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I costi della transizione

Opinioni autorevoli sostengono che la riforma delle pensioni non è urgente. È vero invece il contrario perché il sistema è già oggi in forte squilibrio e genera iniquità intragenerazionali oltreché fra giovani e anziani. Continuare a rinviare ogni decisione aggrava i problemi e ha costi politici elevati perché gli elettori invecchiano e diventano sempre meno favorevoli a riforme “eque”, che ripristino una uniformità di trattamenti fra giovani e anziani.
Con una replica di Eugenio Scalfari e risposte alle sue domande degli autori (nonchè gli articoli di Luciano Gallino ed Eugenio Scalfari precedentemente apparsi su “la Repubblica”) .

I costi della transizione

Prima Luciano Gallino, poi Eugenio Scalfari hanno recentemente cercato di fornire, sulle colonne di Repubblica, argomenti tecnici a supporto della tesi secondo cui un’ulteriore riforma del nostro sistema previdenziale non sarebbe urgente. Apprezziamo il tentativo di entrare nel merito dei problemi perché, spesso, di questi aspetti si discute con una miscela esplosiva di superficialità e ideologia. I muezzin cui fa riferimento Scalfari nel suo articolo abbondano da tutte le parti e, a giudicare dalla battuta d’arresto conosciuta dal processo di riforma del nostro sistema pensionistico dopo la caduta del Governo Prodi, i minareti che predicano lo status quo sono stati sin qui più efficaci nel chiamare a raccolta i fedeli.

Due i vizi di fondo del ragionamento di Gallino e Scalfari. Primo non ci danno strumenti per valutare l’urgenza di un intervento che essi stessi ritengono prima o poi necessario. Secondo, cadono in una serie di errori fattuali, alcuni dei quali fuorvianti.

Urgente? Quanto?

Partiamo dal primo problema. Oggi sono in discussione soprattutto i tempi del passaggio al sistema previdenziale (contributivo) introdotto dalla riforma Dini del 1995, più che il sistema previdenziale cui dovremo convergere fra più di mezzo secolo. Come è noto, la transizione al nuovo sistema sarà completa, nel senso che tutti i lavoratori e tutti i pensionati saranno interamente sotto il regime Dini, attorno al 2065, vale a dire settanta anni dopo la riforma.
Scalfari, per la verità, riconosce una seria difficoltà di equilibrio dei conti previdenziali per gli anni 2013-2030 (le previsioni più accreditate ci dicono che la “sofferenza” si protrarrà almeno fino al 2035) e accenna a problemi “per i giovani che hanno fatto o sperano di fare al più presto il loro ingresso nel mercato del lavoro“. Ma sposa la tesi (e i numeri) di Gallino secondo cui la riforma “è meno urgente di quanto non si dica”. Ignorando tre fatti: i) il sistema è già oggi in forte squilibrio, ii) genera gravi iniquità fra giovani e anziani e anche all’interno di ciascuna generazione e iii) un rinvio ulteriore ha costi politici elevati perché ogni anno che passa invecchiano gli elettori e i giovani avranno più difficoltà a far prevalere la decisioni a loro favore.

Il sistema è già in forte squilibrio

Scalfari sostiene che oggi il sistema pubblico sarebbe in disavanzo solo perché nella contabilità dell’Inps vengono erroneamente incluse spese di natura assistenziale, che giustamente ricadono sulla fiscalità generale. Tra queste ultime Scalfari include anche spese per cui è previsto un pagamento di contributi da parte di imprese e lavoratori, quali ad esempio le pensioni di invalidità. Il sottosegretario al Welfare Alberto Brambilla, prima ancora di Scalfari, aveva cercato di mostrare che la spesa pensionistica in Italia è molto più bassa di quanto misurato sulla base di parametri oggettivi, stabiliti da Eurostat, che classificano come spesa pensionistica tutti i trasferimenti concessi a chi ha un’età superiore a quella di pensionamento. Strano davvero un Paese in cui i politici o gli opinionisti si sostituiscono agli statistici!

Il significato di questa contabilità creativa

Onorato Castellino e Elsa Fornero mettono in luce gli enormi problemi concettuali associati a queste operazioni di contabilità creativa. Escludere dalla spesa previdenziale pubblica ogni intervento di tipo redistributivo è sbagliato perchè la previdenza pubblica attraverso questa redistribuzione copre rischi altrimenti non assicurabili, quali il rischio di longevità, interagito con il rischio di mercato. Il sistema pubblico, in altre parole, deve essere in grado di offrire una pensione minima anche a chi ha subito licenziamenti o ha accudito i figli trovando poi difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro, non riuscendo così ad accumulare un montante contributivo sufficiente a garantirsi un reddito minimo durante la propria vecchiaia. Analogamente, è prevista nei sistemi pensionistici di tutti i Paesi occidentali (persino negli Stati Uniti) una copertura contro il rischio individuale di invalidità. Non proponiamo certo il modello estremo delle “pensioni di cittadinanza”, cui tutti hanno diritto come cittadini indipendentemente dai contributi versati. In questo ultimo caso la distinzione tra previdenza e assistenza è irrilevante e tutte le prestazioni vengono finanziate dalla fiscalità generale (dalle tasse di tutti i cittadini). Ma Scalfari si spinge all’estremo opposto sostenendo che la previdenza pubblica debba rinunciare a ogni funzione redistributiva e replicare in tutto e per tutto un’assicurazione privata. Perché allora non privatizzare il sistema pensionistico tout-court?

