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PER UNA RIFORMA RADICALE DELL’UNIVERSITÀ

Il sistema universitario italiano non è più riformabile. Serve un cambiamento globale che spazzi via concorsi, valore legale della laurea, accesso gratuito, finanziamento assicurato e posto a vita per i docenti. Da sostituire con il riconoscimento del ruolo centrale della ricerca e con la consapevolezza che ogni ateneo deve assumersi la responsabilità delle sue scelte didattiche e organizzative. Solo così si svilupperà una competizione capace di premiare i ricercatori e le sedi migliori e garantire più efficienza e più equità. Come già avviene in Gran Bretagna.

Si afferma spesso che il problema principale dell’ università italiana è la mancanza di risorse. Come ho mostrato in un

recente lavoro, i docenti italiani non sono in media meno pagati dei loro colleghi inglesi (si veda Tabella 1); né hanno più studenti da seguire, una volta che si tenga conto che molti studenti italiani non frequentano (si veda Tabella 2) (1). In compenso, sono molto meno produttivi in termini di ricerca (si veda Tabella 3): né potrebbe essere altrimenti, visti i criteri con cui vengono promossi (esempi di questi criteri si possono trovare nel mio Bollettino dei Concorsi: si notino casi particolarmente interessanti di recenti concorsi a professore ordinario in Economia a Roma La Sapienza, Roma III, Napoli Parthenope, Parma, per citarne solo alcuni). Gettare più fondi in questo sistema sarebbe inutile.

Gli obiettivi mancati

Per comprendere le ragioni dell’insuccesso italiano, è utile chiedersi innanzitutto quali siano gli obiettivi di un sistema universitario. Credo tutti siano d’accordo sulla lista seguente: (i) produrre ricerca di qualità; (ii) trasmettere il sapere agli studenti; (iii) garantire l’equità di accesso; (iv) distribuire in modo equo nella società il peso del suo finanziamento. Come abbiamo visto, l’università italiana ha fallito il primo obiettivo; il secondo è molto difficile da valutare, quindi mi astengo da ogni commento. Contrariamente a quanto si crede, e nonostante l’accesso quasi gratuito, essa fallisce anche gli ultimi due obiettivi. All’università vanno soprattutto i figli dei ricchi, ma essa è finanziata con la fiscalità generale. E i poveri devono accettare quello che passa l’università locale, mentre i figli dei ricchi possono sempre supplire con un master a Londra o con l’azienda di papà.

Proposte di riforma ispirate dal modello inglese

Un insuccesso così totale non si risolve con palliativi: il sistema attuale è a mio avviso irriformabile. Il sistema universitario inglese, benché non spenda di più, è molto più produttivo perché basato su incentivi completamente diversi. E, a differenza di quello americano, è completamente pubblico, una caratteristica cui la maggioranza degli italiani non è probabilmente disposta a rinunciare. Ecco una proposta concreta di riforma, ispirata al sistema inglese, ma con un contributo finanziario degli studenti più sostanzioso, e un metodo diverso per garantire l’accesso agli studenti meno abbienti.

(i) Salari individuali liberi e differenziati. Ogni università deve poter offrire un salario più alto a chi fa buona ricerca, indipendentemente dall’ età. In questo momento in alcune università i salari dei docenti sono integrati da premi alla ricerca, ma si tratta di bruscolini: i salari italiani sono di fatto determinati dalla anzianità.

(ii) Ovviamente questo sistema funziona solo se le università sono costrette a guadagnarsi faticosamente i fondi con cui pagare i salari. Ciò può avvenire in due modi. I fondi ricevuti da ogni università devono dipendere dalla qualità della ricerca che essa esprime. La quota dipendente dalla ricerca deve essere consistente, almeno il 30 o 40 percento dei fondi totali; il processo deve essere brutale, cioè escludere le università di bassa qualità; e deve essere credibile, affidandosi per esempio a esperti stranieri per valutare la ricerca. Un sistema con caratteristiche simili funziona egregiamente in Gran Bretagna. Per sgombrare il campo da equivoci: niente di tutto questo avviene in Italia. Si è parlato molto sui giornali italiani delle università italiane premiate dai fondi di ricerca: in realtà, i fondi così allocati sono noccioline, e i criteri utilizzati ambigui. (2)

(iii) Il secondo modo per fare sudare alle università i loro fondi è di mettere gli studenti in grado di “votare con il loro portafogli”. Se gli studenti fossero costretti a pagare di più, porrebbero ulteriore pressione sulle università a competere su ricerca e insegnamento. Ma come attuare questo senza sfavorire i meno abbienti? Un possibile metodo è una variante di quello adottato in Australia. Esso prevede prestiti a studenti con ammontare e restituzione graduata: i meno abbienti ricevono un prestito più alto, e l’ ammontare restituito dipende dal reddito dopo la laurea.

(iv) A sua volta, perché questo sistema funzioni, ogni università deve poter assumere chi vuole, senza concorsi. Non più discussioni infinite se sia meglio il concorso a livello di sede universitaria, e se con uno o due idonei, o il ritorno al mega concorso nazionale: entrambi sono strumenti straordinariamente inefficienti di allocazione delle risorse intellettuali. Non più diatribe a non finire se un professore si meritava il posto o no: anzi, nel nuovo sistema l’università X sarà molto contenta se l’università Y promuove un ignorante, perché così facendo Y perde prestigio, fondi e studenti a favore di X.

(v) Ma finché la laurea ha valore legale, la corporazione dei professori ha il diritto/dovere di controllare che i loro futuri colleghi abbiano i “requisiti necessari” per rilasciarla: questa è la funzione legale dei concorsi. Per abolire i concorsi è quindi necessario abolire il valore legale del titolo di studio. Questa sarà una battaglia difficile. Le corporazioni professionali non sono disposte a rinunciare alla chiave del loro potere: e non a caso la questione non era nemmeno sul tavolo di discussione nella commissione Moratti.

(vi) Una seconda condizione necessaria perché il sistema descritto sopra funzioni è la libertà didattica: ogni università deve poter organizzare i propri corsi come vuole.Niente più diatribe infinite su quale sia il sistema migliore che tutte le università italiane devono adottare: se il 3+2, il 4+1 o 4+3+1+2 di Trapattoni. Ognuno fa quello che vuole, e vinca il migliore. Niente più polemiche sul proliferare di corsi dal titolo (e dal contenuto) surreale: tanto meglio per le università concorrenti. E niente più convegni del CRUI e del CNVSU su come valutare la didattica e confrontare un insegnante di veterinaria di Udine con uno di lettere classiche di Catania: ovviamente non si può fare, ma la buona notizia è che non è necessario.

Si noti la caratteristica cruciale del sistema che ho descritto: ogni università porta le conseguenze delle decisioni che prende. Se un gruppo di baroni nomina professore il figlio del collega (succede ancora) l’ università perde prestigio, fondi legati alla ricerca, studenti e quindi fondi legati agli studenti, Alla fine l’università sarà costretta ad accettare un ridimensionamento, o la scomparsa. Questo è salutare darwinismo accademico: non sta scritto da nessuna parte che tutte le università debbano essere uguali. Alcune sono peggiori di altre, e in casi estremi devono essere lasciate morire.

