Se il Protocollo di Kyoto verrà ratificato, i paesi industrializzati dovranno avviare riduzioni delle emissioni di gas serra con costi ingenti. D’altra parte, i mutamenti di clima, tra piogge intense, inondazioni e ondate di caldo, hanno un impatto economico e sociale forse ancora più alto. La definizione delle politiche ambientali globali o locali non può perciò prescindere dalla valutazione economica di eventuali vantaggi e svantaggi dell’adozione di interventi di mitigazione delle emissioni o adattamento ai cambiamenti climatici.

Nel suo Rapporto 2002, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) avverte che un numero sempre maggiore di evidenze lascia prevedere un aumento costante della temperatura nel corso del XXI secolo. Con maggiore determinazione rispetto al passato, sostiene che l’innalzamento della temperatura è prodotto dall’attività umana, principalmente dall’uso di combustibili fossili. Sottolinea inoltre che “Il tasso previsto di riscaldamento è decisamente superiore ai cambiamenti rilevati nel corso del XX secolo e molto probabilmente non ha precedenti negli ultimi 10mila anni, stando ai dati paleoclimatici”. Le basi statistiche indicano che la temperatura media della superficie del globo terrestre nel 2100 subirà un aumento compreso tra gli 1,4 e i 5,8 gradi centigradi rispetto al 1990. Nel Rapporto 1995, l’Ipcc aveva previsto una variazione da 1 a 3,5 gradi.

Le firme che mancano sul Protocollo

La responsabilità umana nel cambiamento climatico si evince da due fattori: la velocità dell’aumento della temperatura globale, concentrato in un ristretto lasso di tempo (dalla rivoluzione industriale a oggi) e il succedersi sempre più ravvicinato di eventi climatici estremi.

Nonostante i continui avvertimenti della comunità scientifica, la politica in tema di cambiamento climatico da tempo segna il passo per la scelta degli Stati Uniti di non ratificare il Protocollo di Kyoto. D’alta parte, i fondamentali dell’economia e la politica americana suggerivano da tempo che il ripensamento non fosse affatto imprevedibile.
Le modalità per attuare il Protocollo di Kyoto (all’interno di ogni paese o anche all’estero, con strumenti flessibili) hanno richiesto un negoziato molto teso, durato quasi un decennio e non ancora concluso. Per entrare in vigore necessita di una ratifica che soddisfi un duplice vincolo: la firma di almeno cinquantacinque paesi (condizione soddisfatta poiché attualmente più di un centinaio di paesi lo hanno ratificato) e che questi rappresentino almeno il 55 per cento delle emissioni di gas a effetto serra rilevate nel 1990 (finora si è raggiunto il 44,2 per cento di questo valore).
Oltre agli Stati Uniti, Monaco e Liechtenstein (quantitativamente irrilevanti), Australia (2,1 per cento delle emissioni del 1990) e Russia (17,4 per cento) sono i paesi “Annex B” (l’appendice del Protocollo con la lista dei paesi che si assumono l’impegno di riduzione di emissioni, con l’indicazione dell’ammontare, nel caso l’accordo entri in vigore) che non hanno ancora provveduto alla ratifica. Se la Russia dovesse firmare, il totale andrebbe oltre il 60 per cento e il Protocollo entrerebbe in vigore.
Le possibilità di ratifica da parte della Russia sono alte. Sono favorevoli all’adesione alcuni ministeri chiave come quello degli Esteri o grandi imprese del settore energetico come Gazprom. Si oppongono invece alcune imprese energy intensive, non particolarmente aperte all’esportazione, e alcuni ministeri, quello dello Sviluppo per esempio. Il disegno di legge, però, non è stato ancora presentato al Parlamento e le elezioni sono alle porte: è dunque probabile che tutto slitti alla prossima primavera.

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Una virtuosa Unione europea

Ratifica russa o meno, i paesi dell’Unione europea si stanno comportando come se il Protocollo fosse in vigore tanto è vero che la Ue ha emanato una direttiva sull’emission trading, il mercato dei diritti d’emissione, che diventerà operativa nel 2005, con tre anni di anticipo sul first commitment period previsto dal Protocollo. In teoria (ma su questo esistono opinioni diverse), la direttiva europea resterebbe dunque operativa anche se il Protocollo non entrasse mai in vigore.

