoratori di scegliere in maniera flessibile l’età di pensionamento, pilastro fondamentale della flessibilità sull’intero ciclo di vita.

La proposta di Boeri e Brugiavini tenta di delineare un intervento che, rafforzando i risparmi di spesa previdenziale, salva la flessibilità dell’età di pensionamento. Il restringimento della facoltà di scegliere per il lavoratore si tradurrebbe, infatti, anche in un elemento di forte rigidità del mercato del lavoro. Le imprese dovrebbero, per prime, farsi carico di un sistema complessivamente più vincolato, che potrebbe determinare anche effetti di spiazzamento per i più giovani.

Due diversi approcci

La riforma prevista da Boeri – Brugiavini è centrata sull’anticipo al 2004 della correzione attuariale per coloro che escono dall’attività ad un’età inferiore a quella prevista dal pensionamento di vecchiaia. La riforma Tremonti, invece, prevede che dal 1 gennaio 2008 a coloro che vorranno (o in molti casi dovranno) accedere alla pensione di anzianità con il requisito congiunto età anagrafica e anzianità contributiva (con 57 anni e 35 di contributi versati per i lavoratori dipendenti), si applicheranno le regole a regime del sistema contributivo per la liquidazione della pensione, sia con riferimento ai coefficienti attuariali, che al ricalcolo sull’intera vita lavorativa. Oltre che nella data, la differenza tra i due approcci sta, nella retribuzione di riferimento per il calcolo della pensione, che nella proposta Boeri – Brugiavini rimane quella degli ultimi anni di attività.

Ora, rispetto alla proposta del Governo, quest’approccio coinvolge lavoratori che non sono colpiti dalla riforma. L’anticipo al 2004 ha, naturalmente, effetti positivi sulla spesa previdenziale, tanto da poter dar corso immediato alla riforma degli ammortizzatori sociali per i lavoratori tra 57 e 65 anni. Vi sarebbe anche un vantaggio rispetto alla proposta del Governo per coloro che, dal 2008, dovessero decidere di ritirarsi dal lavoro prima dell’età di vecchiaia, ma limitatamente a coloro che hanno una dinamica retributiva accentuata negli ultimi dieci anni di attività. Tale vantaggio deriva dal fatto che Boeri e Brugiavini non applicano l’intero sistema contributivo a coloro che si ritirano anticipatamente, ma adottano la sola correzione attuariale. Ciò fa sì che la riduzione della pensione non vada oltre il 23 %, rispetto ad un impatto della Riforma Tremonti che, loro stimano, può arrivare fino al 50 – 60 % per coloro che hanno una dinamica salariale a fine carriera molto favorevole.

Più lavoratori coinvolti

Si possono fare due rilievi all’approccio di Boeri e Brugiavini. Il primo è che la correzione attuariale, applicata da subito, determina, comunque, una forte riduzione della pensione; per coloro che si ritirassero a 57 anni con 35 anni di contributi, come possibile nella Riforma Dini, la pensione lorda assommerebbe a poco più della metà dell’ultima retribuzione. L’altro rilievo è che, a fronte di un numero di soggetti coinvolti assai più numeroso, per l’anticipo al 2004 dell’intervento, il numero di quelli che avrebbero un beneficio in termini di migliore tasso di sostituzione sarebbe, tutto sommato, molto limitato e in gran parte concentrato sui redditi più elevati; tra tali soggetti, infatti, è più probabile trovare una dinamica retributiva più favorevole a fine carriera. Incide, in tal senso, anche un dato macro: la moderazione salariale degli ultimi anni ha limitato la crescita delle retribuzioni e, quindi, per la generazione che sta per ritirarsi, la condizione di crescita accentuata nell’ultimo periodo di attività è tutt’altro che diffusa e riconducibile quasi esclusivamente a dinamiche e storie individuali più che collettive.

