Lavoce.info

Scioperi e regole

Con i nuovi scioperi dei trasporti si ripresentano gli stessi disagi, le stesse polemiche, gli stessi retroscena di sempre. Ma i sindacati confederali appaiono questa volta propensi a considerare una proposta sviluppata e dibattituta su questo sito, quella dello sciopero virtuale.  Fermo restando la necessità di applicare sanzioni a chi non rispetta le norme sull’esercizio del diritto di sciopero.  Riproponiamo gli interventi di Andrea Boitani, Pietro Ichino, Eugenio Somaini, Roberto Perotti e un esempio di accordo aziendale sullo sciopero virtuale.

Se non scioperi, ti premio

20 Gennaio 2004
Eugenio Somaini

Scongiurare gli scioperi nei servizi pubblici mediante incentivi può essere più semplice e meno controverso che farlo attraverso sanzioni. Alla base di un sistema di incentivi sta il fatto che un servizio continuativo dovrebbe valere per gli utenti più di uno esposto all’alea di interruzioni per scioperi (selvaggi o non): pertanto dovrebbero essere disposti a pagare qualcosa di più per ottenerlo.

La proposta

Supponiamo che un rincaro di una certa percentuale x combinato con la certezza della continuità sia preferibile all’offerta attuale di un servizio aleatorio per una tariffa inferiore.
Data la bassa elasticità della domanda del servizio e il fatto che la stessa garanzia della continuità stimolerebbe probabilmente la domanda, si può ritenere che i ricavi aumenterebbero più o meno nella stessa proporzione della tariffa.

Le entrate aggiuntive potrebbero essere destinate al pagamento di un premio di non-conflittualità sia all’azienda sia ai lavoratori. L’opportunità di questa soluzione è dettata dall’esigenza di non alterare i rapporti di forza negoziali e cioè di fare sì che la rottura sia costosa per entrambe le parti e lo sia più o meno nelle stesse proporzioni, un risultato che potrebbe essere ottenuto destinando al premio per i lavoratori una quota delle maggiori entrate pari a quella dei salari nel valore aggiunto dell’azienda.
Un incremento tariffario del 10 per cento, che probabilmente, data la gravità dei costi e dei disagi che gli scioperi comportano, gli utenti accetterebbero come prezzo per la garanzia della continuità, determinerebbe un aumento dei ricavi di uguali proporzioni, ma un incremento di minore entità del valore aggiunto, poiché le imprese operano solitamente in perdita e coprono lo scarto con sussidi pubblici.
Supponendo che i ricavi rappresentino solo la metà del valore aggiunto, l’aumento di quest’ultimo e dei salari sarebbero del 5 per cento, più o meno equivalente quest’ultimo alla retribuzione di dodici giornate lavorative (supponendo che nell’arco di un anno queste siano pari a 240).
Se il pagamento avvenisse due volte all’anno il costo in termini di mancata retribuzione di uno sciopero risulterebbe moltiplicato, pari al salario non di una sola, ma di 7 (1+6) giornate lavorative, ed eserciterebbe un effetto significativo sul modo di condurre le trattative.
Il concomitante effetto di un aumento dei ricavi sarebbe una riduzione delle perdite delle aziende erogatrici e quindi un minore onere per l’ente pubblico finanziatore.

In caso di sciopero

La proposta deve ovviamente essere completata con il chiarimento di cosa avverrebbe nel caso in cui, malgrado tutto, si abbiano interruzioni del servizio per scioperi. E in particolare, a) come si possa mantenere un’azione disincentivante anche dopo che uno sciopero si sia verificato e b) come ci si debba comportare nei confronti degli utenti quando sia mancata quella continuità di servizio in nome della quale la tariffa era stata aumentata.
La soluzione del primo problema potrebbe essere l’allungamento dei tempi di maturazione del premio in funzione del ripetersi degli scioperi.
Supponiamo che il premio sia semestrale e che tre mesi dopo l’ultima scadenza si verifichi uno sciopero: un simile evento annullerebbe il premio dell’intiero semestre, ma renderebbe ininfluenti ulteriori scioperi nei tre mesi seguenti.
Il mantenimento di un’azione disincentivante richiede che ogni ulteriore sciopero nel corso del semestre prolunghi il tempo di maturazione del premio successivo (o ne riduca l’entità a parità di tempo di maturazione).
La soluzione della seconda questione dovrebbe essere semplicemente la restituzione agli utenti di quanto avevano pagato per una continuità di servizio che non si è verificata.
Ciò potrebbe avvenire sospendendo per un semestre la maggiorazione tariffaria e cioè riportando il prezzo del servizio al suo livello di partenza e destinando i fondi già raccolti al pagamento del prossimo premio. La mancata osservanza della clausola di non-sciopero porrebbe qualche problema amministrativo e implicherebbe qualche costo (fare coincidere le scadenze degli abbonamenti con quelle di pagamento del premio, evitare che si abbiano incette di biglietti nell’imminenza di una reintroduzione della sovratariffa).
Ancora più delicati i problemi che si porrebbero quando le astensioni dal lavoro interessino solo una parte dei lavoratori (in questo caso il rimborso del premio sarebbe solo parziale).
La portata di questi problemi non va trascurata, ma neppure sopravvalutata, e soprattutto occorre tenere presente che si
verificano solo se viene mancato l’obiettivo prioritario di scongiurare completamente gli scioperi. Il loro verificarsi è reso meno probabile da un rafforzamento del meccanismo disincentivante e cioè da un aumento dei premi.