Il ruolo dell’ establishment universitario

È difficile pensare che le proposte di cui l’università italiana ha bisogno verranno dall’establishment e dai suoi organismi: CRUI, CNVSU, CIVR, CUN (3). Questi organismi sono l’espressione di un sistema inefficiente: essi sono parte del problema, non della soluzione. Per fare un solo esempio: tutte e quattro le grandi sigle dell’establishment universitario hanno iniziato uno, e spesso più di uno, programmi di valutazione della ricerca e della didattica. Molti sembrano essere stati abbandonati; degli altri, è impossibile ricostruire quante risorse ne dipendano. Ma è anche impossibile ignorare come molto spesso i criteri proposti non abbiano niente a che fare con ciò che intendono valutare – la qualità della ricerca; e che a volte essi siano semplicemente bizzarri. Il

sistema elaborato dal CNVSU nel 2001 è basato su due indicatori: “l’indicatore di successo-partecipazione (quanti docenti, relativamente ad ogni ateneo, sono stati finanziati) e l’indicatore di ritorno finanziario (dato dal rapporto tra il finanziamento erogato dal ministero dell’Istruzione, università e ricerca a ciascun ateneo dal 1997 al 2000 e il costo complessivo delle ricerche avviate)”. Uno dei modelli elaborati dalla CRUIinvece si basa su ventidue (!) indicatori, di cui un esempio interessante è il seguente, R12: “Il rapporto tra il numero pesato di unità di personale amministrativo-contabile più tecnici e ausiliari di qualifica minore o uguale al sesto livello e il numero pesato di professori e ricercatori universitari più tecnici di qualifica maggiore o uguale al settimo livello”.

Efficienza ed equità

Ma non per questo bisogna demordere. Caso più unico che raro, per una volta le ragioni dell’efficienza e dell’equità si identificano: rendendo l’università più efficiente, la si rende anche più equa. Ma le riforme parziali, che non spazzino via concorsi, valore legale del titolo di studio, accesso gratuito, finanziamento assicurato, posto garantito a vita, e non introducano un ruolo centrale per la ricerca, non funzioneranno. L’università italiana ha bisogno di una riforma globale, che metta in discussione tutti i suoi aspetti.


Fonte: Roberto Perotti: “The Italian University System: Rules vs. Incentives”


Fonte: Roberto Perotti: “The Italian University System: Rules vs. Incentives”

Fonte: Roberto Perotti: “The Italian University System: Rules vs. Incentives”

Per saperne di più

Roberto Perotti: “The Italian University System: Rules vs. Incentives”, in: “Annual Report on Monitoring Italy 2002”, Istituto di Studi e Analisi Economica (ISAE), Roma 2002

(1) È importante sottolineare che si sta parlando di medie. Ma è nota la tendenza di molti professori ordinari italiani a scaricare l’onere didattico sui ricercatori. È quindi probabilmente vero che i ricercatori italiani (il primo gradino della gerarchia accademica) sopportano una quota del carico didattico totale superiore a quella dei loro colleghi inglesi, e forse sono anche meno pagati.
(2) Si veda anche qui il lavoro sopracitato.
(3) Crui: Conferenza dei rettori delle università italiane
Cnvsu: Consiglio nazionale per la valutazione del sistema universitario
CIVR: Comitato di Indirizzo per la Valutazione della Ricerca
CUN: Consiglio Universitario Nazionale

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sommario 18 novembre 2003

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Proposte di riforma per il Patto

33 commenti

  1. Giovanni Sala

    Perotti: Bella la battuta sul Trap, sarà micca invidia perchè ad Empoli non ne vinci una?

    • La redazione

      Grazie. Ma l’ Empoli nelle ultime due giornate ha vinto con il Parma e pareggiato con il Perugia, facendo piu’ punti della Juve (per i non iniziati, Perotti e’ il nuovo allenatore dell’ Empoli).

  2. Federico Ferro-Luzzi (professore II fascia - IUSN01, Facoltà di Economia, Università degli studi di Sassari)

    Non sono d’accordo praticamente su nulla di quanto detto nell’articolo, tranne la necessità di abolire il valore legale della laurea, in vero il resto verrebbe da se.
    Non sono d’accordo sull’analisi relativa ai non frequentanti, poiché questi poi intasano gli orari di ricevimento (per non dire le mail) del professore, che comunque se ne dovrà fare carico.
    Non sono d’accordo sulla retribuzione “a punti”: chi l’ha detto che un ottimo ricercatore vale di più di un grande didatta?
    Non è vero che solo i ricchi vanno all’università come studenti e che i poveri restano “vicino casa”: basta vedere Roma uno (dove ho fatto, e faccio ancora, il “servo della gleba” al mio Maestro…cosa di cui sono contento poiché sono per la baronia, n.d.r.) per rilevare come oltre la metà degli studenti vengono da regioni anche “lontanissime”.
    La verità è che solo i ricchi possono fare i professori, poiché bisogna essere mantenuti per anni, decenni, prima di essere retribuiti “decentemente” (cosa che, in vero, non avviene mai: per fortuna faccio l’avvocato altrimenti dovrei vendermi gli esami per una vita decente).
    Da ultimo: assolutamente contrario alla “mobilità” (nel senso di un sistema che non contempli l’inamovibilità del professore incardinato).
    La libertà di insegnamento deriva in via esclusiva dalla certezza di non dover compiacere il Consiglio di Facoltà, l’Ateneo, il Ministero, il Governo od altro.
    La notoria conflittualità della categoria (mi riferisco, ovviamente, ai professori) rende assolutamente inipotizzabile un sistema basato sulla incertezza del posto.
    Ho detto, inizialmente, che ero d’accordo solo su di una cosa: ho mentito (l’ho detto: sono un avvocato), sono d’accordo su due.
    Concordo con l’assoluta inutilità della valutazione della Crui (conosco solo questa: sono autovalutatore della mia Facoltà).
    Contrariamente a quanto sostiene questa (crui – riunione dei valutatori) ritengo che una facoltà che laurei il 100% degli iscritti abbia completamente fallito la sua missione.
    Aver fatto laureare, ad esempio, quel 10% che non ha avuto il coraggio di scegliere la facoltà preferita per non far un dispiacere ai genitori (accade ancora, vi assicuro) è un fallimento; aver fatto laureare quel 10% che si iscrive per non andare a lavorare “e vedere di nascosto l’effetto che fa” è un fallimento, etc.
    Tra il serio e il faceto (ma sulla sorte dell’università ritengo sia rimasto, ormai , solo da ridere).
    Federico Ferro-Luzzi

    • La redazione

      Non ho mai proposto una retribuzione a punti, anzi esattamente l’ opposto: ogni universita’ sceglie di retribuire chi vuole quanto vuole. Alcune universita’ possono privilegiare l’ insegnamento e pagare di piu’ dei bravi
      insegnanti, altre la ricerca e pagheranno quindi di piu’ bravi ricercatori. Altre pagheranno di piu’ il figlio dell’ amico e si condanneranno all’ estinzione.
      L’ inamovibilita’ della cattedra c’e’ in tutti i sistemi universitari del mondo. Ma in quelli che funzionano la cattedra a vita (“tenure” nei sistemi anglosassoni) viene concessa solo alle persone che hanno dato buona prova di se’ – in termini di ricerca o di insegnamento, o di entrambi – per parecchi anni.