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Resta uno “scalone”

La proposta di Boeri e Brugiavini si pone il problema dell‘equità intergenerazionale, ma non lo risolve completamente. I due autori hanno ragione a rilevare che la riforma del Governo determina una grossa frattura generazionale; questa è più ampia e meno motivata di quella, pur importante, della Dini. Corre un abisso tra coloro che potranno andare in pensione a 57 anni con 35 anni di anzianità fino alla notte di San Silvestro del 2007 e coloro che, invece, maturando le stesse condizioni solo qualche ora dopo, dovranno aspettare i quarant’anni di contributi o l’età di pensionamento di vecchiaia. E’ vero che nella proposta alternativa de LaVoce viene eliminato lo “scalone” del 2008 e questo ha un effetto positivo sull’equità intergenerazionale in quei dintorni. Ma uno scalone, per alcuni appena più basso, c’è sempre: quello tra il 2003 ed il 2004. Boeri e Brugiavini paiono consapevoli di questo problema se in una variante allentano la correzione attuariale per le generazione dei lavoratori più anziani riducendo, così, lo scalone; la riduzione della pensione sarebbe del 17% per chi avrà 57 anni nel 2004, del 19% per un 57-enne nel 2005 fino a raggiungere il 23% per chi avrà 57 anni nel 2008. Il problema è che la correzione attuariale di Boeri / Brugiavini rimane molto forte e, applicata da subito, rovescia dall’oggi al domani le regole pensionistiche, che avrebbero invece sempre bisogno di lunghi periodi di transizione, come ci insegna la Riforma in Germania. Forse fare riferimento ai diritti acquisiti non è cosa molto popolare, ma, certamente, non tenere abbastanza conto delle attese di chi ha costruito il suo piano di vita sulla base delle regole esistenti non è un comportamento corretto.

L’istinto di fuga

E poi, come si comporteranno coloro che vengono risparmiati dalla Riforma Tremonti? Non si tratta di fortunati, di privilegiati, come qualcuno esplicitamente indica. Si tratta di soggetti che si considerano sotto tiro, sono sotto tiro e questo, certamente ne influenza le scelte. Condivido i timori di Boeri e di Brugiavini sulla possibilità di fuga verso le pensioni di anzianità prima del 2008. L’incentivo alla prosecuzione dell’attività lavorativa ( il 32,70 in busta paga) mi pare venga sostanzialmente neutralizzato più da considerazioni di contesto, che dal calcolo costi benefici tra la rivalutazione della pensione cui si rinuncia, per sé e per il coniuge superstite, e il beneficio della corresponsione immediata dei contributi.(vedi Gronchi). Resta, per tutta questa fascia di lavoratori, un problema più di fondo: un naturale istinto di fuga per mettersi al riparo da eventuali ulteriori provvedimenti. Si è, infatti, visto più volte in passato che già l’annuncio di un intervento spinge i lavoratori ad abbandonare il posto di lavoro (vedi Brugiavini Fasani) Ciò è tanto più vero in una condizione di escalation, in cui le norme diventano, dall’oggi al domani, via via più restrittive per una fascia sempre più ampia di persone. In questo caso il gioco non vale la candela e l’unico modo per ridurre il rischio è quello di togliersi “di mezzo”. Il che significa che qualsiasi riforma deve, innanzitutto e preliminarmente, stabilizzare le aspettative, per evitare più danni rispetto ai benefici attesi.

Politiche per i lavoratori anziani

Vorrei da ultimo fare riferimento a due questioni su cui, probabilmente, occorre fare una maggiore riflessione. Una è quella che troppo spesso per elevare l’età di pensionamento ci si concentra sulle condizioni di convenienza per il lavoratore, mentre si trascura completamente, come fa la proposta del Governo, il tema del rafforzamento del lavoratore anziano; invece per costui, il più delle volte, la decisione di pensionamento è forzata o condizionata da una situazione di debolezza. Le modifiche delle regole di uscita dal lavoro non possono essere viste disgiuntamente dalla ridefinizione delle tutele rispetto al rischio di perdere il lavoro. Ma, oltre che una taratura delle politiche passive, le stesse politiche comunitarie ci sollecitano ad un grosso sforzo per costruire politiche attive che hanno come destinatario proprio i lavoratori meno giovani.(3) Si tratta di: promuovere la formazione permanente lungo tutto l’arco di vita attiva; ritarare verso i lavoratori più anziani gli strumenti di politica attiva del lavoro; eliminare gli ostacoli a ricominciare la vita lavorativa in un nuovo ambito ( come l’età massima nelle selezioni del personale); favorire il ricorso al part time in uscita; intervenire sulla penosità del lavoro e sui fattori di disagio più sentiti dai lavoratori anziani; favorire la flessibilità dell’orario in favore del lavoratore e tutte le modalità di conciliazione vita / lavoro (telelavoro, orario flessibile in entrata ed in uscita, orario concentrato, permessi e periodi di aspettativa). Tutto ciò richiede una partecipazione diretta dei lavoratori più anziani nell’implementazione delle misure per ridurre le barriere legate all’età e sviluppare azioni integrate.