Chi gestisce il premio

Essenziale per il funzionamento dello schema è che le aziende erogatrici non possano in alcun modo disporre dei fondi accumulati (ma siano semplicemente incaricate della loro riscossione) e che la stessa determinazione e destinazione del premio sia mantenuta al di fuori della sfera della negoziazione salariale.
Titolare dello schema dovrebbe essere un ente autonomo ad hoc che motu proprio si impegni a pagare certe somme alle parti interessate (lavoratori e azienda) qualora sia stata rispettata la continuità del servizio e che, in assenza di quest’ultima, non possa fare altro che restituire agli utenti le somme precedentemente incassate.
Se queste condizioni fossero soddisfatte, i) l’azienda e i lavoratori non avrebbero alcuna possibilità di appropriarsi delle somme raccolte (per esempio, portando il premio nella retribuzione base); ii) lo schema rappresenterebbe l’atto unilaterale di un soggetto terzo rispetto alle parti negoziali, con le quali non sarebbe necessaria alcuna trattativa e delle quali non occorrerebbe il consenso, essendo la semplice volontà politica dell’organo (Stato, comune) competente in materia sufficiente per la sua introduzione (ed eventuale revoca); iii) non si avrebbe alcuna modifica dei doveri o dei diritti delle parti, compreso il diritto di sciopero, del quale i lavoratori conserverebbero la piena titolarità e al quale sarebbe semplicemente associata una gamma di possibili utilizzi (con possibili effetti di tipo finanziario e non solo come strumento negoziale) più varia e complessivamente più favorevole di quella attuale.

Dopo gli scioperi

15 Gennaio 2004
Andrea Boitani

I trasporti pubblici locali (Tpl) sono finiti sulle prime pagine dei giornali per l’improvvisa esplosione di scioperi selvaggi che hanno paralizzato molte città e, in particolare, Milano.
I lavoratori e i sindacati intendevano così costringere le aziende a rispettare un contratto nazionale firmato due anni fa, che prevedeva aumenti salariali differiti nel tempo, e ottenere ulteriori integrazioni a livello aziendale.
Le modalità degli scioperi hanno spinto
Pietro Ichino a riproporre, proprio su lavoce.info, la via dello sciopero virtuale, in termini perfettamente condivisibili.
Ma nei trasporti pubblici locali non c’è soltanto una questione di relazioni industriali problematiche.

Contratti, risorse e costi

Il contratto nazionale vigente prevede aumenti condizionati al finanziamento delle Regioni e dello Stato.
Il Tpl, infatti, è un settore fortemente sussidiato: in media le aziende coprono circa il 30 per cento dei costi con i ricavi da traffico (Milano quasi il 40 per cento). Dal 1996 in poi, i sussidi sono cresciuti del 6 per cento, cioè meno dell’inflazione (17 per cento); quindi il loro valore reale si è ridotto.
Le tariffe sono decise dalle Regioni, su proposta dei comuni, in base a considerazioni di tipo politico, cioè senza particolare attenzione al rapporto ricavi-costi. Milano ha portato la tariffa ordinaria a 1 euro con l’introduzione della moneta unica; Roma lo ha fatto solo nell’ottobre del 2003; in molte città siamo ancora a 77-80 centesimi. Le tariffe italiane (specialmente gli abbonamenti) sono significativamente più basse che nella media europea. Conseguentemente, più alti sono i sussidi pubblici, anche perché i costi non sono affatto più bassi della media europea. Si pensi che se l’Ataf di Firenze avesse avuto nel 1999 gli stessi costi unitari della First Mainline di Sheffield (un’azienda comparabile per dimensioni del servizio offerto) avrebbe avuto un avanzo di circa 7,5 milioni di euro invece che sussidi e deficit per complessivi 45 milioni. E ciò senza aumentare le tariffe.
Poiché oltre il 70 per cento dei costi del Tpl è rappresentato dal costo del lavoro, è evidente che ogni aumento salariale è destinato a incidere non poco sui conti delle aziende.

I salari degli autoferrotranvieri

Non sono disponibili dati attendibili sulle retribuzioni degli autoferrotranvieri a livello nazionale.