      Infine, concordo pienamente con la sua affermazione che nell’ universita’ possono insegnare solo i figli dei ricchi, un dato di fatto credo sotto gli occhi di tutti. Ma mi sembra che questo rafforzi la mia affermazione secondo cui l’ universita’ attuale e’ fatta soprattutto per i ricchi.

  3. David Piovano

    Scusate la durezza, ma il Professor Perotti è pazzo?, soffre di una qualche sindrome autolesionista?, ha pronto un biglietto per l’estero?.
    Toccare questi Santuari, suvvia Professore, si dedichi all’analisi economica, ci parli di debito pubblico, citi il fatto che le Università non sono abbastanza finanziate.
    Vabbè, poi ci sono alcune Università non proprio all’altezza, ma si sa, l’Italia è il paese dei mille campanili.
    Piccola esperienza personale. Ho lavorato nell’ufficio Programmazione e Controllo di una grossa Università del nord…
    Ho resistito 10 mesi, poi ho preferito dedicarmi al settore rifiuti. In 10 mesi il lavoro più significativo che ho portato avanti è stata un’analisi dei costi legati ai servizi di portineria delle varie sedi dell’Università (sempre U maiuscola nelle relazioni dott. Piovano, mi raccomando…).
    Consiglio di Amministrazione e Senato Accademico, che per un buffet a margine di convegno spendevano quanto un dipendente di portineria guadagna in un anno si erano messi in testa di “ottenere economia di gestione ottimizzando il servizio di portineria e vigilanza”.
    Saluti Cordiali

  4. bastiano sanna

    Mi chiedo come sia possibile adottare il metodo dei prestiti studenteschi tipico di sistemi anglosassoni (dove i laureati pero’ trovano in fretta un lavoro ben retribuito) nel sistema italiano dove i laureati (di qualsiasi disciplina) stentano a trovare una occupazione (che sara’ probabilmente mal retribuita).
    Cordiali saluti
    Bastiano Sanna

    • La redazione

      Grazie per il commento che aiuta a chiarire un punto importante. E’ esattamente per il motivo da lei esposto che ho proposto un sistema per cui i prestiti vanno restituiti in base al reddito conseguito dopo la laurea.

  5. Carlo Rodini

    Complimenti, sono pienamente d’accordo che il sistema è irriformabile. Il suo progetto è pieno di fiducia ed essa è un sentimento costruttivo. Cordialmente.

  6. rosario NICOLETTI

    Si afferma spesso che il difetto principale dell’università italiana risieda nella nequizia dei professori, e l’articolo non si discosta molto dalla vulgata. Inizierò con il contestare (utilizzando gli stessi dati) la prima delle affermazioni:che l’università non produca buona ricerca.
    Si dice testualmente:”ha fallito il primo obiettivo” che è appunto quello di “produrre ricerca di qualità”. La tabella n.3, che riguarda la ricerca universitaria, va letta per quello che i dati rappresentano, e non per quello che l’autore desidera che rappresentino: sono esposti alcuni numeri aventi già al primo sguardo lo stesso andamento, allo scopo di rafforzare la dimostrazione della solita tesi (professori neghittosi ed incapaci). In realtà, i punti 1,2,3 sono tre modi per esprimere l’identico fatto: la produttività (concetto che nulla ha a che vedere con la qualità) dei docenti italiani è inferiore (metà) a quella dei colleghi inglesi. Il punto 4 ci dimostra invece (al contrario di quanto afferma l’autore) che la qualità (se l’indice scelto è quello adatto, e su questo si può consentire) non è molto dissimile: la differenza tra 4,5 e 3,8 corrisponde a meno del 16%: considerando problemi di lingua e della maggiore circolazione di informazione nel mondo anglosassone la differenza di qualità mi sembra irrisoria. Anzi, può suscitare meraviglia che dopo trenta anni di cattive leggi sull’università, che hanno inciso in modo perverso sul reclutamento, la qualità sia ancora non inferiore a quella di altri paesi.
    Vi sono diverse buone ragioni per giustificare una così rilevante differenza nella produttività scientifica, da tenere però distinta dalla sua qualità. La mia esperienza riguarda “La Sapienza” e può differire da quella di colleghi di altre sedi. I dati presentati nella tabella si riferiscono ad anni piuttosto recenti: dalla metà degli anni ’60 in poi è stato un susseguirsi di leggi e leggine (chiamati talvolta “provvedimenti urgenti”) che hanno allargato i ruoli dei docenti in modo automatico o semiautomatico, senza cioè passare per quei concorsi oggi (giustamente) tanto vituperati. Solo che si confondono i termini: nel passato (oramai lontano) i concorsi erano spesso una cosa seria. Oggi, attraverso un continuo decadimento, e da quando sono diventati “locali”, i concorsi sono semplicemente risibili. Questo ha abbassato la competitività ed ha determinato la consapevolezza che è inutile lavorare e che è meglio occuparsi di politica (magari universitaria) o di sport. Se si è simpatici e ben accetti, un concorso locale ad hoc non mancherà.
    Ma vi è un altro aspetto anche più importante, e che riguarda l’organizzazione della ricerca universitaria. In molte discipline a carattere sperimentale il lavoro è condizionato e poggia su due pilastri: studenti motivati di vari livelli, che preparano le tesi (laurea o dottorato), “borsisti”, in una parola, personale giovane ed organizzazione. Quest’ ultima deve essere una rete che va dalla distribuzione della posta e dei materiali per il laboratorio alla gestione di biblioteche e di apparecchiature anche sofisticate, senza i quali mezzi non è concepibile la ricerca attuale.
    Entrambe questi pilastri sono malfermi: il secondo dovrebbe essere più correttamente considerato inesistente. Per carità di patria non voglio descrivere quel che accade negli attuali Dipartimenti. Posso solo dire che quanto viene fatto di lavoro di ricerca richiede un tempo triplo o quadruplo di quello che sarebbe necessario in un ambiente organizzato. Si comincia con i ritardi della posta (la distribuzione all’interno de “La Sapienza” richiede una quindicina di giorni), e si prosegue provvedendo direttamente a contattare fornitori, tecnici esterni ed a quanto altro è necessario di lavoro ausiliario e di segreteria: all’occorrenza si provvede di persona a sgombrare e riordinare locali. In realtà vi è di che stupirsi se la produttività dei docenti italiani è solo metà di quella dei colleghi britannici.
    Mi spiacerebbe concludere senza una parola sulla proposta dell’autore dell’articolo: liberalizzare selvaggiamente (o se si preferisce completamente) tutto il settore universitario. La proposta ha il suo fascino: ma è indispensabile far notare che i (mostruosi) concorsi, ultima generazione, sono proprio nati dall’idea di mettere in competizione le sedi universitarie. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. L’idea che, in deroga ad usi e costumi secondo i quali gli avanzamenti in carriera ed i guadagni non dipendono mai o quasi mai dai meriti, possa esistere un’isola felice (o infelice?) nella quale la vita è regolata da modelli di vita del tutto estranei (almeno da trenta anni a questa parte), mi sembra un’idea a dir poco bizzarra.
    Vorrei chiudere facendo osservare che per risanare veramente l’università è necessario risanare l’Italia intera. Alcuni semplici regole quali la selezione dei migliori, il riconoscimento dei meriti senza tener conto dello schieramento di appartenenza, la conseguente accettazione dell’autorità, andrebbero ripristinate in tutte le attività del nostro Paese.