Lo “shopping previdenziale”

L’altra questione su cui occorre intervenire con decisione è quella dello shopping previdenziale, ovvero della tendenza del mercato del lavoro a indirizzarsi verso le figure meno tutelate previdenzialmente, come è il caso dei cococo ed degli associati in partecipazione, i quali ultimi sono stati fino ad oggi completamente sprovvisti di copertura previdenziale. La scelta per gli individui e per le imprese di una o l’altra forma contrattuale, cioè la flessibilità dei rapporti, non dovrebbe essere legata a meccanismi di dumping sociale. La realtà del mercato del lavoro italiano avrebbe bisogno, con tutta la gradualità del caso e con una certa articolazione delle soluzioni, di una sostanziale convergenza delle aliquote contributive tra le diverse figure di lavoro subordinato, autonomo, libero professionale, tenendo conto dell’intera gamma di forme intermedie tra le fattispecie originali.

 

(1) EUROPEAN UNION – Economic Policy Committee (2000), Progress Report to the ECOFIN Council on the Impact of Ageing Populations on Public Pension Systems , Brussels, november, in http://ue.eu.int/emu/OtherTopics/pensions.pdf
EUROPEAN UNION – Economic Policy Committee (2001), Budgetary challenges posed by ageing populations: the impact on public spending on pensions, health and long-term care for the elderly and possible indicators of the long-term sustainability of public finances, Brussels, October http://europa.eu.int/comm/economy_finance/epc/documents/ageing_en.pdf

(2) Si veda Luigi DI VEZZA e Gabriele OLINI – Ufficio Studi CISL (2003), Finanziaria 2004: dalla finanza creativa alla controriforma delle pensioni, sta in http://www.cisl.it/doc/fin2004/finanzacreativa-pensioni.htm
(3) Si vedano:
COMMISSIONE DELLE COMUNITÀ EUROPEE (2002), Accrescere il tasso di attività e prolungare la vita attiva, sta in http://europa.eu.int/comm/employment_social/news/2002/feb/com_2002_9_it.pdf
FONDAZIONE EUROPEA per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (1997), Lotta alle barriere basate sull’età nel lavoro – sintesi della ricerca, sta in http://www.eurofound.ie/publications/files/EF9718IT.pdf , FONDAZIONE EUROPEA per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (1998), Managing an Ageing Workforce – A Guide to Good Practice, sta in http://www.eurofound.ie/publications/files/EF9865EN.pdf ,
Carlo DELL’ARINGA (2003), Politiche attive per evitare l’esodo, “Il Sole 24 Ore”, 23 settembre.

 

 

Ciò che manca al confronto

Tito Boeri e Agar Brugiavini
9 dicembre 2003
Perchè il confronto fra Governo e parti sociali possa partire occorrono informazioni più dettagliate sui potenziali effetti della riforma Tremonti e proposte alternative.

Quali informazioni mancano?

Lavoce.info ha documentato le implicazioni della riforma Tremonti sulle prestazioni di un cittadino medio (con tabelle che illustrano come cambieranno le pensioni dopo il 2008). Ha anche discusso i rischi (le fughe verso le pensioni di anzianità) e le iniquità associate al rinvio al 2008 della riforma. Infine, ha mostrato che il superbonus non conviene a chi ha redditi uguali o inferiori alla stragrande maggioranza dei nostri pensionandi d’anzianità (vedi Gronchi). Molti altri aspetti della riforma permangono oscuri.

