Esiste una differenza tra la variazione dei prezzi misurata dagli istituti di statistica e quella percepita dai consumatori. Un fenomeno che riguarda tutta l’area euro e non solo l’Italia. Molte le spiegazioni sbagliate, compresa quella recente del presidente dell’Istat. Però capire perché le due serie non sono allineate è fondamentale. La divaricazione può comportare fluttuazioni nell’offerta di lavoro e nel prodotto. E potrebbe spiegare anche il ciclo basso in Europa. È sorprendente che si dedichi così tanta attenzione all’inflazione proprio quando ha cessato di essere un serio problema. Lo dicono i dati. Ormai da alcuni anni il tasso di inflazione dell’Italia viaggia al di sotto del 3 percento: tasso molto basso, per un paese abituato a inflazione a due cifre, per periodi prolungati, e con notevoli oscillazioni che sorprendevano, allora sì, consumatori e lavoratori. Un meccanismo oscuro Di queste percezioni esiste una misura, indicata nella figura per l’Italia e per l’area dell’euro. Inflazione effettiva e percepita
Ciò malgrado un problema si avverte: molti consumatori hanno una percezione della dinamica dei prezzi e del loro potere d’acquisto diversa rispetto a quella misurata dalle statistiche ufficiali.
A partire dall’introduzione della moneta unica, l’inflazione percepita, misurata sulla scala di destra, mostra una tendenza a salire più rapida dell’inflazione rilevata.
Due precisazioni sono importanti. Primo, la misura di inflazione percepita è solo qualitativa: ci informa sulla tendenza delle percezioni, non sulla loro entità. I dati si riferiscono infatti allo scarto tra la proporzione degli intervistati che dicono che il livello dei prezzi è aumentato e quelli che dicono che è rimasto costante. In linea di principio, il dato potrebbe essere coerente con un livello dell’inflazione percepita non discosto o anche inferiore a quello rilevato.
Secondo, prima dell’introduzione dell’euro, l’indicatore delle percezioni era allineato con il tasso effettivo. Inizia a divaricare dopo l’adozione della nuova moneta. A oggi non esiste una spiegazione convincente del perché, dall’adozione dell’euro, inflazione percepita e misurata hanno iniziato a divaricare. Data la concomitanza temporale, si imputa il fatto all’euro, ma il meccanismo è oscuro.
Spiegazioni errate
La prima spiegazione errata è che i consumatori abbiano una percezione “corretta” dell’inflazione mentre l’Istituto centrale di statistica sotto-stima la dinamica dei prezzi.
Questa spiegazione è da rifiutare per almeno due ragioni. La statistica sui prezzi è molto robusta; la procedura di rilevazione è collaudata e non lascia spazio a errori di misura rilevanti (vedi Gli errori dell’Istat. E quelli dei suoi critici, di Luigi Guiso). La differenza tra inflazione percepita e rilevata riguarda anche gli altri paesi dell’area euro. Può sbagliare l’Istat, ma è poco verosimile che sbaglino simultaneamente e nella stessa direzione gli istituti nazionali di statistica di undici paesi. Se le statistiche dei prezzi sono mediamente corrette, molte delle varie (e sbilenche proposte) “anti-inflazionistiche” perdono la ragione d’essere.
La seconda spiegazione errata è che sia colpa degli arrotondamenti, secondo quanto sostenuto dal presidente dell’Istat, Luigi Biggeri. L’idea di Biggeri è che per arrivare al tasso di inflazione “percepito” basta aggiungere al tasso misurato (dall’Istat) l’arrotondamento del cambio a 2000 lire per un euro, che corrisponde circa il 3 per cento.
L’arrotondamento lo facciamo ogniqualvolta convertiamo euro in lire a mente, per semplificarci la vita e risparmiarci l’incomodo di portarci appresso una macchinetta calcolatrice. Quando esprimiamo in lire un prezzo in euro, un’operazione che facciamo di sovente perché ci dà una idea rapida della “congruità” del prezzo di un bene, sovra-stimiamo il prezzo di quel bene di circa il 3 per cento. Questa sovra-stima è l’approssimazione che accettiamo consciamente per non perdere troppo tempo a fare il calcolo esatto (1 euro = 1936,27 lire). Ma l’approssimazione esagera solo il livello di un prezzo quando lo esprimiamo in lire.