    • La redazione

      Lei dipinge un sistema universitario italiano corrotto, inefficiente, quasi caricaturale; allo stesso tempo, sostiene che un sistema cosi’ fallimentare e’ riuscito a produrre costantemente ricerca di livello mondiale. Come e’ possibile? Il solito genio italico, che le difficolta’ ambientali spronano verso sempre piu’ alte vette del sapere umano per mostrare la via del progresso al resto del mondo? Se cosi’ fosse,
      ho una ricetta infallibile per rafforzare ulteriormente il nostro primato nella ricerca mondiale: corrompiamo ancor piu’ il nostro sistema, introduciamo ulteriori distorsioni, per porre ostacoli vieppu’ insormontabili alle giovani menti italiche, che dal rinnovato cimento traggano la linfa spirituale e intellettuale per nuovi ineguagliati traguardi.

      In realta’, l’ affermazione che l’ universita’ italiana produce ricerca di qualita’ comparabile a quella dei migliori sistemi universitari stranieri va contro qualsiasi indicatore disponibile: se non e’ convinto dai miei dati, un recente studi di Confindustria curato da Giulio de Caprariis, e basato su un’ analisi dettagliata delle singole discipline in oltre venti
      paesi, forse la convincera’. La sua affermazione va anche contro la ragionevolezza: quanti economisti, medici o fisici americani vengono a studiare, insegnare o lavorare in Italia, e quanti italiani invece vanno in America? E va contro l’ opinione di tutti gli studiosi del mondo, i quali non si sognerebbero nemmeno un secondo di porre sullo stesso piano il sistema italiano e quelli anglosassoni (eccetto forse in singole discipline come gli studi danteschi o l’ archeologia romana. per ovvi motivi): possibile che tutto il resto del mondo si sbagli?

      Certo, esiste un’ altra possibilita’. Il resto del mondo non si
      sbaglia: semplicemente e’ impegnato in una gigantesca macchinazione: come molti altri in Italia, lei sembra imputare la differenza residua nei risultati della ricerca ad una congiura anglosassone per impedire alla ricerca non scritta in inglese (o non fatta da anglosassoni) di farsi
      valere. L’ importante e’ crederci.

  7. Nicola Bordignon

    Quello che lei descrive (complimenti!) è assolutamente il funzionamento di un sistema privato con attori che sono responsabilizzati su un fine. Ma il fine che riuscirebbe a comprendere tutti quelli da lei menzionati sarebbe il profitto, pur in presenza di contributi pubblici e di finanziamenti al consumatore.
    E allora perchè negare la proprietà privata delle università?
    Se le università fossero private chi sceglie i professori sarebbe un manager licenziabile, chi gestisce l’università un board passibile di azione di responsabilità, chi mette i soldi un azionista con aspettative di ritorno sul capitale investito (esiguo visto che l’università riceve contributi e iscrizioni prima di effettuare i pagamenti e non abbiasogna di grandi infrastrutture – bel business l’università in un mondo competitivo).
    Le università, se mal gestite, non devono solo “sparire” bensì “fallire”.
    E bene parlar chiaro quando si tratta di riforme ambiziose e soprattutto quando ci si attende che i burocrati si trasformino in attori economici responsabili.
    Cordialmente
    Nicola Bordignon

    • La redazione

      Personalmente sono d’ accordo con lei. Non c’e niente di sbagliato, sia economicamente sia eticamente, nell’ idea di una gestione privatistica dell’ universita’. Ma, anche se le universita’ private in Italia non sono proibite, l’ idea di una privatizzazione generalizzata sarebbe un anatema,
      e con zero probabilita’ di successo. (con questo non voglio dare l’ idea di illudermi che la mia proposta abbia probabilita’ di successo molto superiore allo zero).

      C’e’ poi un possibile problema – molto specifico al nostro paese – con un sistema universitario completamente privatizzato: come per giornali, televisioni, case editrici, e squadre di calcio, immediatamente ogni universita’ si sentirebbe in dovere di identificarsi con i vari Berlusconi,
      Agnelli, De Benedetti, o con questo o quel partito politico. Non so quale potrebbe essere una soluzione a questo problema, ma temo che sia un timore realistico in un paese dove sembra impossibile starnutire senza mettere (o farsi mettere) un’ etichetta sopra lo starnuto.

  8. Saverio Staffieri

    Come in tutte le rivoluzioni il sangue verrebbe versato soprattutto dagli innocenti.
    Le università, sono organizzazioni dirette a fornire servizi importanti per la qualificazione e la promozione del territorio di riferimento, e per i cittadini che vi risiedono.
    Trovo molto autoreferenziale pensare ad un ateneo, bene pubblico, come se fosse un ente privato posseduto dai docenti e dal personale tecnico.
    Questi hanno solo il compito di farle funzionare nell’interesse pubblico. Se i gestori sono incapaci o colpevoli, vanno corretti o puniti o sostituiti questi. Non vanno privati di risorse nè chiusi gli atenei. Non si deve farla pagare ai cittadini che dovrebbero riceverne i servizi: attualmente non possono neppure influenzare in maniera efficace le scelte operate dagli atenei insistenti sul loro territorio.
    Bisogna fornirgliene gli strumenti ed aiutarli ad acquisire la capacità di usarli. Non si può far finta di credere che, se degli atenei chiudessero, tutti i loro potenziali utenti potrebbero trasferirsi a studiare altrove, ed arricchire così la propria esperienza. I costi dei fitti, per citare solo una delle maggiori voci di costo, nelle sedi universitarie più ambite, sono già insostenibili per una fetta notevole della popolazione studentesca, almeno un 30% degli studenti residenti al Sud; diverrebbero ancora più esclusivi se si provocasse un’ulteriore concentrazione dell’offerta. Anche se si riuscisse a rimediare con un grande programma di costruzione di alloggi per gli studenti in pochissimi anni (con i denari presi da dove?), resterebbe il problema del depauperamento di risorse umane, organizzative e finanziarie, e soprattutto di speranze, dei territori privati dei loro atenei “mal gestiti”.
    Se i politici vogliono le università nella loro provincia, ed ottengono in questo il consenso entusiasta dei loro elettori, qualche buona ragione politica ce l’avranno. Per di più, hanno buoni esempi di diffusione capillare degli istituti d’istruzione superiore in lungo e in largo sul territorio nazionale, proprio nella patria del libero mercato.
    Una proposta di riforma che voglia avere successo, non può fare a meno di cercare di coniugare le diverse esigenze presenti sulla scena.