Il neo-presidente dell’Inps ha deciso di non rendere disponibili i dati di cui dispone “per non influenzare il dibattito in corso sulla riforma previdenziale”. Per questo motivo, non sappiamo ancora quanti saranno i pensionati bloccati dall’innalzamento dei requisiti contributivi a partire dal primo gennaio 2008. La Ragioneria generale dello Stato, nella relazione tecnica all’emendamento governativo, ipotizza coorti di pensionamento di anzianità mediamente di 245mila individui all’anno dal 2008 al 2013, che andrebbero in pensione entro i primi due anni dalla maturazione dei diritti.

Ma i dati di cui disponiamo fanno pensare a un pensionamento più graduale. Non è una questione di poco conto. Il grafico 1, basato sulle simulazioni descritte nella scheda tecnica allegata, mostra che i risparmi della Tremonti sarebbero molto minori qualora i lavoratori che avranno prestazioni “miste” (calcolate fino al 1996 con il metodo retributivo e, successivamente, con quello contributivo) ritardassero il pensionamento rispetto agli individui la cui pensione d’anzianità viene interamente calcolata con il metodo retributivo. Con pensionamenti più graduali, la Tremonti costerebbe di più dello status quo già nel 2024 (secondo la Ragioneria ciò avverrà solo nel 2040).


Utile un chiarimento anche sulle ipotesi che stanno alla base della relazione tecnica presentata dal Governo al Senato. Il Governo ipotizza, ad esempio, che un sesto dei lavoratori dipendenti interessati (sia pubblici che privati) accetterà le forti penalizzazioni previste per chi volesse continuare a fruire della finestra “35+57” (1) per accedere alla pensione di anzianità dopo il 2008. Ma aspettando qualche anno, questi lavoratori riceverebbero una pensione fino al 60 per cento più alta. Saranno dunque licenziati o comunque forzati dai loro datori di lavoro ad andare in pensione anzitempo? Ma non era, il nostro, un mercato del lavoro rigido? E come potrebbe ciò avvenire anche nel settore pubblico?

Per aprire davvero il confronto, il Tesoro deve allora rendere accessibili i dati e le metodologie adottate nel simulare gli effetti della riforma o almeno rendere pubblici scenari alternativi. Fondamentale, inoltre, che il ministero del Welfare pubblichi tabelle che illustrino in dettaglio come cambieranno dopo il 2008 le prestazioni per diverse tipologie di individui, sull’esempio di quelle riportate da lavoce.info , sfruttando le informazioni che l’Inps trasferisce al solo ministro del Welfare . Bisogna infatti mettere i lavoratori italiani in condizione di rivedere per tempo i loro piani di spesa e risparmio.


Le proposte alternative

Riteniamo utile innanzitutto definire criteri sulla base dei quali valutare eventuali proposte alternative. I risparmi non sono l’unico obiettivo di una riforma previdenziale. Nel caso della riforma Tremonti, come si è visto, la loro entità è molto incerta perché frutto di un blocco delle uscite per anzianità, anche in presenza di un regime che aumenterà in modo permanente le prestazioni future per chi va in pensione più tardi. Importante perciò analizzare la sensitività dei risparmi a diverse ipotesi circa le scelte di pensionamento di chi matura i requisiti per le anzianità. Un altro criterio di estrema rilevanza è quello dell’equità intergenerazionale (bene ridurre le differenze di trattamento fra individui di diverse classi di età) e intra-generazionale (occorre minimizzare il rischio di avere individui al di sotto della linea di povertà fra le generazioni penalizzate dalle riforme) delle diverse proposte.

Proviamo allora a comparare gli effetti della Tremonti con quelli di una riforma che si limiti ad anticipare l’entrata in vigore della Dini, introducendo fin da subito (anche in modo graduale) aggiustamenti degli importi per chi va in pensione prima dei 65 anni, sulla base di principi di neutralità attuariale (la scelta di quando andare in pensione non deve incidere sugli equilibri di lungo periodo delle casse previdenziali), senza modificare i requisiti contributivi (come discusso anche da Sandro Gronchi).