La principale associazione imprenditoriale del comparto (Asstra) non permette ai non associati di accedere alle informazioni presenti nel suo portale, peraltro non recentissime.
Tuttavia, l’Atm di Milano ha rivelato che i suoi dipendenti assunti prima del 27-4-2001 percepiscono uno stipendio annuo medio lordo di 29.700 euro (netto 20.900), con un costo per l’azienda di 40.600 euro annui. Per i macchinisti delle metropolitane si sale a 34.000 euro lordi con un costo per l’azienda di 46.500 euro. I dipendenti assunti con contratti di formazione lavoro (il 9 per cento del totale) percepiscono uno stipendio lordo di 18.200 euro nei primi due anni e di 24.400 a regime. A tali salari sono da aggiungere i compensi per gli straordinari, cioè per le ore di lavoro che eccedono le 36 settimanali (30 e 14 minuti di guida effettiva per i mezzi di superficie; 27 e 40 minuti per le metropolitane).
Il sindaco di Milano, Gabriele Albertini, ha commentato questi dati sostenendo che si tratta di retribuzioni superiori a quelle di poliziotti e carabinieri. Credo siano superiori anche a quelle di postini, operai metalmeccanici, insegnanti di scuole elementari e medie, eccetera. Il che non significa che si tratta di retribuzioni elevate, ma forse, in questi mesi, si è esagerato il disagio degli autoferrotranvieri, almeno in termini relativi.
E si è sottovalutato il rischio di “contagio” di ogni cedimento alle richieste sindacali nel Tpl.

Chi dovrebbe finanziare il Tpl

Pur con qualche eccezione, come l’Atm di Milano, oggi, le aziende non hanno le risorse per onorare e men che meno per integrare i contratti nazionali.
L’Atm ne ha la possibilità perché ha beneficiato di tariffe più elevate per due anni, perché a Milano il trasporto pubblico serve una quota degli spostamenti più elevata che in altre grandi città e perché la Regione Lombardia fornisce un contributo per unità di prodotto (vettura-km) sensibilmente più elevato di quello fornito da altre Regioni.
Stando alla normativa vigente e al Titolo V della Costituzione, le risorse devono metterle i soggetti responsabili della programmazione e dell’organizzazione del settore, cioè le Regioni e i comuni. Non lo Stato. Le Regioni possono alzare le accise sugli olii minerali. E lo possono fare dal 1996. Ma non l’hanno fatto.
Regioni e comuni possono aumentare le tariffe: pochissimi l’hanno fatto. Però hanno invocato l’intervento dello Stato, del tutto incompetente in materia. E l’hanno ottenuto, con l’accordo di dicembre. Un accordo che, sebbene meno generoso di quanto Regioni, comuni e aziende sperassero, ha rimesso lo Stato in un gioco in cui non dovrebbe essere, riproponendo un sistema di finanza derivata che nel settore ha già prodotto disastri in passato.

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La concorrenza che non c’è

Regioni e comuni avevano (dal 1997) la possibilità di utilizzare un potente strumento per ridurre i costi: la concorrenza, almeno nella forma di gare per l’affidamento del servizio (a Londra, in quindici anni di gare, i costi unitari del trasporto su autobus si sono ridotti del 50 per cento).
Poche Regioni lo hanno utilizzato e con il freno tirato, cioè dopo aver varato leggi iper-protettive nei confronti dei lavoratori delle attuali aziende monopoliste. Solo Lombardia e Liguria hanno già concluso molte gare, ma sono rimaste fuori (per ora) Milano e Genova, cioè proprio le realtà più complesse (e conflittuali).
I risparmi ottenuti non sono stati finora eccezionali, per i troppi vincoli imposti. (1) Ma, almeno, i comuni che hanno aggiudicato il servizio tramite gara si sono messi al riparo dai possibili disavanzi futuri delle aziende.

Certamente anche Governo e Parlamento hanno le loro responsabilità. La lunga e confusa vicenda della contro-riforma dei servizi locali (vedi “La difficile marcia verso il mercato” e “Riforme e controriforme“) non ha certo contribuito alla chiarezza politica e normativa. Tuttavia, nulla vietava alle Regioni e i comuni di bandire le gare, se volevano. Il problema è che, in buona misura, non volevano. E non volevano neanche molti manager delle aziende, che forse non riuscivano a vedere come la minaccia concorrenziale li avrebbe aiutati nelle relazioni industriali. Chissà se dopo un dicembre e un gennaio decisamente neri cambieranno idea?

Resta comunque un problema. Perché un ordinato ed efficace sistema di gare possa essere messo in piedi è necessario che ai vincitori non sia imposta la riassunzione di tutto il personale delle perdenti. Ma ciò significa possibilità di licenziamenti. È allora necessario pensare presto all’introduzione di un normale (e possibilmente non distorsivo) sistema di ammortizzatori sociali.

Un problema comune a molti altri servizi di trasporto pubblico nel passaggio dal monopolio a un regime, almeno parzialmente, concorrenziale.


(1)
Si veda A. Boitani, C. Cambini, “Le gare per i servizi di trasporto locale in Europa e in Italia: molto rumore per nulla?”, Torino, Hermes Ricerche, 2003.

Scioperi e impunità

Roberto Perotti

Nella sua interessante analisi dello sciopero del 1 dicembre degli autoferrotranvieri milanesi, Pietro Ichino avanza una proposta innovativa e coraggiosa con lo scopo di fornire alle parti in causa una via di uscita meno distruttiva in occasione di future negoziazioni. Come egli riconosce, la proposta è utopistica; ma proprio per questo va applaudita.

Vi sono, tuttavia, alcuni importanti elementi a mio avviso non condivisibili, sia nell’analisi dello sciopero degli autoferrotranvieri di Milano, sia soprattutto nelle conseguenze che Pietro Ichino ne trae.