Persistenti iniquità

Nicola Sartor documenta le iniquità intergenerazionali indotte dalla lunghissima transizione al sistema Dini. I giovani stanno già oggi pagando tasse molto più alte dei loro genitori e riceveranno pensioni molto più basse. In particolare, Sartor stima che ogni individuo delle generazioni esonerate dalla riforma del 1995 (quelle con almeno 18 anni di contributi nel 1996) abbia ricevuto un regalo di circa 12mila euro, pari a circa il 15 per cento dei trasferimenti che otterrà per il resto della sua vita. Se fossimo passati tutti subito al regime contributivo, pro-rata, vi sarebbe stato un risanamento pressoché completo nella finanza pubblica, il che avrebbe reso inutili ulteriori interventi, che finiranno, una volta di più, per ricadere sulle spalle dei più giovani.
Certo, come dice Scalfari, i giovani possono talvolta beneficiare della pensione ricevuta dai loro genitori. Ma sempre di meno perché le famiglie sono diventate più piccole. Inoltre, come sottolinea Vincenzo Galasso, questa spartizione della pensione dei genitori ha costi individuali (molti giovani magari preferirebbero uscire di casa) e aggregati (la famiglia come ammortizzatore sociale impedisce la mobilità, con costi elevati per il nostro sistema economico).
A queste iniquità intergenerazionali, si aggiungono le iniquità intragenerazionali, fra persone di una stessa età. Siamo l’unico paese in Europa in cui il grado di copertura delle pensioni (la percentuale di individui che ricevono una pensione) aumenta all’aumentare del reddito e dove chi va in pensione prima di raggiungere i 65 anni riceve trattamenti – in rapporto al reddito disponibile – molto vicini a quelli di chi va in pensione più tardi. Questo in virtù di privilegi accordati a categorie specifiche, quelle con maggiore potere contrattuale, come i dipendenti pubblici. Perché due operai che fanno lo stesso lavoro, hanno la stessa qualifica e anche la stessa storia contributiva dovrebbero andare in pensione a età diverse solo perché uno può godere della pensione di anzianità e l’altro no?

Costi politici

L’elettore mediano (si veda Galasso, 19-08-2002), quello verso cui convergono le piattaforme politiche in un sistema maggioritario, aveva nel 1992 (riforma Amato, quella che ha sin qui maggiormente contribuito al risanamento dei nostri conti previdenziali) 44 anni, ne ha oggi 46 e ne avrà 47 all’inizio della prossima legislatura, ne avrà 49 nel 2013 (quando forse, anche secondo Gallino e Scalfari, la riforma sarà urgente). Il sostegno alle riforme ha un chiaro profilo generazionale. Solo tra i giovani si trovano maggioranze favorevoli a riforme che accelerino la transizione al sistema Dini. Non a caso: i giovani hanno già pagato i costi della transizione a un sistema sostenibile, cioè in grado di mantenere le promesse nel corso del tempo. Aspettare farà ridurre il consenso per le riforme “eque”, che ripristinano una uniformità di trattamenti fra giovani e adulti. Che ci sia o che non ci sia un Governo Berlusconi nel nostro Paese. Perché è l’età che condiziona l’atteggiamento verso queste riforme. Non l’ideologia. Né è un problema di persuasione, come forse un po’ ingenuamente rileva Della Loggia sul Corriere della Sera del 17 luglio: l’Italia è il paese in cui si scrive di più di pensioni sulla carta stampata. Si scrive.

Errori

Nonostante il nostro mestiere, non ci piace additare gli errori altrui. Ma due di questi rischiano di risultare fuorvianti perché riguardano due variabili tutt’altro che nascoste e cruciali: il monte salari e la produttività del lavoro. Utile, dunque, segnalarli.
Primo, la quota del monte salari sui Pil è superiore al 60 per cento in Italia. Se fosse invece pari al 30 per cento, come sostenuto da Gallino, con un’aliquota contributiva del 30 per cento potremmo permetterci una spesa pensionistica sul Pil inferiore al 9 per cento. E, soprattutto, le pensioni sono un trasferimento di reddito già prodotto da altri, quindi non ha senso alcuno legare la dinamica delle pensioni alla quota di Pil generata dal lavoro. Tra l’altro i dati indicano che Paesi con sistemi pensionistici più generosi, come Francia, Germania e Italia , hanno subito le più forti riduzioni della quota salariale sul Pil, esattamente il contrario di quanto preconizzato da Gallino.
Secondo, la produttività del lavoro è cresciuta negli ultimi dieci anni in Italia a un modesto 1 per cento all’anno. Negli ultimi due anni è addirittura diminuita perché l’occupazione è aumentata (bene!) anche quando il prodotto non cresceva. Ipotizzare un tasso di crescita della produttività del lavoro del due per cento all’anno nei prossimi trenta anni è irrealistico almeno quanto postulare (il primo Dpef dell’era Berlusconi) tassi di crescita del Pil del 3-4 per cento all’anno.
Invece di fantasticare su tassi di crescita di cui abbiamo perduto la memoria, varrebbe la pena di provare a vedere se, alleggerendo la tassazione sul lavoro, si riesce a crescere più in fretta.