Nelle nostre simulazioni, la riduzione massima degli importi è del 23 per cento, per chi esce a 57 anni, e scende a zero per chi va in pensione a 65 anni (per uomini e donne). Quindi, per coloro che pianificano di andare in pensione a 65 anni, il trattamento non cambia rispetto allo status quo.

I tre grafici qui sotto comparano le due riforme.

Il primo grafico valuta la sensitività di questa riforma delle prestazioni (riforma P) a diversi scenari circa le scelte di pensionamento. Basta compararlo con il grafico precedente per intuire che la riforma che accelera la transizione al contributivo ha effetti meno incerti della Tremonti. Soprattutto non si arriva mai a risparmi negativi, anche perché si converge alle regole della Dini correggendo le sperequazioni esistenti tra gruppi di lavoratori. Dal 2033 in poi cominceranno ad andare in pensione generazioni interamente sotto il regime contributivo, per le quali in questo caso non è previsto alcun cambiamento rispetto alla normativa vigente.

Passiamo al secondo grafico, che mostra i prevedibili risparmi della Tremonti (T) e della riforma delle prestazioni (P) nello scenario centrale. Come si evince dal grafico, la Tremonti porta a risparmi maggiori della riforma delle prestazioni fino a circa il 2028. (2) Si noti, tuttavia, che si è qui assunto che la Tremonti non comporti alcuna fuga verso le anzianità prima del 2008, dunque nessun aggravamento dei conti previdenziali da qui ad allora. Se si contemplasse una fuga di soli 100mila lavoratori da qui al 2008 (come già discusso su la voce.info, sono ben 700mila i lavoratori che potrebbero “fuggire”), i risparmi in valore attuale della Tremonti sarebbero inferiori a quelli della riforma P anche solo concentrandosi sul periodo 2004-2030.

Vediamo ora l’equità intergenerazionale. Il terzo grafico mostra la dispersione (più precisamente, la deviazione standard) nei tassi di sostituzione (il rapporto fra pensione e ultimo salario) di individui con le stesse anzianità contributive o anagrafiche da qui al 2030. Le differenze di trattamento (e quindi la dispersione) aumentano fino a sei volte con la Tremonti, mentre si riducono con la riforma alternativa.
Quanto all’equità intra-generazionale, la riforma alternativa riduce le prestazioni al massimo del 23 per cento (contro il 50-60 per cento che la Tremonti imporrebbe a chi ha profili salariali crescenti nell’anzianità aziendale anche sul finire della propria carriera). Una ulteriore differenza non trascurabile è che la Tremonti parte nel 2008 ( e di fatto non intacca la situazione di alcune coorti anche dopo il 2008), mentre la riforma alternativa è applicabile in forma non traumatica già dal 2004. Di qui la possibilità, con la riforma delle prestazioni, di alimentare fin da subito ammortizzatori sociali (come un reddito minimo garantito) per i lavoratori tra i 57 e i 65 anni di età. E, come contemplato dalla riforma Dini, il pensionamento prima dei 65 anni di età sarebbe possibile solo se in grado di alimentare trattamenti superiori ai minimi sociali.


Il fatto che la riforma Tremonti addirittura accentui le iniquità dello status quo e abbia effetti così incerti dipende dalla sua
rigidità: impone di colpo requisiti contributivi molto elevati mantenendoli anche quando non serviranno per contenere la spesa, data l’entrata in vigore di un sistema in cui ogni anno di ritardo nel pensionamento viene compensato da trattamenti più pesanti. Tutto questo senza tenere conto dei rischi di fughe verso le anzianità nei quattro anni che ci separano dall’entrata in vigore della riforma. Un rischio tutt’altro che remoto: basti pensare che nel 2003 le domande per le pensioni di anzianità sono cresciute di un quinto rispetto all’anno precedente.

(1) Trentacinque anni di contributi e cinquantasette di età anagrafica, come nella legislazione vigente.

(2) Con i dati a disposizione non siamo in grado di allungare l’orizzonte previsivo oltre il 2030. Ma gli andamenti della spesa fanno pensare che, da lì in poi, la Tremonti costerebbe di più non solo della riforma P, ma anche dello status quo.

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