    • La redazione

      Capisco le sue considerazioni, ma non condivido due sue affermazioni:

      “Se i politici vogliono le università nella loro provincia, ed ottengono in questo il consenso entusiasta dei loro elettori, qualche buona ragione politica ce l’avranno.”

      Sono sicuro che i politici abbiano le loro ragioni, il punto e’ se i loro incentivi coincidano con quelli dei cittadini, soprattutto qualora i cittadini abbiano di fronte un menu di scelte adeguate. Se la scelta e’: un’ universita’ nella citta’ X o nessuna universita’ in X, capisco che molti cittadini di X siano in favore di una sede universitaria nella loro citta’. Ma se la sceltae’: universita’ in X, o nessuna universita’ in X ma
      una universita’ migliore nella citta’ Y a 50 chilometri, forse la scelta dei cittadini potrebbe essere diversa.

      “Per di più, hanno buoni esempi di diffusione capillare degli istituti d’istruzione superiore in lungo e in largo sul territorio nazionale, proprio nella patria del libero mercato.”

      Se si riferisce agli Stai Uniti, sono d’ accordo, ma questo conferma il mio punto: l’ universita’ del Montana sta ad Harvard University come una squadra di promozione sta al Real Madrid. E nessun cittadino del Montana si sognerebbe di pretendere che una parte di Harvard traslochi in Montana.

  9. Francesco Di Giano

    Condivido pienamente il suo articolo, ma credo in Italia sia molto difficile riformare l’università. Ci sono troppi baroni che commando e che formano una potente lobby… Inoltre i fondi destinati all’università arrivano in base agli iscritti, infatti le università fanno molta pubblicità per accapararsi più studenti… la migliore pubblicità di un’università è la sua ricerca pubblicata e applicata…
    Vorrei anche riportare due frasi scritte nel Manifesto per l’Europa di Romano Prodi che condivido:
    “Ci vuole il coraggio di adottare rigidi criteri di qualità nella scelta degli investimenti, di resistere alla facile tentazione di distribuire finanziamente a pioggia e alle pressioni per costruire in ogni città una nuova università “. quest’ultima parte si riferiva esplicitamente all’Italia, infatti nel nostro paese quasi ogni città ha la sua università, questo comporta dispersione dei finanziamenti e del capitale umano…
    L’altra frase è la seguente: “Persino le nostre università, così come organizzate e concepite, appaiono largamente insufficienti e incapaci ad assicurare possibilità di lavoro adeguate all’investimento operato dagli studenti e dalle famiglie e a garantire il livello di eccelenza necessario per permettere all’Europa di primeggiare nell’innovazione e di competere da pari a pari con i paesi più avanzati, Stati Uniti in testa.”
    Cordiali saluti
    Francesco Di Giano

  10. igor pesando

    Capisco lo scopo polemico dello scritto e, spero, i nobili propositi che lo animano, pero’ la situzione in fisica non e’ cosi’ drammatica.
    E credo anche che non sia cosi’ scandalosa nelle materie _scientifiche_ in cui non vi sia sbocco alla libera professione.

    Le critiche sono essenzialmente queste:
    1) tutto funzionerebbe se si assumesse un consumatore razionale e se le universita’ avessero lo stesso potere economico. Pero’ i consumatori non sono razionali e non sanno utilizzare tutta l’infomazione a loro disposizione (basta vedere come vengono scelti i fondi comuni o la vicenda fiat) e per di piu’ universita’ piu’ grandi con piu’ mezzi economici potrebbero convincere della loro superiorita’ qualitativa.
    In generale la fama non sempre rispecchia la realta’: la SNS non e’ migliore di roma II e non credo che la bocconi sia il MIT..
    2) non produrrebbe equita’ sociale poiche’ i figli di benestanti, intelligenti e cretini che siano, avrebbero modo di frequentare le universita’ migliori mentre anche i figli intelligenti di poveri ci penserebbero su tre volte prima di fare un debito per la vita.
    Meglio il modello danese: una borsa per tutti (eventualmente graduata sulle disponibilita’ della famiglia) legata alla carriera.
    Inoltre nel futuro ci sara’ sempre piu’ richiesta di specializzazione qualificata che non si ottiene facendo poche universita’ di eccellenza.
    3) l’indicatore di produttivita’ scelto “Lavori per M$” non e’ indice della qualita’ ma della produttivita’. Meglio “Impact factor medio per M$” che tiene conto della qualita’ e non della quantita’:
    si possono pensare apersone oberate dalla didattica o pigre che pero’ producano poco ma di qualita’.
    In poche parole meglio 1 pubblicazione su Nature che 100 sui quaderni del dipartimento…

    Molto meglio sarebbe dividere gli scientifici che hanno la possibilita’ di pubblicare su riviste internazionali peer reviewed dal resto.
    Dopo di che’ una valutazione comparativa basandosi sul database del ISI e’ fattibilissima.
    E si puo’ rendere pubblico il risultato e legare la progressione economica, i finanziamenti, lelettorato passivo ed attivo a questi parametri.

    • La redazione

      Grazie per il commento. Un esame comparato dell’ universita’
      italiana fatta sui dati ISI come suggerisce lei e’ stata fatta dalla Confindustria in un lavoro curato da Giulio de Caprariis che ho citato nella risposta ad un commento precedente. L’ universita’ italiana ne esce con le ossa rotte in praticamente tutte le discipline. Anch’ io do il mio piccolo contributo, curando una pubblicazione elettronica dal titolo “Il Bollettino dei Concorsi” , dalla peridocita’ irregolare, dove elenco le
      pubblicazioni, divise per categoria come da lei suggerito, dei candidati e commissari nei concorsi di economia. Il Bollettino dei Concorsi e’ scaricabile dal mio sito web a http://www.igier.uni-bocconi.it/perotti

      Confesso di non capire certe sue altre affermazioni. “In generale la fama non sempre rispecchia la realta’: la SNS non e’ migliore di roma II e non credo che la bocconi sia il MIT..” Sono d’ accordo, ma non sono sicuro di capire perche’ cio’ infici il mio ragionamento. “Inoltre nel futuro ci sara’ sempre piu’ richiesta di specializzazione qualificata che non si
      ottiene facendo poche universita’ di eccellenza.” Anche ammettendo che la premessa sia corretta, non capisco la conseguenza.

  11. carla andreani

    Il sistema si puo’ senz’altro riformare. Conosco molto bene il sistema inglese avendo lavorato per 4 anni da quelle parti. mi sembra che la sua analisi, di questi tempi ce ne sono tante, sia nel complesso riassumibile in ‘l’erba del vicino e’ piu’ verde’

    cordilamente
    carla

    • La redazione

      Il suo e’ un certamente un modo di riassumere la mia posizione. Ne conosco molti altri, quasi tutti piu’ utili. Complimenti per l’ esperienza in Inghilterra.