Le variabili nascoste – di Luciano Gallino

Vi sono fenomeni della natura di cui è possibile costruire una spiegazione molto complicata solo assumendo che esistano delle variabili nascoste alla percezione dell’ osservatore. Esistono invece dei fenomeni sociali che vengono spiegati con grande semplicità dallo stesso osservatore nascondendo al pubblico la maggior parte delle variabili. Rientrano in questa categoria le proposte di riforma delle pensioni ipotizzate dal governo. Esse fanno seguito alle sollecitazioni da tempo trasmesse da istituzioni quali la Commissione Europea, l’ Ocse, il Fmi, la Banca d’ Italia, la Confindustria e di recente anche la Corte dei Conti. In tali proposte e sollecitazioni sono sempre poste in primo piano due variabili dal peso innegabile. La prima è l’ invecchiamento della popolazione. Da un lato è aumentato e continuerà ad aumentare il numero di persone che vivono più a lungo che non una o due generazioni fa; dall’ altro, la caduta dei tassi di natalità ha fortemente ridotto il numero dei giovani che entrano nel mondo del lavoro. Perciò i contributi degli occupati non basteranno più, in prospettiva, a pagare le pensioni. La seconda variabile è l’ incidenza delle pensioni pubbliche sul Pil. Essa toccava già al 2000 il 13,8%, ma potrebbe salire di quasi due punti tra il 2030 e il 2040, per ridiscendere poi al 14% verso il 2050. Il bilancio dello Stato, si ricorda, non potrebbe sopportare un simile onere, men che mai a fronte delle esigenze del patto di stabilità. Se ci si limita a considerare dette variabili, come in genere avviene, gli interventi da compiere sul sistema pensionistico appaiono predefiniti e inevitabili. Bisogna elevare al più presto l’ età di pensionamento, a cominciare dalle pensioni d’ anzianità. Al tempo stesso si dovrebbe tagliare il livello delle pensioni a venire, mediante dispositivi quali, per dire, il passaggio generalizzato al metodo contributivo. In tal modo si otterrebbe di farle scendere di parecchi punti percentuali al disotto del livello attuale, che corrisponde in media a un po’ meno del 70% dell’ ultima retribuzione percepita (che non è propriamente un lusso). In questa direzione si muovono appunto i progetti di riforma ventilati dal governo. Ciò nondimeno il problema pensioni non è formato solamente da variabili quali l’ invecchiamento della popolazione o l’ incidenza della spesa pensionistica sul Pil. Ve ne sono parecchie altre che dovrebbero entrare a pari titolo nella pubblica discussione. Una di queste è la produttività, intesa come quota di Pil prodotta per ora di lavoro. Si stima che essa cresca in media di poco meno del 2% l’ anno. Rivisitate tenendo presente questa variabile, le previsioni circa il futuro andamento del rapporto tra le persone in età lavorativa (15-64 anni) e gli over 65 che si trovano nei rapporti della CE perdono gran parte della loro drammaticità. Infatti, ammesso che si passi dalla situazione odierna – 4 persone in età lavorativa per 1 anziano – ad un rapporto di 2 a 1 al 2050, l’ aumento cumulativo della produttività significa che i due lavoratori del 2050 produrranno una quota di Pil, in termini reali, all’ incirca equivalente a quella dei quattro lavoratori di oggi. I due lavoratori di domani non faranno quindi più fatica dei quattro di oggi a sopportare l’ onere di pagare la pensione a un anziano. Si può obiettare al riguardo che non è pensabile che tutto l’ incremento di produttività se ne vada nel finanziare le pensioni del futuro. L’ obiezione starebbe in piedi, se non inciampasse subito in un’ altra variabile nascosta, il peso relativo dei redditi da lavoro sul Pil. Secondo vari indicatori esso è fortemente diminuito negli ultimi due decenni. Una ricerca appena pubblicata dall’ Ires stima che la quota del monte retribuzioni lorde sul Pil abbia perso in tale periodo oltre il 6%, scendendo dal 36,1% al 30%. Un’ altra ricerca dell’ Università di Pavia ha calcolato in oltre 7 punti percentuali la riduzione della quota di Pil disponibile alle famiglie consumatrici negli anni Novanta. Sei-sette punti di Pil non sono bruscoli: in moneta attuale equivalgono a 80-90 miliardi di euro l’ anno. Ora, poiché le pensioni non sono altro che retribuzioni differite, un taglio alle pensioni aggiungerebbe col tempo, a tale salasso già subito dai redditi da lavoro, un’ altra sottrazione dell’ ordine di decine di miliardi di euro l’ anno. Liberali come Ronald Dworkin, Michael Walzer, o Amartya Sen, avrebbero difficoltà ad ammettere che saremmo qui in presenza di eque forme di uguaglianza, o di un’ accettabile giustizia sociale. Vi sono poi alcune variabili, finora nascoste nel dibattito sulle pensioni, identificabili nella qualità del lavoro che le persone svolgono, e nell’ uso delle forza lavoro che le imprese fanno. Si pretenda da una persona di svolgere per decenni un lavoro che a causa del modo in cui è organizzato e dell’ ambiente in cui ha luogo è logorante per le braccia e per la mente, od è ciecamente subordinato e ripetitivo, o tutt’ e due le cose insieme. Non ci si dovrebbe stupire se appena si avvicina a maturare i requisiti necessari essa si accinge ad andare in pensione, anche se è ancora relativamente giovane. Naturalmente non v’ è dubbio che realizzare forme di organizzazione del lavoro più rispettose delle persone, dei loro bisogni di creatività, di un lavoro che abbia un senso, di riconoscimento, sia assai più difficile che non emanare un decreto che impone loro di andare in pensione due o cinque anni più tardi. Quanto alle imprese, sarebbe opportuno richiedere loro un piano dettagliato in cui spiegassero come pensano di conciliare le loro pressanti richieste di allungamento dell’ età lavorativa, con le loro pratiche quotidiane di assillante ricerca di forza lavoro sempre più giovane. Le ragioni di tali pratiche sono chiare: i giovani posseggono nozioni culturali e tecniche più aggiornate. Soprattutto costano meno. Ma occorrerebbe pur porre riparo, almeno sul piano della forma, ad una situazione che vede il massimo dirigente di un’ azienda tenere a un convegno una relazione circa l’ assoluta necessità di ridurre l’ incidenza del carico pensionistico sul Pil, elevando fortemente l’ età di pensionamento in modo da recuperare risorse per “la competitività e lo sviluppo”; intanto che, lo stesso giorno, il suo direttore del personale spiega a un tecnico, un quadro, un operaio, o una dirigente, che a quarantacinque anni le loro competenze sono ormai obsolete, ergo in azienda non c’ è più posto per loro. Introdurre nel dibattito sulle pensioni le variabili finora nascoste non aiuterebbe presumibilmente ad accelerare una riforma del sistema, quand’ anche si continuasse a reputarla indispensabile. Ma potrebbe servire a dimostrare che essa è forse meno urgente di quanto non si dica. Soprattutto conferirebbe maggior equilibrio al dibattito. Finora la scena di questo, si dovrebbe riconoscere, è stata dominata dagli argomenti cari, e utili, a una parte sola.