Lo sciopero degli autoferrotranvieri: gli aspetti economici

Il danno a terzi. Pietro Ichino sostiene che i cittadini sono stati coinvolti in “modo barbaro”, che è stata loro tesa “un’imboscata”, e che è stato violato “il loro diritto al lavoro e al movimento”. Di conseguenza, l’attuale meccanismo negoziale sarebbe iniquo e irrazionale, “perché fa pesare sull’accordo contrattuale la minaccia di un danno ingiusto a terzi”.

Tutti gli scioperi arrecano danni a terzi: quando sciopera(va)no gli operai della Fiat, ne vanno (andavano) di mezzo non solo la famiglia Agnelli, ma anche i piccoli risparmiatori che hanno investito in azioni dell’azienda. Quasi tutti gli scioperi ledono qualche diritto, se inteso in senso molto lato: gli scioperi degli insegnanti ledono il diritto all’istruzione, pagato dal contribuente con le proprie tasse; gli scioperi degli operai della Fiat ledono il diritto al lavoro delle ditte fornitrici. Anche la proposta di Pietro Ichino recherebbe danni al cittadino, il quale prima o poi dovrebbe pagare, come contribuente, la somma rilevante versata dall’Atm nel fondo cogestito; e lede un principio elementare dell’imposizione, secondo cui lo Stato può imporre tasse ai cittadini solo in contropartita di servizi che offre.

La razionalità dello sciopero. Non si tratta però soltanto di vedere quale delle due soluzioni – lo sciopero reale o quello virtuale – arrechi meno danni al cittadino; ma anche quale sia più efficace per gli scioperanti.
Gli autoferrotranvieri hanno diritto come tutti gli altri cittadini ad attuare le azioni più efficaci dal loro punto di vista. Come in tutti i servizi pubblici, ciò che rende un’azione efficace è esattamente il danno immediato che arreca alla cittadinanza. Come hanno dimostrato i fatti successivi allo sciopero, la controparte degli autoferrotranvieri ha interesse a evitare una rivolta dei pendolari – le elezioni esistono per questo. Probabilmente non avrebbe altrettanto interesse a evitare di versare somme rilevanti in un fondo cogestito: gli effetti sul contribuente si faranno sentire molto più tardi, e in ogni caso è probabile che il debito sia ripianato da Roma. Uno sciopero che non arreca danni immediati è un’arma inutile.

Gli autoferrotranvieri hanno semplicemente fatto quello che tutti noi faremmo se ritenessimo, a torto o a ragione (in questo caso, sembra a ragione, date le informazioni disponibili sulla mancata attuazione del contratto), i nostri diritti violati persistentemente dalla controparte negoziale: attueremmo forme di lotta via via più dure; e quando fossimo totalmente esasperati, attueremmo le azioni più drastiche che sappiamo esserci consentite, di diritto o di fatto.

L’area di impunità del settore pubblico

Inveire contro gli autoferrotranvieri quindi non serve a nulla. Tocca allo Stato, inteso come rappresentante dei cittadini, far rispettare i limiti che la società, e le parti stesse, hanno posto all’esercizio legale del diritto di sciopero. Questo è precisamente il punto che, sorprendentemente, Pietro Ichino non menziona. Ciò che ha esasperato gran parte della cittadinanza non è stato lo sciopero in sé, ma il fatto che sia stato anticipato di un’ora e mezza e poi continuato oltre l’orario inizialmente previsto. Mentre lo sciopero come inizialmente annunciato era perfettamente legittimo e forse anche condividibile, lo sciopero come è stato attuato era semplicemente illegale.

Ma il contratto degli autoferrotranvieri, a cui avevano aderito anche le organizzazioni che hanno poi votato per estendere lo sciopero, prevede sanzioni risibili e difficilmente erogabili nel caso di una violazione delle sue norme come quella avvenuta a Milano. E siamo tutti abbastanza adulti per sapere benissimo che, nonostante qualche piccolo movimento della Procura, nessun dipendente dell’Atm subirà alcuna conseguenza per l’illegalità dell’atto compiuto. Il dibattito successivo allo sciopero ha fatto emergere un punto inequivocabilmente: quand’anche fosse intenzionata a farlo, l’amministrazione pubblica sarebbe di fatto impotente a fare rispettare le regole firmate da tutti. E senza sanzioni, appena una parte avrà interesse a violare gli accordi, lo farà; esattamente come tutti noi protestiamo contro chi parcheggia in sosta vietata sotto casa nostra, ma sappiamo sempre darci una buona scusa per parcheggiare in sosta vietata sotto casa altrui se siamo certi che non passeranno vigili.

Ecco perché, a mio parere, la lezione da trarre dallo sciopero di Milano è ben diversa da quella che ne trae Pietro Ichino. Lo sciopero ha messo definitivamente in risalto un problema fondamentale in tutto il settore pubblico italiano, che prima o poi bisognerà avere il coraggio di affrontare: l’area di sostanziale impunità di comportamenti illegali.