  12. Rosario Nicoletti

    Caro Perotti,
    Pensavo che LaVoce non fosse così lesta nell’acquisire le cattive abitudini dei mezzi di informazione italiani, la principale delle quali è la censura di ogni voce dissenziente. Ho inviato un commento sull’articolo di Perotti, che non è stato pubblicato forse perché contesta quanto viene affermato: l’università italiana non produrrebbe buona ricerca. A riprova viene citato un dato al quale non può essere – come ho scritto – attribuito tale significato.
    L’università italiana sta veramente affondando e non saranno le “trombonate” (che diventano Verbo) dei nostri brillanti giovani che saltellano da un paese all’altro ad indicare una via di salvezza. Questi bravi giovani non sanno nulla della realtà italiana (universitaria) verso la quale sembrano nutrire un odio viscerale, forse causato dallo scontro passato con qualche barone o baronetto, personaggi ben presenti nel panorama universitario (ed aggiungerei italiano in genere).

    • La redazione

      Il suo commento e’ stato pubblicato oggi (vedi sotto), con la mia risposta.
      La sua dietrologia e’ fuori luogo. Aspettavamo di pubblicare tutti i commenti insieme, per una nuova uscita de lavoce sul tema dell’ Universita’ che poi e’ stata posticipata.
      No comment sulla seconda parte del suo “commento”.

      Cordiali saluti
      Roberto Perotti

  13. Tommaso Federici

    Caro Perotti,
    concordo con lei quasi su tutto, e apprezzo la sua mancanza di remore, che è certo un portato di un percorso universitario svolto sotto altri cieli.
    La apprezzo e condivido al punto che molte delle proposte (libertà per le università di assunzione e programmazione dei corsi, abolizione dei concorsi e del valore legale del titolo di studio, …) da lei indicate erano in un mio articolo di anni fa (mai pubblicato per l’improvvisa defezione del mio amico co-autore appena si profilò un concorso…) e spesso ne parlo, pressoché negli stessi termini, anche in pubblico.
    Solo, vorrei soffermarmi su un aspetto davvero critico nell’università (soprattutto in certi casi), che lei pone in modo troppo marginale, e cioè la docenza, intesa non solo sotto il profilo dell’erogazione di contenuti, ma anche sotto quello della capacità / volontà di intrattenere rapporti con gli studenti con lo spirito di fornire un servizio. Il che non vuol dire, ovviamente, soggiacere a qualsiasi estemporanea richiesta, ma dedicarsi con passione maieutica a far appassionare e far evolvere culturalmente e intellettualmente dei giovani che sono stati indirizzati o hanno scelto di seguire un professore e una materia.
    Quante volte capita (quando viene percepita l’onestà e la franchezza) di sentirsi dire da studenti: “quel professore non si vede mai”, “quella professoressa arriva sempre impreparata e poi improvvisa”, “quel professore non dà tesi”, e financo “la mia tesi mi ha deluso, il prof. l’ho visto solo quando me l’ha assegnata e il giorno prima della discussione”.
    Ora, seppure imperfetta, e lei ha documentato molto accuratamente tali imperfezioni, una qualche valutazione della ricerca esiste: nei concorsi, ma anche in qualche modo nell’accesso alle riviste più qualificate.
    Una valutazione della qualità della docenza, nel senso ampio che ho definito prima, svolta prima sotto il profilo dell’attitudine, e in seguito delle prestazioni, proprio non c’è, a meno che non vogliamo chiamare tale la farsa della lezione concorsuale. Si esercita una professione (anche per 50 anni) molto delicata, e che richiede doti e applicazione particolari, senza essere mai valutati (nel mondo anglosassone succede, e come…) da nessuno su quanto si ha e si sta dando.
    Certo si viene giudicati, ci si fa un nome, magari non buono, ma questo non esime altre generazioni di studenti da ripercorre gli stessi passi a vuoto.
    Si fanno anche esperimenti di questionari di valutazione distribuiti agli studenti (che, seppure da un solo punto di vista, possono dire molto…) ma poi non si analizzano i risultati.
    Naturalmente (Dio non voglia) non sto dicendo che tutta l’università è così, né che tutti i docenti sono degli incapaci svogliati.
    Dico invece che il sistema universitario nel suo complesso, non essendo disegnato per, non riesce a produrre, su diversi fronti, decisioni coerenti – ad esempio, selezionando (non solo i docenti, per la verità) soltanto chi risponde al profilo da occupare, rimuovendo chi (per qualsiasi motivo) non offre prestazioni corrispondenti alle caratteristiche del ruolo, allocando correttamente le risorse nel territorio, attivando solo corsi di laurea con una utenza plausibile … – con quelli che dovrebbero essere i suoi obiettivi, che lei pure ha indicato.
    Non solo i processi decisionali sono incoerenti con gli obiettivi di sistema, ma in caso di errore non se ne scontano a pieno le conseguenze, e quindi il sistema non può per definizione auto-evolvere (anzi, semmai…).
    In questi casi, sono ancora d’accordo con lei, l’unica scelta organizzativa corretta è quella di procedere a una vera re-ingegnerizzazione del sistema senza dover rispettare alcun vincolo, se non il conseguimento dei veri obiettivi di fondo (ma devono essere condivisi…). Il miglioramento incrementale delle piccole/grandi “toppe”, attraverso riforme cosmetiche e non radicali, non produce nulla, e talvolta aumenta perfino la complicazione.
    Ma, le domando, quanto sopra lo zero sono le probabilità di veder discusse e attuate queste riflessioni? E come coltivare, se ci sono, tali sparute probabilità?

    Ancora complimenti e cordiali saluti

    Tommaso Federici

    • La redazione

      Grazie per il commento e per l’apprezzamento. Sono ovviamente d’ accordo con lei che l’ insegnamento e’ importante. Ma niente impedisce ad una universita’ di considerare la performance nell’ insegnamento come uno dei
      fattori che determina la decisione di assumere una persona definitivamente, dopo un periodo di prova. Certo un buon insegnante puo’ sempre decidere di ignorare gli studenti una volta assunto definitivamente; ma questo e’ un rischio che si corre anche con la ricerca, e piu’ in generale con qualsiasi
      contratto di lavoro a lungo termine o a tempo indeterminato.

  14. Marco Bianchetti

    Riguardo a una valutazione comparata dell’efficienza della ricerca, cerco di aggiungere qualche dato a correzione di quanto pubblicato.