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I conti truccati sull’allarme pensione – di Eugenio Scalfari

CHE il «Welfare» delle pensioni europee debba essere profondamente riformato è convinzione generale: ci obbliga a farlo la demografia, il crescente numero di anziani e di vecchi e l’ insufficiente andamento delle nuove nascite. In Germania il cancelliere Schroeder vi ha finalmente messo mano con l’ appoggio della Spd, il suo partito socialdemocratico finalmente convinto nella sua interezza a sostenerne la necessità. In Francia, dove la sinistra è all’ opposizione, il presidente del Consiglio, Raffarin, ha anch’ egli portato avanti la riforma nonostante le imponenti manifestazioni di piazza della «gauche» e dei sindacati. Da noi la situazione politica è notevolmente diversa: non solo vi si oppongono la Cgil e tutta l’ opposizione parlamentare sia pure con diverse sfumature, ma anche i sindacati «trattativisti» (Cisl e Uil), la Lega e settori consistenti di An e perfino dell’ Udc di Follini. Il segretario della Cisl, Savino Pezzotta, sostiene che in Italia la riforma è stata già fatta nel ‘ 95 e ha dato buona prova rimettendo su basi solide il sistema pensionistico. Alcune (serie) difficoltà si preannunciano tra il 2013 e il 2030, dopodiché l’ equilibrio sarebbe nuovamente garantito almeno fino alla metà del corrente secolo. Si tratterebbe quindi di affrontare a tempo debito le contromisure per superare l’ ostacolo. Perciò nessuna urgenza attuale e se ne riparli tra nove anni. Ma la Confidustria incalza giudicando il problema gravissimo e urgentissimo; le autorità economiche internazionali mettono fretta; il governo è incerto e diviso. Per quanto si riesce a capirne la riforma della riforma sarà ancora una volta rinviata di sei mesi, cioè dopo la fine del famoso semestre europeo di Berlusconi. Sono ormai infiniti gli appuntamenti rinviati al gennaio 2004: la vera verifica politica nella Casa delle libertà che andrebbe opportunamente ridefinita come la Casa delle risse; la «devolution» bossiana; i processi di Silvio Berlusconi; la legge Gasparri sul riassetto del sistema televisivo; le misure di finanza pubblica una volta esauriti tutti i condoni possibili e immaginabili; una nuova (?) legge elettorale; la riforma (?) della giustizia; le grandi opere pubbliche tuttora al palo; il «premierato» cioè una qualche forma di presidenzialismo. Tutto ciò a partire dal gennaio prossimo, cioè a due anni e mezzo dall’ inizio di una legislatura che finora è stata quasi esclusivamente impegnata a tutelare gli interessi personali del presidente del Consiglio e del gruppo di potere che si è formato attorno a lui. Nessuno crede che un accumulo di problemi di queste dimensioni possa consentire soluzioni rapide ed efficienti, ma il catalogo comunque è questo. Chi vivrà vedrà. E’ nostro fondato parere che rinviare di sei mesi (in pratica a tempo indeterminato per le ragioni sopra dette) la riforma della riforma pensionistica effettuata nel ’95 sia un errore che dovrebbe essere evitato nell’ interesse soprattutto dei giovani che hanno fatto o sperano di poter fare al più presto il loro ingresso nel mercato del lavoro. Ma va detto subito che l’ intero tema delle pensioni ha dato vita ad una vera e propria leggenda metropolitana, alias ad una confusione di concetti e ad un polverone mediatico così fitto da nascondere la realtà dei fatti e la vera natura della questione. E’ perciò mia intenzione cercar di diradare la nube di polvere e di chiacchiere, a crear la quale hanno in questi anni e in questi mesi contribuito alacremente molti belli ingegni, economisti esperti politici imprenditori in discorde concordia con l’ obiettivo di trasformare il tema pensioni in un «marker» del tasso di riformismo presente nella società italiana. Dalla riforma della riforma questi «muezzin» che la invocano a gran voce dai vari minareti mediatici dei quali dispongono dicono infatti di aspettarsi: un nuovo «welfare» modellato sulla modernità, il riassetto economico del sistema secondo le esigenze della demografia italiana, il riassetto della finanza pubblica schiacciata dal disavanzo dell’ Inps, il rilancio dell’ economia, l’ accrescimento della competitività, la nascita (finalmente) dei fondi pensione. Insomma un vero paese di Bengodi a portata di mano purché ci si convinca a mandar la gente in pensione qualche anno più tardi e ad applicare una energica terapia di dimagrimento alle pensioni di anzianità. La leggenda metropolitana consiste appunto in quest’ elenco di benefici effetti che ci dovrebbero cadere in bocca come pere mature dall’ albero della cuccagna e che invece ci sono preclusi dall’ ostinazione incomprensibile di Epifani e Pezzotta, Fassino e Cofferati, Rutelli e Bertinotti, cioè dai comunisti ancora aggrappati alle loro impresentabili ideologie. Ebbene, le cose non stanno affatto così come andiamo a dimostrare.