Quest’area comprende l’episodio milanese, ma va ben al di là. Per ovvi motivi, è difficile ottenere cifre e statistiche sull’argomento. Ma tutti noi sappiamo di insegnanti assenteisti cronici che sono di fatto non perseguibili, di infermieri accusati di maltrattamento ad anziani in ricoveri pubblici che sono di fatto inamovibili, di impiegati degli aeroporti che per mesi possono continuare impunemente a rubare bagagli, e di agenti della finanza corrotti che continuano a imperversare.

Tutti questi casi hanno un denominatore comune. Ma l’area di impunità esiste nel settore pubblico anche perché i sindacati hanno esteso una protezione indiscriminata, con il consenso della controparte, l’amministrazione statale, che mirava così a garantirsi un minimo di pace sociale. Le garanzie, di diritto e di fatto, sono così forti da rendere la probabilità di successo di un’azione giudiziaria troppo bassa perché valga la pena di iniziarla o di combatterla con convinzione; e questo soprattutto quando il sindacato fa quadrato intorno al dipendente pubblico, come troppo spesso avviene.

E in tutti questi casi, a farne le spese sono i cittadini più deboli e indifesi, questa volta sì in modo barbaro e indiscriminato. Ma non è per avvantaggiarsi dei più deboli che è nato il sindacato.

 

 

La replica di Pietro Ichino

Pietro Ichino

La differenza più rilevante tra lo sciopero dei tranvieri e quello degli operai della Fiat sta nel fatto che, se la “Panda” non viene consegnata, o costa più cara, il cliente può comprare una Renault o una Volkswagen.
È soltanto nel regime di monopolio – tipico dei servizi di trasporto pubblico – che lo sciopero produce una esternalità negativa ineliminabile per i terzi, mentre paradossalmente non danneggia la controparte aziendale.

Consenso e comportamenti antisindacali

Sulla questione dell’efficacia delle forme di lotta sul piano politico generale e dei rapporti con l’opinione pubblica, osservo poi che nella società dell’informazione lo sciopero virtuale costituisce un’arma di lotta potenzialmente molto più efficace dello sciopero tradizionale. Si dice: “lo sciopero illegale del primo dicembre era l’unico modo per farsi sentire, per ottenere la visibilità che in quel modo i tranvieri hanno ottenuto”. Certo: una visibilità pesantemente negativa, che li ha isolati gravemente dal resto della cittadinanza. Proviamo a pensare alla visibilità positiva che essi avrebbero potuto ottenere ingaggiando i migliori professionisti della comunicazione e inondando con il loro messaggio i maggiori canali televisivi, le pagine dei maggiori quotidiani, le stazioni della metropolitana e le fermate dei tram: “Oggi siamo in lotta per questo e questo motivo, ma vi garantiamo il servizio lavorando senza retribuzione: chiediamo il vostro appoggio”.

Quanto all’efficacia dello sciopero virtuale nei confronti della controparte aziendale, osservo che se questa si azzardasse a non pagare immediatamente ciò che è dovuto al Fondo cogestito, si renderebbe responsabile di comportamento antisindacale, sanzionabile in tempi brevissimi mediante la procedura giudiziale prevista dall’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori. E sborsare sull’unghia il doppio o il triplo degli stipendi non è costo che un’azienda municipale possa affrontare a cuor leggero.

La cultura della legalità

Infine, sulla difficoltà di sanzionare i comportamenti illegali di massa, concordo con Roberto Perotti. Il fatto è che in un regime democratico la cultura delle regole, della legalità, dovrebbe costituire patrimonio essenziale del movimento sindacale: un patrimonio da difendere con intransigenza anche e soprattutto di fronte a una controparte che non rispetta le regole.

Il diritto (e in questa nozione colloco anche la legge sullo sciopero nei servizi pubblici) serve prevalentemente a proteggere i più deboli. Con l’illegalità, come insegnava Giuseppe Di Vittorio, i lavoratori in lotta possono forse conseguire qualche piccolo vantaggio nell’immediato, ma sulla distanza sono perdenti.


Sciopero virtuale, una scelta di civiltà

Pietro Ichino

Se, come pare, il primo dicembre scorso, a causa dello sciopero totale a sorpresa dei mezzi pubblici, sono stati 150mila i milanesi che non sono riusciti a recarsi al lavoro e sono stati dieci volte tanti i milanesi che hanno perso due ore di lavoro, la perdita complessiva subita dalla città, senza contare le altre componenti del danno, ammonta a non meno di 60 milioni di euro.

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Accordi convenienti e accordi equi

Il motivo dello sciopero è costituito da una differenza di circa cento euro lordi di stipendio mensile, corrispondenti a un costo aziendale di centocinquanta euro. Moltiplicati per i novemila autoferrotranvieri milanesi e per i due anni di vigenza della parte economica del contratto collettivo di cui si discute, fanno circa 45 milioni.
Tirate le somme, nella sola giornata di sciopero a sorpresa del primo dicembre, la città di Milano ha sopportato un danno superiore al beneficio totale che i suoi autoferrotranvieri stanno rivendicando (la sproporzione è, per lo più, molto maggiore nel caso dello sciopero di altre categorie-chiave del trasporto pubblico, come i controllori di volo). Se poi si considera che lo sciopero del primo dicembre era l’ottavo della serie, nell’ambito di questa vertenza contrattuale, si potrebbe concludere che firmare subito un accordo (magari soltanto regionale o aziendale) senza scioperi, accogliendo fin dall’inizio integralmente la rivendicazione dei lavoratori, sarebbe stato conveniente per tutti.

