I black out e le interruzioni programmate dell’estate ci rivelano quanto il problema della sicurezza del sistema sia stato trascurato nell’approccio seguito per l’apertura alla concorrenza del settore elettrico. Il caso americano dovrebbe far riflettere i federalisti a oltranza sui rischi che derivano da legislazioni troppo frammentate. Quanto all’Italia, ha il vantaggio di una rete strutturata da un monopolista, ma resta da verificare l’efficacia dei recenti interventi del Governo per sopperire alla scarsità dell’offerta.

Tra la fine di giugno e la fine di agosto si sono verificati i black-out negli Stati Uniti e Canada, quello di Londra, “i distacchi programmati” in Italia (1).
Il giudizio sulla riorganizzazione del settore elettrico avviata nel 1990 dalla riforma inglese e poi estesa ad altri paesi, si arricchisce di nuovi elementi di valutazione.
Per i tre casi di “interruzione dell’offerta di energia”, la diagnosi è diversa, anche se vi sono alcuni elementi comuni.

Il patchwork americano

Per dimensione e per lezioni da apprendere, il più importante è senz’altro il caso del Nord America. A circa tre anni dalla crisi della California, che certo non ha contribuito ad aumentare la popolarità del processo di liberalizzazione del settore elettrico, un altro evento offre nuovi argomenti a chi ha sempre guardato con sospetto all’abbandono del monopolio integrato.
La diagnosi è abbastanza chiara: la rete di trasmissione non è organizzata, gestita e regolata in modo da facilitare l’apertura alla concorrenza nella generazione di energia che nel frattempo si è sviluppata. Inoltre, la rete è regolata dai singoli Stati con politiche non sempre omogenee.
Nella trasmissione si è mantenuta l’integrazione tra trasmissione e generazione limitandosi a creare operatori di sistema che stabiliscono l’ordine di dispacciamento degli impianti e i criteri di allocazione della capacità di trasmissione. In alcuni Stati questo avviene attraverso processi regolati, in altri mediante processi di mercato (pool e aste). Si ottiene così quello che Paul Joskow, uno degli economisti “energetici” più autorevoli, ha recentemente definito un “patchwork of federal and state jurisdictions”.
L’effetto combinato di imprese integrate relativamente piccole, di aree di dispacciamento subnazionali, di regolazioni statali non omogenee, è stato un livello degli investimenti nella rete assolutamente insufficiente a far fronte alla maggiore complessità derivante dalla apertura alla concorrenza nella generazione: il numero delle transazioni sulla rete è infatti notevolmente aumentato e con esso il numero delle congestioni (+600 per cento negli ultimi quatto anni) (2).

Le difficoltà dei grandi mercati integrati

Il caso americano – dove Usa e Canada si sono rinfacciati le responsabilità del black-out – ci fa guardare con qualche scetticismo alla possibilità di costruire un mercato europeo integrato per l’energia elettrica: i vincoli sulle reti sono “non trading barriers” che non sarà facile superare anche per ragioni di tutela ambientale.
La questione dei vincoli si somma a un problema comune ai processi di integrazione tra mercati regolamentati (l’armonizzazione delle regole) e a un problema specifico dell’industria elettrica: le leggi della fisica, che richiedono di mantenere potenza e stabilità nei diversi punti della rete, interagiscono con la caratteristica di bene “non storable” dell’energia: ciò richiede un mercato continuamente in equilibrio e in ogni punto della rete, con il rischio crescente di esercizio di potere di mercato anche da parte di piccoli operatori.

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L’Inghilterra dà il buon esempio?

In Gran Bretagna vige una regolazione generalmente ritenuta di successo e la diagnosi del caso non è ancora chiara. Il regolatore ha aperto un’indagine per verificare se il proprietario e gestore della rete (il National Grid) ha osservato gli obblighi di manutenzione. “L’Economist” sottolinea l’elevato ammontare degli investimenti del National Grid e la bontà della regolazione che consente di trattenere i rendimenti eccedenti i livelli prefissati dalla regolazione. Ma resta il problema di come verificare ex-ante la qualità del servizio di trasmissione e di come si integrano regolazione della qualità e regolazione tariffaria (3).