Cominciamo anzitutto da una falsità sulla quale è stata costruita la leggenda metropolitana delle pensioni «rovinatutto»: l’ insostenibile disavanzo dell’ Inps che grava come un macigno sui conti dello Stato. Fino al 1999 i conti previdenziali dell’ Inps erano in perfetto pareggio: tanto spendeva per pensioni e tanto incassava di contributi, ancorché alcune gestioni di lavoratori autonomi e professionisti, nate in epoche relativamente recenti, presentassero cospicui disavanzi. Ora le cifre aggiornate sono le seguenti: spese pensionistiche contributive 145 miliardi; entrate per contributi 134 miliardi; sbilancio 11 miliardi. Ma ecco l’ inghippo: le uscite pensionistiche totali dell’ Inps non sono di 145 bensì di 174 miliardi di euro. Lo sbilancio totale sale dunque a 40 miliardi. Di che si tratta? E’ colpa dell’ età pensionabile e troppo giovanile? E’ colpa del sistema retributivo? E’ colpa delle pensioni di anzianità? Niente affatto. Si tratta semplicemente del fatto che quei 29 miliardi di sbilancio (più gli 11 dovuti a disavanzo contributivo) sono da imputare non già al sistema della previdenza bensì a quello dell’ assistenza sociale. E cioè: pensioni d’ invalidità, pensioni sociali o di povertà, integrazioni al minimo. Questo robusto complesso di erogazioni non ha niente a che vedere con la previdenza. Se un lavoratore incorre in un incidente sul lavoro gli viene assegnato un vitalizio proporzionato all’ età e alla natura dell’ invalidità; l’ Inps funge soltanto da sportello pagatore. Se un povero diventa vecchio gli viene assegnata una pensione sociale che lo tenga in vita; se la pensione di un anziano, a causa di scarse sue contribuzioni, è al di sotto del livello minimo di sussistenza, lo Stato integra la somma per portarla a un livello appena decente. Risulta evidente a tutti – e lo capirebbe anche un bambino – che queste spese sono di natura assistenziale e non previdenziale; infatti non hanno a fronte alcun contributo e debbono pertanto essere finanziate dalla fiscalità generale. Però passano attraverso l’ Inps e quindi i nostri «muezzin» gracchiano che le pensioni creano un onere di 40 miliardi l’ anno a carico del Tesoro, cioè di tutti noi. Falso, assolutamente falso. Il bello è che questa panzana è accreditata dall’ autorevole (?) ministro del Tesoro che queste cose le dovrebbe sapere meglio di tutti. Il deficit falsamente attribuito alle pensioni contributive si ripercuote sull’ incidenza della spesa pensionistica sul Pil. In effetti questo rapporto risulta essere tra i più alti d’ Europa, pari al 13.80 per cento, inferiore soltanto all’ Austria (14.50) e prossimo alla Grecia (12.60) alla Francia (12.10) alla Germania (10.80) ai Paesi scandinavi tutti posizionati attorno al 10 per cento. Se le cifre della gestione previdenziale fossero correttamente computate la loro incidenza sul Pil sarebbe non già del 13.8 ma dell’ 11.4 per cento. Ancora più basso sarebbe il rapporto se la gestione contributiva non fosse stata aggravata dal passaggio all’ Inps di tutto il personale ferroviario (in realtà pubblico impiego) che si è portato appresso un robusto disavanzo scaricato perciò dal Tesoro all’ Istituto di previdenza. Si scenderebbe in tal caso sotto all’ 11 per cento a poca distanza cioè dalla media dell’ Unione europea che incide sul Pil per il 10.40 per cento. Tutto ciò in anni di vacche magrissime per il Pil italiano. Se esso riacchiappasse sia pure il modesto tasso di crescita del 2 per cento l’ incidenza del disavanzo pensionistico diminuirebbe ancora. In conclusione l’ idea fissa che le pensioni schiaccino l’ economia del nostro paese è una falsità cifre alla mano. 

 Ma è vero che i giovani lavorano per mantenere i vecchi. Tra pochi anni due giovani porteranno sulle spalle un vecchio. Fu Ugo La Malfa, se non ricordo male, a lanciare per primo questa plastica immagine per spiegare la nostra anomalia pensionistica e i suoi perversi effetti causati dalla senilità demografica del paese. Ferma restando l’ esattezza dell’ immagine lamalfiana invito a riflettere su un fenomeno di dimensioni ormai macroscopiche: la prolungata e spesso prolungatissima convivenza dei figli adulti in casa dei genitori, spesso anche da sposati e talvolta perfino con un nonno convivente. Questo fenomeno di massa, specie nel Centrosud, è dovuto a molti elementi tra i quali campeggia il reddito pensionistico del padre o della madre o del nonno o di tutti e tre. E’ dunque senz’ altro vero che i lavoratori giovani tengono sulle spalle i loro vecchi, ma è del pari vero il reciproco. Un’ analisi attenta dovrebbe incrociare questi due fenomeni e vedere da quale parte inclina la bilancia. Ci potrebbero essere molte sorprese.

Mi hanno colpito due osservazioni di Luciano Gallino, che è uno dei massimi esperti su questi argomenti, contenute in un articolo pubblicato di recente su “Repubblica”. Scrive Gallino che la produttività intesa come quota di Pil prodotto per ora lavorativa, aumenta mediamente di circa il 2 per cento l’ anno. Cumulando questo aumento e proiettandolo al 2050 si registra un raddoppio di produttività. Ciò significa che se oggi quattro lavoratori portano sulle spalle un anziano e nel 2050 questa anomala portantina sarà diventata di due giovani lavoratori per ogni vecchio, la fatica dei due sarà però identica a quella dei quattro di oggi. Altra osservazione: una ricerca dell’ università di Pavia ha calcolato inoltre 7 punti percentuali la quota Pil disponibile per i consumi delle famiglie negli anni Novanta. Nello stesso periodo la quota del monte retribuzioni lorde sul Pil è scesa dal 36 al 30 per cento. «Un taglio alle pensioni – scrive Gallino – aggiungerebbe a tali salassi già subiti dai redditi di lavoro un’ altra sottrazione di diecine di miliardi di euro l’ anno» . Vedete voi se conviene. 