Conveniente, anche se non necessariamente equo, come non è necessariamente equo l’esito incruento di una trattativa condotta sotto la minaccia di una pistola puntata. Beninteso, non voglio dire affatto che sia iniquo quanto oggi gli autoferrotranvieri rivendicano, soprattutto in riferimento al costo della vita milanese; voglio solo dire che questo meccanismo negoziale non dà alcuna garanzia di equità; anzi è gravemente irrazionale, poiché fa pesare sull’accordo contrattuale la minaccia di un danno ingiusto a terzi.

D’altra parte, al tavolo delle trattative non siedono i rappresentanti della collettività, cui quella minaccia è rivolta, ma i rappresentanti delle aziende dei trasporti municipali. E nelle giornate di sciopero queste aziende non soltanto non subiscono un danno, ma addirittura guadagnano. Perdono soltanto il ricavo della vendita dei biglietti di corsa singola, che costituisce solitamente una parte molto modesta delle loro entrate; non perdono invece il ricavo degli abbonamenti, né il contributo pubblico periodico che copre il deficit di bilancio. Viceversa, risparmiano stipendi, carburante e usura dei mezzi. In altre parole, paradossalmente, lo sciopero degli autoferrotranvieri fa bene al bilancio delle loro aziende. Così stando le cose, non c’è da stupirsi che le trattative sindacali ristagnino.

Nello sciopero dei trasporti pubblici c’è questo elemento di anomalia: la sua efficacia sta tutta nel danno enorme inferto a soggetti terzi, agli utenti; non in un danno inferto alla controparte datrice di lavoro, quella che siede al tavolo delle trattative. Logica vorrebbe che, stando così le cose, al tavolo delle trattative sedesse il sindaco; anzi, il ministro del Bilancio, finché i soldi per pagare gli autoferrotranvieri, in ultima analisi, vengono da lui. Si eviterebbe almeno il gioco dello scaricabarile a cui si assiste in questi giorni circa la responsabilità del trascinarsi inconcludente delle trattative.

La soluzione razionale

Ma la soluzione più razionale del problema sarebbe un’altra: si chiama “sciopero virtuale” e si basa su di un accordo preventivo tra sindacati e imprese del settore per garantire la continuità del servizio durante gli scioperi, rinunciando i lavoratori ai loro stipendi e impegnandosi l’azienda a pagare il doppio o il triplo degli stipendi stessi a un fondo cogestito per opere di pubblica utilità.
Così davvero lo sciopero costa caro all’azienda dei trasporti; i lavoratori possono dunque esercitare una forte pressione su di essa in modo diretto, e non in modo indiretto col prendere in ostaggio la cittadinanza. Una parte consistente del fondo cogestito, finanziato in questo modo, deve essere posto a disposizione di ciascuna delle parti contendenti per la realizzazione delle rispettive campagne di informazione dell’opinione pubblica circa i motivi del contendere: possono essere realizzati spot televisivi, utilizzate pagine intere di quotidiani, distribuiti messaggi ai viaggiatori, per conquistare l’appoggio della cittadinanza. Questa viene così coinvolta ancora nella vertenza, ma non nel modo barbaro in cui essa è stata coinvolta a Milano lunedì scorso, cioè col tenderle un’imboscata, col violare il suo diritto al lavoro e alla libertà di movimento, bensì nel modo civilissimo che è proprio dei lavoratori che sanno battersi per i propri interessi senza ledere quelli di altri lavoratori.
Non è necessario che, con l’accordo istitutivo di questa forma di lotta, il sindacato rinunci al proprio diritto di proclamare anche uno sciopero tradizionale. Basta prevedere la possibilità dello sciopero virtuale e stabilirne preventivamente l’opportuno regolamento. Sarà questa forma di lotta alternativa, poi, ad affermarsi da sola, per la sua maggiore efficacia nei confronti dell’azienda e per la straordinaria possibilità che offrirà ai lavoratori di stabilire un rapporto positivo con la cittadinanza.

Un seme di speranza

Certo, può apparire ingenuo e persino un po’ ridicolo proporre un salto in avanti di civiltà come quello dello sciopero virtuale, in un contesto quale quello italiano attuale, nel quale egoismi, particolarismi e faziosità prevalgono a tutti i livelli, la cultura della legalità è rinnegata persino ai vertici dello Stato, gli indici della coesione sociale sono in costante ribasso. Ma, proprio perché questa è la triste congiuntura civile che stiamo attraversando, avrebbe un grande significato che proprio in questo momento una o più tra le confederazioni sindacali maggiori sottoscrivessero con una o più aziende di trasporto municipale un accordo sulla possibilità dello sciopero virtuale. Non rinuncerebbero a nulla: lancerebbero soltanto un segnale di speranza. Getterebbero un seme, nella fiducia che col tornare della buona stagione esso potrà germogliare e dare frutti.