Nel frattempo, il Governo italiano, attraverso il Cipe, ha deliberato un piano di azione per raggiungere il target di riduzione delle emissioni. Le previsioni al 2010 per il nostro paese indicano una crescita delle emissioni di 92,6 milioni di tonnellate di gas serra (secondo il Cipe), dovuta principalmente ai trasporti stradali e alla generazione termoelettrica.
È certo che l’obiettivo di riduzione non potrà essere conseguito solo con misure interne che operino sulla leva fiscale o dei miglioramenti tecnologici. Da un punto di vista dell’efficienza economica, si dovrà ricorrere quanto più possibile a strumenti diversi, previsti dal Protocollo, come compravendita di permessi di emissione, realizzazione di progetti industriali in paesi terzi, noti come Cdm (Clean Development Mechanism) e Ji (Joint Implementation).
È difficile stabilire a priori quanta parte della riduzione di emissioni sarà realizzata attraverso strumenti di cooperazione internazionale. Alcune stime accreditate parlano di un valore che per l’Italia si situa tra il 40 e il 60 per cento della riduzione complessiva, ma le incertezze sui costi interni nazionali o sul prezzo dei permessi sono ampie.

I costi degli eventi climatici estremi

Ai costi delle politiche e delle misure suggerite nel Protocollo per ridurre l’uso di combustibili clima-alteranti, ad alto contenuto di carbonio, si devono aggiungere quelli connessi a eventuali interventi di adattamento per aiutare i sistemi socio-economici a far fronte agli impatti dei cambiamenti climatici, oltre che i costi dei danni residui.
Le ondate di calore, le piogge intense, le inondazioni, l’innalzamento del livello delle acque del mare sono esempi ricorrenti di eventi climatici estremi con grossi impatti sociali ed economici su sanità, agricoltura, incendi e foreste, settore energetico, turismo, assicurazioni.
Pensiamo alle ondate di calore che hanno colpito l’Europa questa estate. I dati forniti dall’Istituto superiore di sanità per l’Italia registrano un incremento della mortalità fra gli anziani sopra i 65 anni: 4.175 morti in più rispetto alla passata stagione, ovvero il 14 per cento, nel solo mese compreso fra il 16 luglio e il 15 agosto. Le stime per la Francia parlano di 11.435 decessi in agosto per il grande caldo; quelle per l’Olanda di un migliaio di morti.
Ovviamente, se pensiamo alla perdita di vite umane, il danno di questi eventi climatici può essere considerato inestimabile. Se si cercasse di quantificarlo, facendo riferimento al valore implicito della vita umana calcolato in 1,5 milioni di dollari in media nella letteratura economica (1), si arriverebbe a cifre nell’ordine di miliardi di dollari. Le accuse lanciate alla sanità e ai Governi per l’inefficienza delle strutture ospedaliere, di supporto sociale e la mancanza di coordinamento degli interventi di emergenza sul territorio mettono in luce lo spazio per la realizzazione di opzioni di adattamento, i cui costi non possono essere ignorati.
Se i costi degli impatti dei cambiamenti climatici sui sistemi socio-economici ammontano in media al 2 per cento del Pil nei paesi industrializzati (2), quelli di adattamento ne rappresentano una percentuale che varia fra il 7 e il 25 per cento (3).

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La definizione delle politiche globali, regionali e locali non può dunque prescindere dalla valutazione economica di eventuali sinergie e trade-off fra gli interventi di mitigazione e di adattamento, oltre che dalla valutazione dei danni residui rispetto a qualsiasi politica di intervento. Così come va considerato, il grado di sensibilità e di vulnerabilità agli impatti dei diversi sistemi socio-economici.

Per saperne di più

Intergovernmental Panel on Climate Change (2001), Third Assessment Report – Climate Change in 2001 (http://www.ipcc.ch/pub/reports.htm)
Intergovernmental Panel on Climate Change (1995), Second Assessment Report – Climate Change in 1995 (http://www.ipcc.ch/pub/reports.htm)


(1)Tietenberg, T. (2003), Environmental and Natural Resource Economics (sesta edizione), Boston, Addison-Wesley.

(2) Cline, W.R. (1992), The Economics of Global Warming, Washington D.C., Institute for International Economics. Nordhaus, W.D. (1994), Managing the Global Commons: The Economics of Climate Change, Cambridge: The Mit Press. Tol, R.S.J. (1995), ‘The Damage Costs of Climate Change – Towards More Comprehensive Calculations’, Environmental and Resource Economics, 5, 353-374.

(3) Cline (1992), Tol (1995) e Frankhauser, S. (1995), Valuing Climate Change – The Economics of the Greenhouse, London, Earthscan.

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