 Penso, ciò nonostante, che sia utile decidere al più presto il passaggio di tutti i lavoratori dal sistema retributivo a quello contributivo. La stessa Cgil fin dal 1998 si dichiarò favorevole a questo cambiamento e spero che ancora lo sia. Se ne acquisterebbe in certezza del diritto e in solidità del sistema. Si tratta in altri termini di accelerare i tempi della riforma Dini di quattordici anni creando le condizioni per superare la «gobba» sfavorevole del 2013-2030. Ma questa riforma della riforma, che può coesistere con incentivi a restare al lavoro oltre i sessantacinque anni, è accettabile soltanto ad una tassativa condizione: che i risparmi così effettuati siano destinati interamente a creare il sistema di ammortizzatori sociali e tutele attualmente inesistente per gran parte dei lavoratori. A parole tutti sono d’ accordo ma nessuno fin qui ha detto ciò che in molti pensiamo: essendo il governo Berlusconi largamente inaffidabile e ben collaudato in promesse non mantenute, il passaggio al sistema contributivo deve avvenire in una legge che provveda contestualmente alla nascita di un completo sistema di ammortizzatori sociali da discutere insieme alle parti sociali. O così o niente. Il lavoro italiano ha già dato molto e non può più regalare niente a nessuno. Soprattutto non può esser preso in giro con promesse da marinaio.

A che cosa deve servire la riforma delle pensioni – replica di Eugenio Scalfari, apparsa su “la Repubblica” del 19 luglio 2003

HO MOLTA stima per le qualità di studioso di Tito Boeri, tanto che, prima di scrivere il mio articolo sul sistema pensionistico di domenica scorsa, mi premurai di cercarlo e parlarci il che avvenne in una lunga conversazione telefonica. Debbo dire che le opinioni e i dati che ci scambiammo mi indussero a ritenere che le nostre posizioni – per una quota marginale differenti – fossero largamente simili. Ma ho appreso leggendo il suo articolo di ieri su Repubblica congiuntamente firmato con Agar Brugiavini, che non era così.
Probabilmente avevo capito male (può succedere) oppure Boeri cambia tono e motivazioni secondo l´interlocutore (può accadere anche questo).
Comunque risponderò alle contestazioni di Boeri-Brugiavini con la stessa ruvida cortesia cui il loro pregevole testo è improntato. Lo farò procedendo per punti affinché la mia risposta risulti il più possibile chiara. Ma anzitutto una premessa: a me non piacciono le guerre tra poveri e tanto meno quelle tra generazioni. Sostenere una qualunque tesi in nome dei giovani contro i vecchi o viceversa mi è sempre parso un brutto esercizio retorico, spesso fondato su una distorta presentazione degli argomenti. Quand´anche vi siano iniquità generazionali, lo sforzo di chi affronta il problema mi sembra debba essere quello di risolverlo tenendo conto degli interessi di tutti contemperandoli nei limiti del possibile. Del resto la grande politica ha sempre obbedito a questo canone. In una democrazia ben funzionante i tecnici prospettano, i politici decidono. Se i tecnici pretendono d´esser loro a decidere vuol dire che in quella democrazia qualche cosa non funziona bene.
Fine della premessa e veniamo ai punti.
1. Il senso politico del mio articolo di domenica scorsa era la necessità di passare dall´attuale sistema ancora largamente retributivo al contributivo generalizzato e di incentivare i lavoratori a prolungare la loro permanenza al lavoro spostando dunque in avanti la loro uscita dal sistema. Mi era parso di capire che questi fossero anche gli obiettivi di Boeri, ma ora non ne sono più così sicuro. Comunque non mi sento affatto in mezzo al guado: contributivo generalizzato e allungamento volontario e incentivato dell´età lavorativa. Se bisognava scegliere una posizione, la mia è questa.
2. Ho soggiunto però che i risparmi nella spesa pensionistica così ottenibili non dovrebbero essere utilizzati al di fuori della spesa sociale complessiva la quale – è opportuno ricordarlo – è tra le più basse dell´Unione europea. Noi manchiamo quasi del tutto di ammortizzatori sociali e abbiamo un sistema di tutele sommamente carente che lascia scoperti alcuni milioni di lavoratori specie quelli regolati dalle normative sulla flessibilità. Il contributivo generalizzato dovrebbe servire secondo me a finanziare almeno in parte il sistema delle nuove tutele. Coloro che saranno penalizzati dall´estensione del contributivo avranno almeno la soddisfazione di poter costruire con il proprio sacrificio e la propria attiva partecipazione il nuovo welfare. Non ho però letto nulla in proposito nel testo Boeri-Brugiavini. Ne debbo dedurre che non sono d´accordo? Ne sarei assai stupito. In tal caso domanderei: perché?
3. Mentre mi dichiaro d´accordo – e l´ho già detto – con il prolungamento volontario e perfino incentivato dell´età di lavoro, pongo tuttavia una domanda a me stesso, ai responsabili politici del welfare e anche ai due insigni studiosi che sono in questa occasione i miei interlocutori: siamo di fronte in Italia, in Europa, in Usa, a una massiccia disoccupazione giovanile che si stenta a far diminuire. Come si concilia questo fenomeno e la politica che tende a combatterlo con la permanenza più lunga al lavoro dei già occupati? I due obiettivi – contenere la disoccupazione giovanile, prolungare la permanenza dei vecchi occupati – non sono palesemente contraddittori? Non si danneggiano in questo caso i giovani favorendo i vecchi? Vedete, cari Boeri-Brugiavini com´è facile rivoltare la frittata e dimostrare l´opposto di quanto era stato sostenuto appena due righe prima? Vedete come le verità che sembrano assiomatiche, specie in materie così opinabili, hanno più la fragilità del vetro che la durezza del diamante?
4. I miei interlocutori sostengono che il sistema pensionistico è già in grave squilibrio senza dovere aspettare la “gobba” del 2013-2030. Per sostenere quest´assunto essi negano che si possa distinguere tra previdenza e assistenza; in particolare per le pensioni d´invalidità, una parte delle quali è finanziata da contributi dei lavoratori e dei datori di lavoro. Sono a dir poco stupefatto da queste affermazioni. La pensione non è, in sostanza, che salario differito, esattamente come la liquidazione. Non a caso infatti siamo stati tutti d´accordo, almeno a parole, di trasferire il trattamento di fine rapporto a un sistema di pensioni integrative. L´assistenza è certamente una spesa sociale ma nient´affatto previdenziale. Considero dunque una delle tante “furbate” del fisco quella di addossare ai lavoratori e ai datori di lavoro una parte del finanziamento delle pensioni d´invalidità: si sgrava il Tesoro e si manda in disavanzo l´Inps. E poi si scarica sui pensionandi l´onere di simili operazioni. Al mio paese questo si chiama il gioco delle tre carte.
Voi come lo chiamereste?
5. Non c´è dubbio che se un lavoratore si rompe una gamba sul lavoro o un cittadino italiano è privo di reddito al di sotto della pura sussistenza, la comunità deve intervenire per aiutarlo. Che cosa c´entra la previdenza? Previdenza significa risparmiare pensando alla propria vecchiaia. In pura teoria si possono abolire sia le pensioni che le liquidazioni (che in molti paesi infatti non ci sono) trattandosi di salari differiti si può renderli interamente attuali e affidarli oggi, non domani, al destinatario cioè al lavoratore. Tremonti ne sarebbe felice: molto meglio che ipotecare la casa per comprarsi il frigorifero. Vogliamo completare lo smantellamento del futuro che è già un pezzo avanti con i contratti di lavoro precari, e concentrare interamente sul presente la ricerca della felicità? È questa la vostra tesi?
6. Dicono i miei interlocutori che le pensioni hanno anche un contenuto redistributivo; se fossero soltanto il puro risultato dei contributi versati tanto varrebbe – essi sostengono – trasformarle in assicurazioni private. Io penso all´opposto che le pensioni non debbano avere alcuna funzione redistributiva; penso anche che la previdenza sia un obbligo, come l´assicurazione contro i sinistri automobilistici. Penso infine che l´obbligatorietà comporti una gestione pubblica e non una gestione privata.
L´obbligo crea infatti un monopolio nell´offerta o la collusione inevitabile tra i titolari dell´offerta; a situazione di questo genere si reagisce con la gestione pubblica dell´offerta del servizio. Si tratta di concetti elementari per chiunque abbia letto non Carlo Marx ma Luigi Einaudi o De Viti De Marco.
7. Il comune amico Vincenzo Visco, della cui scienza ho di solito piena fiducia, su questa materia coltiva una sua bizzarria. Se ho capito bene il suo pensiero, vorrebbe addossare tutto il complesso delle spese di assistenza e di previdenza alla fiscalità generale e abolire ogni contribuzione. L´idea ha una sua genialità. Personalmente se fosse attuata ne sarei atterrito. Mi piacerebbe conoscere in merito l´opinione di Boeri-Brugiavini.
8. Tagliare nel settore dei pubblici dipendenti qualche privilegio di troppo e qualche palese iniquità mi pare un sacrosanto obiettivo. Su questo punto sono del tutto d´accordo con i miei cortesi e dotti interlocutori. Anche qui però mi permetto d´attirare l´attenzione su un punto: centinaia di migliaia di pubblici dipendenti aspettano il rinnovo dei loro contratti da quasi due anni. Lo Stato ha mille ragioni per voler modernizzare le prestazioni e le normative degli statali, purché da parte sua non sia inadempiente. Altrimenti diventa un datore di lavoro inaffidabile.
Post scriptum. Considererei un obbrobrio giuridico ed etico chiudere o diminuire le cosiddette “finestre” di pensionamento nei prossimi dodici mesi come il ministro del Tesoro vagheggia. Spero che Tremonti non ci provi. Se ci provasse spero che sia battuto in Parlamento. Certamente lo sarebbe nel paese.