Un esempio di accordo

Pietro Ichino
11 Dicembre 2003

IPOTESI DI ACCORDO COLLETTIVO AZIENDALE
SULLO SCIOPERO VIRTUALE

Oggi, … … 2003, tra
– la Società … (da qui innanzi indicata come “l’Azienda”), e
-le Organizzazioni Sindacali …, …, … (da qui innanzi indicate come “le Organizzazioni Sindacali”)
si è convenuto quanto segue.


1. Le Organizzazioni Sindacali firmatarie del presente accordo si riservano la facoltà di proclamare, senza alcuna limitazione temporale, lo sciopero virtuale.
Si intende per sciopero virtuale, ai fini del presente accordo, quello che, senza produrre alcuna sospensione della prestazione lavorativa né alcun pregiudizio alla normale funzionalità del servizio, comporta:

a. la cessione, da parte del lavoratore che vi aderisce, del proprio credito retributivo corrispondente alla durata dello sciopero stesso al Fondo di cui al punto 5; nella determinazione del suddetto credito non si computano gli elementi di retribuzione differita (mensilità aggiuntive, trattamento di fine rapporto);

b. l’obbligo a carico dell’Azienda di effettuare il pagamento in favore del Fondo di cui al punto 5 dell’importo ceduto dal lavoratore, più un importo di pari entità;

c. la destinazione delle somme che in tal modo si saranno rese via via disponibili, per la realizzazione di iniziative di progresso civile o per scopi di solidarietà sociale;

d. la pubblicazione, a cura e spese del Fondo di cui al punto 5 – su due quotidiani con diffusione nella zona per la quale lo sciopero è proclamato (scelti di volta in volta dal Comitato di Gestione del Fondo) – di una inserzione predisposta dalle Organizzazioni Sindacali proclamanti, nella quale saranno esposti i motivi dell’agitazione, nonché di una inserzione dell’Azienda, nella quale sarà esposta la sua posizione al riguardo. In entrambe le suddette inserzioni verrà dato conto della destinazione delle somme cedute dai lavoratori e di quelle aggiuntive versate dall’azienda, in conseguenza dello sciopero virtuale.

2. I contributi previdenziali corrispondenti alla retribuzione ceduta dal lavoratore aderente allo sciopero vengono regolarmente versati dall’Azienda all’Istituto previdenziale competente, previa trattenuta, dall’importo versato al Fondo, della quota gravante sul lavoratore.

3. Lo sciopero virtuale può essere proclamato da una o più Organizzazioni, in riferimento alla generalità dei lavoratori dell’Azienda o a una parte determinata di essi. La proclamazione deve avvenire, mediante comunicazione ai lavoratori interessati e alla Direzione aziendale, con almeno dieci giorni di anticipo rispetto alla data in cui lo sciopero produce gli effetti di cui al punto 1.
Lo sciopero virtuale può essere proclamato in corrispondenza o no con la proclamazione, da parte di altre Organizzazioni, dello sciopero nella sua forma tradizionale, comportante l’astensione dal lavoro.

4. I lavoratori che intendano aderire allo sciopero virtuale devono darne comunicazione alla Direzione aziendale, di regola con almeno sei giorni di anticipo rispetto alla data per la quale esso è proclamato. La comunicazione può essere data in forma scritta, oppure in forma telematica, secondo le modalità che saranno definite mediante apposito protocollo concordato tra l’Azienda e le Organizzazioni Sindacali firmatarie del presente accordo.
L’adesione allo sciopero virtuale comporta l’accettazione, da parte del lavoratore, di tutti gli effetti di cui al punto 1.

5. Presso la Direzione dell’Azienda è costituito un Fondo denominato “Fondo di solidarietà”, alimentato dai versamenti di cui al punto 1, lett. a e b, che saranno effettuati mediante accredito su di un apposito conto corrente bancario.

6. La gestione del Fondo è affidata a un organo collegiale denominato Comitato di Gestione, composto da
-un membro designato da ciascuna delle Organizzazioni Sindacali firmatarie del presente accordo;
– un membro designato dall’Azienda, il quale disporrà di tre voti qualora le Organizzazioni Sindacali firmatarie siano almeno quattro, due voti qualora le Organizzazioni Sindacali firmatarie siano almeno tre, un voto qualora le Organizzazioni Sindacali firmatarie siano meno di tre.
Il Comitato elegge nel proprio seno il Presidente, cui compete l’esecuzione delle delibere.

7. Il Comitato di Gestione del Fondo delibera, con la maggioranza semplice dei voti espressi dai partecipanti alla seduta, la destinazione delle somme che si saranno rese via via disponibili, nel rispetto di quanto disposto al riguardo nel punto 1, lett. c e d.