    1) i dati sulla valutazione comparativa dell’efficienza della ricerca sono pubblicati nel documento “Key Figures 2001 – Special edition: Indicators for benchmarking of national research policies” della Commissione Ricerca dell’UE
    (http://europa.eu.int/comm/research/area/benchmarking2001_en.html), in particolare le figure:
    – 3.1.1: Deposito di brevetti UE negli anni 1999 e 2000
    – 3.1.3: Deposito di brevetti USA negli anni 1999 e 2000
    – 3.2.1: Pubblicazioni scientifiche internazionali nell’ultimo anno rilevabile (1999)
    – 3.2.5: Pubblicazioni scientifiche internazionali fortemente citate negli ultimi anni rilevabili (1995-97)

    2) Erroneamente gli autori dell’analisi dati summenzionata calcolano l’efficienza come output/popolazione. Ad es. per quanto riguarda le pubblicazioni (fig. 3.2.1) si ha:

    IT: 457 pubblicazioni per milione di abitanti
    UK: 949
    media UE: 613

    Chiramente questo e’ un errore (sembra anche un po’ marchiano): l’efficienza e’, per definizione, output/input. Pertanto va calcolata rispetto alle risorse effettivamente impiegate. Nel caso delle pubblicazioni, i ricercatori attivi. E sappiamo che l’Italia ne ha la meta’ della media UE.
    Pertanto, se si rifanno i conti della fig. 3.2.1, si ottiene:

    IT: 346 pubblicazioni per 1000 ricercatori
    UK: 356
    media UE: 269

    Italia e Inghilterra hanno circa la stessa efficienza nella produzione di pubblicazioni scientifiche internazionali (dati 1999).
    Lo stesso giochetto funziona anche per le altre tabelle: se calcolata correttamente, l’efficienza e la qualita’ della ricerca italiana sono in linea con la media europea. E ci sono parecchie sorprese.

    Un’analisi completa e dettagliata puo’ essere reperita ad es. nelle pubblicazioni del Prof. Carlo Rizzuto (reperibili ad es. qui:
    http://www.bianchetti.org/ADI/Rizzuto-Numeri-Chiave.pdf), con il quale certamente potra’ avere un approfondito scambio di opinioni e dati piu’ recenti.

    Cordiali saluti
    Marco Bianchetti
    ADI – Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca Italiani
    http://www.dottorato.it

    • La redazione

      Lei si sarebbe evitato una brutta figura se avesse letto piu’ attentamente il mio lavoro. Avrebbe visto che i dati che lei cita sono desunti (e correttamente) da un lavoro di J.S. Katz “Scale – Independent Indicators and Research Evaluation”, Table 8. Quindi niente “errori marchiani” o “giochetti”, solo molta disattenzione e superficialita’ da parte sua.

      Ammettendo che i dati che cita lei siano corretti, sarebbe stato piu’ costruttivo chiedersi quale sia la causa della differenza tra i miei dati e i suoi. Credo (ma e’ solo una peculazione) che parte del motivo sia che i miei dati si riferiscono solo a “refereed papers”, mentre puo’ darsi che i
      dati che cita lei si riferiscano a lavori piu’ in generale.

      Ma in un certo senso e’ abbastanza inutile discettare su questi numeri: qualsiasi siano le cifre, si puo’ sempre sostenere che la qualita’ e’ difficilmente misurabile, e che in base ai propri gusti la produzione scientifica dell’ universita’ italiana e’ largamente superiore a quella di ogni altro paese. Non ho niente da rispondere a questo tipo di posizione.
      Ma la invito a riflettere su questa semplicissima domanda: quanti italiani vanno a studiare, specializzarsi, lavorare, e fare ricerca in Inghilterra o negli USA, e quanti inglesi o statunitensi vengono a fare altrettanto in Italia?

  15. Alessandro Spanu

    Gent.mo Prof. Perotti,

    nel periodo 2000-2003 il numero dei docenti universitari è aumentato del 13%, il numero dei professori ordinari addirittura del 40%: stessa popolazione studentesca, qualità dell’insegnamento sempre bassa, ricerca scientifica insignificante.
    A ciò si aggiunga il fatto che i nuovi ordinari probabilmente sono, per lo più, associati o ricercatori della medesima facoltà promossi unicamente per anzianità e, per quanto riguarda i nuovi ricercatori, non dovrebbero essere infrequenti i bandi di concorso ritagliati su misura dei requisiti del raccomandato dal barone di turno o addirittura i concorsi con unico concorrente ( una contraddizione in termini…)
    Quo usque tandem ?

    Cordiali saluti.

    A.Sp.

  16. Marco Bianchetti

    Vedo solo ora che rispondendo alle mie osservazioni del 18-12-2003 il Prof. Perotti si e’ adontato credendo di leggervi un discredito verso il suo lavoro.
    A parte il fatto che mettere a confronto dati e interpretazioni (non le persone o le stature accademiche) e’ il meccanismo base della scienza, non e’ cosi’: infatti “l’errore marchiano” che cito e’ chiaramente riferito a “gli autori dell’analisi dati summenzionata”, che e’ “Key Figures 2001”. Parimenti, la parola “giochetto” riportata nel mio testo e’ chiaramente riferita al ricalcolo come da me riportato dell’indicatore menzionato poco sopra.

    Nessun riferimento quindi al lavoro del Dott. Perotti e nessuna volontà polemica, per la quale non ho alcun interesse.

    Tornando quindi al merito, concordo che sarebbe piu’ utile domandarsi il perche’ della differenza dei dati.
    Credo pero’ che sarebbe ancora piu’ utile, prima di annegare questa specifica questione dentro il calderone dei mail della ricerca italiana (cfr. ad es. la fuga dei cervelli), definire qual’e’ l’indicatore migliore per misurare l’efficienza dei ricercatori italiani.
    Ripeto: a me sembra piu’ corretto far riferimento all’efficienza come output/input, e non a output/popolazione.
    Non vedo nella risposta del Dott. Perotti alcun argomento a favore o contro di questa scelta, e mi spiace, perche’ questo punto non e’ secondario, visto che dal calcolo di questo indicatore si pretende di trarre informazioni su quali siano i punti deboli del sistema Universita’ e Ricerca del nostro paese e su quali siano le corrette politiche di rinnovamento.
    Allora, Prof. Perotti, a suo parere qual’e’ l’indicatore migliore ? uno dei due che ho indicato ? altri ?

    Per quanto riguarda l’interpretazione corretta del risultato, questa e’, lo ripeto, che l’efficienza e la qualita’ degli scienziati italiani, *misurata con questo indicatore e calcolata con questi dati*, non e’ inferiore a quella di altri paesi “benchmark”. Ne piu’ ne meno.
    Cio’ ovviamente *non* significa che usando dati diversi emerga lo stesso risultato (anzi, mi piacerebbe saperlo, credo che sarebbe un confronto interessante per verificare la solidità dell’indicatore).
    Tanto meno questo significa che i mali del sistema universita’ e ricerca italiano, come la citata circolazione a senso unico dei cervelli, siano magicamente risolti (come forse il Prof. Perotti ha dedotto da quanto non ho scritto). Tutt’altro, e aggiungo anche io una ulteriore scontata domanda conclusiva: quanti sono gli studiosi stranieri che riescono, anche per sbaglio, a vincere un concorso da ricercatore o professore in una universita’ italiana ? Nei miei 5 anni di ricerca in un dipartimento universitario ho visto parecchi postdoc stranieri, ma nessun concorso vinto da un non italiano. Anche perche’ sono stati pochissimi e c’era una lunga coda di plurititolati.
    I motivi mi sembrano chiari: il finanziamento e le regole del gioco.
    Ma per influire su questi due fattori non abbiamo bisogno di dire che gli scienziati italiani sono incapaci.
    Molto piu’ convincente l’argomentazione che si tratti di trovare regole migliori per liberare la loro creatività e potenzialità scientifica, all’interno di un sistema di regole meritocratiche.
    In particolare dei piu’ giovani.