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Lettera di Tito Boeri a “la Repubblica”, 20 luglio 2003

Caro Direttore,


Eugenio Scalfari nel suo intervento di ieri giunge a ipotizzare che io cambi opinione a seconda dell’interlocutore che ho di fronte. Per mia fortuna non ho la consuetudine di improvvisarmi a parlare di cose che non conosco e, dunque, non è dall’altro ieri che scrivo (oltre che parlare per telefono) di pensioni. Ai lettori giudicare la coerenza delle mie posizioni.

Non ho neanche la pretesa, pure attribuitami da Scalfari, di decidere sostituendomi ai politici, schierando artatamente i giovani contro gli anziani. Proprio perché non amo i conflitti inutili trovo pericoloso sostenere, come pure fa Scalfari nel suo articolo, che l’allungamento della vita lavorativa sia inconciliabile con la riduzione della disoccupazione giovanile. basta guardare molto vicino per accorgersene. Nei paesi, come l’Italia, dove i giovani faticano a trovare un lavoro, si va in pensione prima. insomma, non c’è un numero fisso di posti di lavoro da spartirsi fra giovani e anziani.

Trovo, comunque, utile il confronto con influenti e acuti opinionisti come Scalfari. Per questo motivo, con Agar Brugiavini risponderò su www.lavoce.info (dove peraltro è disponibile la versione integrale del nostro intervento, oltre che i testi di Gallino e Scalfari) alle diverse domande posteci ieri da Scalfari.

Tito Boeri

Le risposte di Boeri e Brugiavini a Eugenio Scalfari

I costi della transizione 2: una risposta alle domande di Eugenio Scalfari

Premessa

Siccome i politici decidono e i tecnici prospettano, ci pare doveroso fare il nostro lavoro di tecnici rispondendo ai quesiti postici da Scalfari nella sua replica al nostro articolo. Può contribuire a ridurre la confusione imperante nel dibattito sulla riforma previdenziale. E’ con questo spirito, del resto, che avevamo deciso di intervenire in prima battuta in risposta a Scalfari: il suo articolo legittimava, sulla base di argomentazioni prive di supporto scientifico, un ennesimo rinvio delle riforme, ignorando il fatto che ogni giorno di rinvio ha dei costi. Il rinvio, peraltro, non ha alcun bisogno di essere incentivato presso l’opinione pubblica: prevalgono in Italia le spinte a procrastinare le riforme, come confermato anche dal sondaggio di cui riporta la Repubblica del 20 luglio.

