Il Dpef 2004-2007 non serve a capire lo stato di attuazione dei programmi di governo, né gli impegni e i programmi futuri. Ma non possiamo fare a meno del Dpef. Piuttosto il Dpef va ripensato per aumentare la trasparenza dei conti pubblici e per tener conto dell’evoluzione della nostra finanza pubblica verso un assetto federale.

Il Ministro dell’Economia ha ragione a sollevare dubbi sull’utilità del Documento di programmazione economico- finanziaria (Dpef). Così come è non serve molto, ma la soluzione non è di limitarlo a una o poche tabelle, né di abolirlo o rinviarlo a settembre. Va piuttosto ripensato alla luce delle mutate esigenze nel governo dei flussi di finanza pubblica.


I motivi di insoddisfazione

La lettura delle 127 pagine del Dpef 2004-2007 non serve a capire né lo stato di attuazione dei programmi di governo, né gli impegni e i programmi futuri.
Con riferimento al primo aspetto, lo scarto tra gli obiettivi fissati lo scorso anno e l’andamento reale dei conti pubblici è interamente imputato dal governo alla minore crescita economica, rispetto alle previsioni originarie. Ma ad una attenta lettura, che vada oltre la semplice osservazione dei saldi di bilancio, questa spiegazione non convince e lascia aperti molti quesiti. Prendiamo ad esempio le entrate, che sono la voce di bilancio più sensibile all’andamento dell’economia. In linea di massima ci si può infatti attendere che una riduzione dell’1% del Pil nominale, rispetto a quanto previsto, provochi una riduzione percentuale analoga nel prelievo. Confrontando le stime contenute nel Dpef dello scorso anno (luglio 2002) con quelle di quest’anno, si osserva una riduzione del Pil nominale dell’1,6% per il 2003 e del 2,6% per il 2004. Ma le entrate si riducono molto di più. Osservando i dati relativi al bilancio programmatico dello Stato, il calo è del 4,8% per il 2003 (da 381,5 a 363,2 miliardi) e dell’ 8,3% per il 2004 (da 392,5 a 360 miliardi). Lo scostamento è ancora maggiore se si considera che il bilancio programmatico dello scorso anno non includeva gli introiti del condono.
Un analogo confronto per l’aggregato Amministrazioni pubbliche può essere effettuato solo per il 2003, utilizzando il quadro programmatico contenuto nella nota di aggiornamento al Dpef dello scorso anno, presentata nel settembre 2002, e il quadro tendenziale che emerge nel nuovo Dpef. Nelle due previsioni, il Pil nominale è pressoché invariato (1305 e 1303,7 miliardi di euro), mentre le entrate scendono di 10 miliardi di euro. A cosa è dovuta questa riduzione? Come si concilia con gli annunci ottimistici che il governo fa in occasione della presentazione dei dati mensili sull’andamento delle entrate? Dal lato delle spese le cose non vanno meglio: le spese complessive sono pressoché invariate, ma ciò è il risultato di minori interessi per circa 9 miliardi (da 78,2 a 69,3) compensati da maggiori spese. Lo scarto riguarda soprattutto la spesa corrente al netto degli interessi, che supera ora di 10 miliardi quanto programmato nel settembre 2002. Quali sono i motivi, posto che un obiettivo del governo era quello di tenere sotto controllo proprio queste spese?
Alla scarsa trasparenza dell’andamento dei conti pubblici e degli effetti che su di esso hanno avuto le politiche fin qui adottate dal governo, si associa la pressoché totale assenza di indicazioni sulle politiche che il governo intende perseguire.
Per il 2004 ci si limita a dire che è necessaria una manovra di 16 miliardi, di cui 10 saranno ancora interventi straordinari (nel settore immobiliare) e 5,5 di natura strutturale. Ma il governo non specifica in che misura questi interventi riguarderanno le entrate e/o le uscite, né le politiche allocative e distributive che intende effettuare. Tutto è rinviato alla legge finanziaria.

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Un nuovo Dpef?

Se questo è il quadro ben si comprendono i dubbi sull’utilità di uno strumento destinato comunque a divenire sorpassato quando sarà presentata la finanziaria. Perché, si dice, non spostare la presentazione del Dpef a dopo la pausa estiva, subito prima della legge finanziaria, quando il quadro degli interventi che il governo intende proporre sarà più chiaro?
L’esperienza del passato indica che vi sono ancora buoni motivi per tenere separato il momento della fissazione dell’obiettivo sul disavanzo, effettuato con il Dpef, da quello dell’individuazione del contenuto preciso della finanziaria (si veda Pisauro, 22-07-2003). Tuttavia, un Dpef come quello attuale, che in pratica si limita a fissare l’andamento dei saldi di bilancio e l’ammontare complessivo della manovra, potrebbe ben stare in poche pagine e un paio di tabelle, pur continuando ad essere presentato a giugno-luglio.

Neanche questa idea sembra però convincente, fondamentalmente per due motivi.

In primo luogo, non ci si dovrebbe limitare ai saldi di bilancio. Maggiore attenzione dovrebbe essere rivolta all’andamento dei principali aggregati di entrata e di spesa, sia per l’anno in corso, che costituisce base per le previsioni delle tendenze future, sia per il piano triennale programmatico. Per fare un esempio, oggi nel Dpef (e neanche, successivamente, dai documenti presentati in settembre) non  si trova una giustificazione della previsione tendenziale  della spesa sanitaria o di quella pensionistica e nessuna indicazione sulla previsione programmatica. Solo a partire dai livelli e dalle variazioni delle principali voci di spesa e di entrata è infatti possibile valutare a che punto è il governo con l’attuazione delle proprie politiche di settore, allocative e distributive, rispetto al quadro programmatico di legislatura,
In secondo luogo, l’attenzione dovrebbe essere maggiormente rivolta al quadro tendenziale e programmatico delle Amministrazioni pubbliche disaggregato per settori istituzionali. Non è un tanto problema di vincoli comunitari (per rispettare quelli basterebbero i saldi), quanto dell’evoluzione della nostra finanza pubblica verso un assetto federale. I documenti di bilancio presentati in settembre riguardano il bilancio dello Stato. Ma quest’ultimo ormai non rappresenta più adeguatamente il complesso della finanza pubblica. Parlamento e Governo centrale non sono gli unici centri decisionali. I crescenti poteri di entrata e di spesa attribuiti a Regioni ed Enti locali richiedono una revisione del modello di costruzione della politica di bilancio, che deve prevedere un coinvolgimento maggiore di questi enti nelle scelte che li riguardano. In concreto, il Dpef dovrebbe essere la sede dove si stabiliscono i rapporti tra finanza centrale (inclusi gli enti di previdenza) e amministrazioni locali. In questo modo, a giugno-luglio si avrebbe il quadro generale delle Amministrazioni pubbliche, distinto tra amministrazione centrale ed enti di previdenza, da un lato, e amministrazione locale, dall’altro, all’interno del quale Stato centrale e governi regionali e locali possano fare in settembre le proprie scelte di bilancio. Il modello attuale – regole per la finanza decentrata (il patto di stabilità interno) decise dal governo centrale in legge finanziaria – ha già mostrato lo scorso anno tensioni molto forti, destinate a divenire nei prossimi anni insopportabili.

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