    Cordiali saluti
    Marco Bianchetti
    ADI – http://www.dottorato.it

    PS: per’altro sul problrma della circolazione dei cervelli e sulle difficolta’ della ricerca italiana credo che la mia associazione abbia dato qualche contributo: si veda ad es. http://www.cervelliinfuga.it e http://www.dottorato.it/cervelliingabbia

    • La redazione

      sono perfettamente d’ accordo che l’ indicatore di pubblicazioni/ricercatore accademico e’ piu’ ragionevole di pubblicazioni/popolazione.
      Forse l ‘indicatore migliore, che evita qualsiasi discussione su chi sia effettivamente un ricercatore e’citazioni/pubblicazione, magari standardizzato per tener conto della diversa propensione alle citazioni in discipline diverse. Questo indicatore mostra che l’ Italia non e’ messa particolarmente bene, come mostriamo in un recente articolo “Lo Splendido
      Isolamento dell’ Universita’ Italiana” (con Stefano Gagliarducci, Andrea Ichino e Giovanni Peri)
      http://www.frdb.org/images/customer/rapporto_3.pdf. Nello stesso articolo trattiamo inoltre del problema della fuga dei cervelli e del mancato arrivo dei cervelli stranieri in Italia.
      Grazie e cordiali saluti.
      Roberto Perotti

  17. Francesco Pirrone

    Ho scoperto questo suo documentato contributo solo dopo aver spedito alla Voce una mia lettera (non ancora pubblicata) in cui, sollecitato dal “W la ricerca” di RAI 3, definivo inemendabile la nostra università. La mia conclusione sulla base di una permanenza a Chicago, con una esperienza universitaria in loco del figlio maggiore, era analoga a quella di Nicola Bordignon e favorevole quindi ad una forte privatizzazione del sistema, in ogni caso la sua proposta è la più brillante tra tutti i balbettamenti sull’università che ho sentito finora e le chiedo se per caso qualche suo contributo a riguardo è stato già mandato anche alla Fabbrica del Programma di Prodi. In ogni caso grazie!

  18. Paolo Pezzuoli

    Gentile professor Perotti, ho letto diversi suoi articoli sui problemi che affliggono la nostra università e sulle soluzioni proposte, e concordo, in generale, con Lei.
    Le dico subito che, pur essendo laureato (ingegnere) non ho mai pensato di rimanere in ambito universitario: subito dopo la fine degli studi ho cercato lavoro altrove, né l’idea di intraprendere la carriera accademica mi ha mai stimolato. Questo, naturalmente, discende dalle mie personali caratteristiche e preferenze, e da questa ottica, un po’ “esterna” all’ambiente degli Atenei, vorrei proporre alcune considerazioni.
    L’abolizione del valore legale della laurea è certamente indispensabile, ma non tanto per i problemi burocratici – giuridici legati a concorsi ed abilitazioni dei docenti, da Lei citati più volte, quanto per consentire alle imprese, ed anche alle pubbliche amministrazioni, di selezionare il personale ad alto livello non valutando il titolo di studio in modo generico, ma, per esempio, privilegiando una certa laurea di una certa università rispetto ad un altra. In tale modo si eviterà la corsa alle università “di manica larga” (tanto quel che conto alla fine è il “pezzo di carta”.
    Un ulteriore vantaggio, a mio parere, verrebbe dall’ eliminazione del “culto” del titolo di studio tanto diffuso in Italia, (dove si entra in crisi se non si può premettere “dott.” al proprio cognome): ciò servirebbe anche a modificare certe organizzazioni aziendali rigidamente gerarchiche dove può succedere che una struttura si regge in pratica su un diplomato, posto ad un gradino basso in quanto sovrastato da laureati non necessariamente più efficienti, e faciliterebbe sicuramente i sistemi di valutazione dell’efficienza del lavoro di ciascuno, così difficili da far digerire.
    Da qui arrivo alla seconda osservazione: non concordo completamente sulla valutazione dei docenti fatta solo in base alle pubblicazioni. Certo, rispetto al sistema attuale, questo è di gran lunga migliore. Ritengo però che non tutte le pubblicazioni siano equivalenti, e che il rischio maggiore, adottando in maniera esplicita tale sistema, sia la classica soluzione all’italiana: improvviso proliferare di nuove riviste italiane che pubblicano tutto. La valutazione dovrebbe essere fatta con criteri assolutamente internazionali, limitando le pubblicazioni italiane ai pochi ambiti (non so quanti ne esistano) veramente prestigiosi.
    Ritengo inoltre che l’Università sia utile in quanto prepara persone che, per la maggior parte, andranno a fare diverse attività: guai se tutti gli studenti volessero intraprendere la carriera universitaria! In questa ottica, un buon ricercatore non è necessariamente un buon docente: sono due ruoli diversi ( è un po’ come, in ambito ospedaliero, la differenza fra il bravo primario ed il principe dei chirurghi). Ricordo alcuni miei professori eccezionali dal punto di vista didattico: alcuni di essi erano anche ottimi ricercatori, altri no. Ricordo anche un professore molto celebre nel suo campo, ma così poco didattico che ancora oggi la sua materia (peraltro non secondaria) è fra quelle che, se posso, evito. Una buona università deve avere validi ricercatori e bravi docenti, e non sempre le due cose possono coesistere nella stessa persona. Sarebbe però un inutile spreco sbarazzarsi di un buon ricercatore perché poco didattico, o di un buon professore perché non pubblica molto, oppure impegnare uno di essi in attività nelle quali non può esprimere il meglio di sé stesso.
    Cordiali saluti.

    • La redazione

      Caro dottor Pezzuoli,
      grazie del messaggio, con cui concordo pienamente. L’abolizione del valore legale avrebbe molti effetti positivi, tra cui quelli da lei indicati, soprattutto nella pubblica amministrazione. Sono d’ accordo che un professore andrebbe valutato sia sulla ricerca che sulla didattica. Il problema è che valutare la ricerca è relativamente facile, valutare la didattica e’ molto piu’ difficile. Certamente la valutazione delle pubblicazioni va fatta seguendo criteri rigorosi, e privilegiando le pubblicazioni di caratura internazionale. In molti campi esisitono criteri ben cosolidati ed quasi universalmente accettati per valutare l’ impatto scientifico di ogni rivista e di ogni pubblicazione.
      Cordiali saluti
      Roberto Perotti

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