Che cosa ha a che fare questo con l’inflazione? Quest’ultima è il rapporto tra il livello dei prezzi oggi, p(t) e il livello dei prezzi ieri, p(t-1), in simboli: p(t)/p(t-1). Se i nostri concittadini quando calcolano il loro tasso di inflazione seguono la prassi, implicita nel ragionamento di Biggeri, di trasformare in lire i prezzi espressi in euro e poi calcolarne il tasso di variazione, sovra-stimeranno numeratore e denominatore (perlomeno per il periodo tra il 2003 e il 2002) nella stessa proporzione e il tasso di inflazione percepito non ne sarà influenzato.
Una spiegazione coerente
Una spiegazione plausibile deve indicare perché la divaricazione accade dopo l’introduzione della moneta unica. E perché interessa tutti i paesi dell’area dell’euro.
La mia spiegazione accoglie i due fatti ed è basata su quattro elementi. L’introduzione dell’euro ha comportato la ridenominazione di tutti i prezzi. Il cambio di numerario (la moneta usata per definire il valore dei beni ) richiede che i consumatori apprendano e memorizzino i prezzi espressi nella nuova moneta. Questo processo prende del tempo, talvolta parecchio, a seconda della frequenza degli acquisti dei vari beni. Nella vecchia moneta avevamo in memoria i prezzi o almeno una idea più o meno precisa del costo di centinaia di beni. Quelli nella nuova li dobbiamo rilevare e fissare in memoria, a meno di credere che tutti i prezzi in euro al momento del cambio, sarebbero stati uguali a 1936,27*(prezzo in lire).
Il processo di apprendimento dei prezzi in euro è diseguale. Vengono memorizzati prima e più facilmente i prezzi dei beni che vengono acquistati più frequentemente, come gli alimentari, il caffè, il giornale e una serie di servizi, come la ristorazione, i trasporti e così via. Inizialmente, e forse per un periodo di tempo lungo, l’indice dei prezzi in euro che i consumatori utilizzano per farsi una idea del livello generale dei prezzi e della sua dinamica è costituito da un sottoinsieme dei prezzi dei beni che compaiono nell’indice generale dei prezzi al consumo.
In Italia e in Europa, i beni che tipicamente vengono acquistati a frequenza più elevata hanno avuto, dopo l’introduzione dell’euro, una dinamica più sostenuta degli altri (si veda l’ultimo bollettino della Bce http://www.ecb.int/pub/pdf/mb200310en.pdf).
Questo da solo può spiegare perché inflazione percepita ed effettiva non sono allineate. Non è chiaro se questo meccanismo possa da solo spiegare l’entità della differenza; ma d’altra parte neppure si sa quanto sia questa differenza poiché l’indicatore dell’inflazione percepita è solo qualitativo (su questo l’Istat potrebbe condurre una indagine ad hoc).
L’effetto può essere ulteriormente rafforzato dal fatto che nella fase di apprendimento, variazioni di rilevante entità vengono memorizzate più facilmente e quindi finiscono per avere un peso eccessivo nel calcolo della dinamica dell’inflazione percepita.
Implicazioni
Capire se e, se sì, perché vi è un dis-allineamento tra inflazione percepita e inflazione misurata è importante. Molte decisioni dipendono dall’inflazione percepita, per data inflazione osservata.
Ad esempio, la decisione di un lavoratore se lavorare di più o di meno dipende dalla sua percezione del potere d’acquisto del suo salario e questa è determinata dalla percezione che egli ha del livello medio dei prezzi.
Differenze tra inflazione misurata e inflazione percepita possono perciò comportare fluttuazioni nell’offerta di lavoro e nella quantità di output prodotto.
Può forse sembrare strano ai non addetti, ma questo meccanismo è al centro della moderna teoria del ciclo economico. Un scarto tra inflazione percepita ed effettiva di 3 punti percentuali potrebbe riflettersi in un calo del prodotto interno lordo dello 0,7 percento. (1)
Parte, forse non trascurabile, del ciclo basso in Europa potrebbe essere dovuta al gap tra inflazione effettiva e percepita.
Cosa fare per contenere le percezioni errate? La miglior strategia è che coloro che hanno responsabilità di Governo credano nell’inflazione vera, quella misurata dall’Istat, anziché metterla in dubbio.
(1) Ipotizzando una elasticità dell’offerta di lavoro al salario di 0,25 e dell’output al fattore lavoro di 0,7.
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