Il Presidente dà esecuzione alle decisioni del Comitato disponendo del conto corrente bancario di cui al punto 5 mediante firma congiunta con il rappresentante dell’Azienda nel Comitato di Gestione.
Il rappresentante dell’Azienda nel Comitato di Gestione può rifiutare la propria firma sull’atto di disposizione soltanto nel caso in cui esso tenda a finalità differenti rispetto a quelle tassativamente indicate nel punto 1, lett. c e d. Ogni controversia in proposito è risolta entro trenta giorni con lodo inappellabile da un arbitro unico designato dal Presidente della Sezione Lavoro del Tribunale territorialmente competente, senza altro vincolo di procedura se non quello di sentire, in contraddittorio tra di loro, tutti i membri del Comitato di Gestione. Le spese dell’arbitrato sono poste a carico del Fondo.

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Dibattito sull’Iit

  1. Armando Tursi

    Nei commenti della stampa e in quelli “a caldo” della dottrina, la vicenda degli scioperi selvaggi degli autoferrotranvieri milanesi viene prevalentemente affrontata a partire, ora, dal dato della loro “illegalità non sanzionata”, ora da quello della “sproporzione” tra i termini strettamente sindacali del problema e i danni inferti alla collettività.
    Si dibatte molto meno della preoccupante incapacità dei sindacati confederali (e non solo) di rappresentare effettivamente i propri iscritti, attuali o potenziali.
    Eppure, l’impressione che emerge da questa vicenda (e da altre che – a quanto sembra – covano sotto la cenere), è che ai sindacati maggiormente (adesso si dice “comparativamente più”) rappresentativi farebbe bene un’iniezione di sano sindacalismo “bread and butter”, anche a costo di rinunciare a qualche scampolo di “concertazione”, praticata o nostalgicamente evocata che sia.
    Forse, se le richieste degli autoferrotranvieri fossero state appoggiate con maggiore convinzione e durezza al “tavolo negoziale” da parte dei sindacati di categoria – nel pieno rispetto, benintenso, delle regole sullo sciopero nei servizi essenziali – , il loro mancato accoglimento non avrebbe provocato reazioni così violente e scomposte da parte dei lavoratori. Invece, i lavoratori sono convinti che non tutto è stato tentato, e che i loro rappresentanti sindacali abbiano per l’ennesima volta anteposto la “concertazione” alla “contrattazione”. Sarà, questo, un modo superficiale e riduttivo di leggere il problema, ma è il modo in cui esso viene percepito sia dai lavoratori interessati, che dalla gente comune.

    Due osservazioni finali.
    La prima: il problema della ricucitura del rapporto con la cd. “base” non si risolve adottando meccanismi di tipo maggioritario/referendario che rendano vincolanti gli accordi sindacali anche per i dissenzienti: questo va bene quando c’è da costruire il consenso su decisioni politiche, e dunque quando c’è da produrre “norme” e “leggi”; non in materia sindacale, che dovrebbe essere invece in regno delle “autonomie” (l'”autonomia collettiva”, come dicono i giuristi).
    Se il contratto nazionale degli autoferrotranvieri fosse stato approvato da sindacati formalmente rappresentativi della maggioranza dei lavoratori iscritti (si noti che gli attuali sindacati confederali sono già rappresentativi della maggioranza degli iscritti, e di una quota assolutamente significativa di tutti i lavoratori), cambierebbe forse qualcosa nella vicenda in corso ? Avremmo, semplicemente, una ragione in più per affermare che la rivendicazione in atto è “illegale”; ma nessuno dubita, già adesso, che lo sia.

    E vengo alla seconda osservazione: se vogliamo affrontare la questione a partire dal dato dell’illegalità, essa è semplice e può limitarsi a constatare che nella legge vigente esistono due gravi lacune, sotto il profilo sanzionatorio.
    La prima lacuna: è vietato licenziare i lavoratori che scioperino in violazione delle regole sullo sciopero nei servizi essenziali; il massimo che si possa fare, è irrogare una sanzione disciplinare, che può consistere, nella peggiore delle ipotesi, nella sospensione dal lavoro e dalla retribuzione fino a 10 giorni. Ché è un pò come infliggere bacchettate a chi si sta autofustigando.
    La seconda lacuna: disubbidire alla “precettazione” -ossia all’ordine del prefetto di riprendere il lavoro, quando sussista il “pericolo di un pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati” – non è un reato, ma un’infrazione amministrativa, punibile con una sanzione pecuniaria, della cui effettività è legittimo dubitare.
    Il fatto è che la precettazioe dovrebbe essere un rimedio di assoluta emergenza, come tale adeguatamente sanzionato. Invece, sta di fatto diventando il modo ordinario di gestire il conflitto nei servizi essenziali, ed è proprio per questo irrealistico pensare di poterlo munire di un sistema sanzionatorio adeguatamente severo.

    Armando Tursi

    Milano, 13.1.2004

  2. Dorigo Giacomo

    Sia come lavoratore nel servizio pubblico, che come fruitore di esso, trovo la proposta di Ichino molto interessante, purchè l’azienda paghi un multiplo della retribuzione cui rinuncia il lavoratore (almeno due visto che il lavoratore rinunica ad una giornata di stipendio e contemporanenamente lavora una giornata). Ho letto le critiche alla proposta, alcune sono interessanti ma ritengo non mettano veramente in crisi l’idea di fondo. C’è quindi un solo modo per stabilire chiarmanente se il sistema funziona o no: attivare una sperimentazione. Magari cominciando da alcune città campione.

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