Le (antiche) virtù del monopolio

La situazione della nostra rete è per molti versi diversa. Il sistema ha un livello di integrazione con l’estero forse inadeguato (4).
Anche noi abbiamo un indipendent system operator (quando la legge Marzano verrà approvata, sarà anche il proprietario della rete), ma i suoi compiti sono facilitati dall’aver ereditato una struttura della rete programmata da un monopolista. Le strozzature e le congestioni, che pure ci sono (nel tempo la distribuzione geografica di immissioni e prelievi dalla rete si è in parte modificata), sono di gran lunga inferiori a quelle presenti negli Stati Uniti.
Il precedente legislatore, catturato dalla sirena federalista, aveva tentato di “federalizzare” il sistema elettrico con le modifiche del Titolo V della Costituzione. Il legislatore attuale sembra fortunatamente più prudente e il rischio di avvicinarci a “sistemi balcanizzati” come quello americano, appare per ora più lontano. Ma è possibile che le sirene padane tornino a cantare.
Abbiamo invece, in Italia, un problema di scarsità dell’offerta (mancano le centrali): È ancora da verificare se gli strumenti amministrativi avviati dall’attuale Governo con il decreto sblocca centrali siano incisivi. In ogni caso, dovranno essere accompagnati da strumenti di regolazione (remunerazione della capacità, cioè remunerare i costi fissi di impianti che devono entrare in funzione solo per qualche ora all’anno, nei momenti di picco), per il momento solo adombrati.
C’è però un’analogia con il caso americano: i molti anni necessari per ottenere le autorizzazioni a costruire le linee di trasmissione: in Virginia ce ne sono voluti tredici, non sono ancora i quasi venti della Matera-Santa Sofia, ma la notizia ci fa sentire un po’ meno soli.

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Una agenda difficile per i politici

I recenti casi di interruzione dell’offerta sembrano evidenziare come la sicurezza del sistema sia stato un aspetto trascurato nell’approccio seguito per l’apertura alla concorrenza del settore elettrico. Come hanno sperimentato i commuters di New York che hanno dormito nei parchi la notte del 14 agosto o chi è rimasto intrappolato per poco meno di un’ora nella metropolitana di Londra due settimane dopo, la governance della trasmissione e la sua regolazione rappresentano problemi ancora aperti. Non vi sono soluzioni semplici a portata di mano e lasciare gli elettori al buio non dovrebbe essere per i politici motivo di particolare ottimismo.

 

(1) La differenza tra le interruzioni programmate e i black out non è di poco conto. Nel primo caso, la fornitura di energia viene interrotta secondo un piano prestabilito e con un preavviso per l’utenza, anche se a breve. Nel del caso black-out, l’interruzione è improvvisa, avviene in un punto della rete non noto a priori e con effetti a cascata di dimensioni non prevedibili.

(2) Non sempre per fronteggiare queste complessità sono necessari investimenti massicci: il piano di investimenti dell’indipendent system operator del New England individua trentatré progetti di investimenti sulla rete di cui ben 29 hanno valori unitari inferiori ai 20 milioni di dollari.

(3) I nostalgici del monopolio citano poi maliziosamente la coincidenza che il National Grid è anche proprietario dell’impresa di distribuzione canadese Niagara Mohawk dove sembra abbiano avuto origine buona parte dei problemi che hanno portato al black out in Nord America.

(4) A confronto dei nostri 6500 MW di linee con l’estero, i sei Stati del New England con una popolazione pari a circa un quarto di quella italiana hanno interconnessioni con gli Stati confinanti per complessivi 3500 MW.

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