Le guerre fra poveri

A nessuno piacciono le guerre tra poveri. Ma, volenti o nolenti, in Italia la quota maggiore di poveri si trova tra i giovani: giovani disoccupati e giovani famiglie con molti figli a carico. Come documentato nel nostro articolo, molti trattamenti pensionistici in essere riproducono il paradosso di un Robin Hood al contrario: tolgono ai poveri per dare ai ricchi. E i costi del passaggio ad un sistema pensionistico che – a regime – sarà in larga misura sostenibile, sono sin qui ricaduti solo sulle giovani generazioni. Anche se i sondaggi non mettono in luce un forte senso di solidarietà delle generazioni più anziane nei confronti dei loro figli e nipoti (queste riconoscono che il sistema è insostenibile, ma non vogliono riformarlo), è legittimo interpretare i dati sui trasferimenti privati tra genitori e figli (ad esempio per l’acquisto della casa) come una forma di solidarietà intergenerazionale. Proprio per far leva su questa solidarietà, occorre spiegare all’opinione pubblica le redistribuzioni tra generazioni operate oggi dal nostro sistema pensionistico. Se motivata e spiegata con chiarezza, una riforma potrebbe oggi trovare il necessario consenso politico, mentre tra qualche anno, quando i giovani che hanno già pagato il conto (e tutti quei lavoratori a cui le riforme hanno già ridotto le prestazioni future) si troveranno una seconda bolletta da pagare, potrebbero non essere d’accordo. Non si può chiedere sempre agli stessi individui di essere solidali!

Gli ammortizzatori sociali

Uno di noi due ha scritto un libro (Meno Pensioni, Più Welfare, Il Mulino, 2002, con Roberto Perotti) proprio per spiegare la necessità di introdurre un vero sistema di ammortizzatori sociali nel nostro paese. La nostra difesa delle statistiche Eurostat sulla composizione della spesa sociale in Europa (messe in discussione dal sottosegretario Brambilla e da Scalfari) vuole anche contrastare il tentativo di far apparire il nostro sistema come meno squilibrato di quanto in effetti sia. L’introduzione nel nostro paese di un reddito minimo garantito ha un costo elevato e, quindi, andrebbe finanziata anche con riduzioni della spesa previdenziale (non è politicamente sostenibile un aumento della pressione fiscale).  Ma non vi sono ragioni per condizionare una riforma delle pensioni all’introduzione di ammortizzatori sociali che, tra l’altro, servirebbero soprattutto a tutelare i più giovani, su cui oggi è particolarmente concentrato il rischio di perdita del posto di lavoro. In altre parole la riforma delle pensioni va attuata comunque. Una ragione in più per farla in fretta è che permetterà, almeno in parte, di finanziare un istituto come il reddito minimo garantito di cui si avverte forte il bisogno nel nostro paese.

La leggenda del numero fisso di posti di lavoro

Siamo d’accordo con Scalfari che bisogna essere onesti con chi spera di inserirsi nel mondo del lavoro e acquisire indipendenza. Proprio per questo occorre non invocare conflitti che non hanno fondamento né nella teoria economica, né, soprattutto, nei dati. C’è una vecchia leggenda metropolitana che Scalfari vuole far propria: quella secondo cui i lavoratori che escono presto dalle forze di lavoro lasciano il posto ai giovani disoccupati. E’ una leggenda che è stata spesso utilizzata per giustificare trattamenti di favore a gruppi dotati di maggiore potere contrattuale. Il mercato del lavoro non funziona come nel gioco delle “musical chairs”, per cui su un numero fisso di sedie si alternano i molti disoccupati che vi girano intorno e solo, una volta seduti, trovano finalmente un lavoro. Non c’è bisogno di far alzare i “vecchi” per far posto ai “giovani” perché i posti di lavoro non sono in numero fisso: si creano e si distruggono (ormai persino nel settore pubblico) e sono soggetti al ciclo economico. Un’economia in salute crea occupazione, mentre un sistema previdenziale pubblico che costa molto perché concede ad alcuni uscite anticipate fatica a creare lavoro, soprattutto per i più giovani. Chi esce anticipatamente dalle forze di lavoro rappresenta, infatti, un doppio aggravio per chi lavora: un contributo in meno e un esborso in più per ciascun anno di anticipo.

Assistenza e previdenza

E’ dannoso fare riferimento alla separazione tra assistenza e previdenza – definite ex post ed in maniera arbitraria — per dimostrare che non c’è disavanzo e che quindi possiamo stare tranquilli. E’ anche sbagliato con lo stato sociale che ci ritroviamo.  Il sistema previdenziale pubblico nasce proprio per coprire rischi non coperti dal mercato assicurativo, un mercato affetto da selezione avversa e azzardo morale. Il sistema pensionistico pubblico è anche affetto dal problema del “free rider”. Questi fenomeni pongono allo Stato l’onere di non lasciare in povertà gli sfortunati. E sono proprio questi fenomeni a giustificare l’obbligatorietà del sistema. Il lavoratore, contribuendo, acquisisce un “pacchetto assicurativo” vecchiaia-invalidità-superstiti. L’invalidità è quindi, a pieno titolo, una prestazione assicurativa. Attenzione poi a non confondere l’infortunio (l’operaio che si rompe una gamba) con l’invalidità (l’impossibilità accertata – con diversi gradi di gravità- a svolgere un’attività lavorativa). A questa funzione assicurativa si sono tradizionalmente accompagnate delle funzioni redistributive, come ad esempio l’integrazione al minimo, che ridistribuisce a favore di chi non ha completato una storia contributiva sufficiente. Occorre ricordare che, tranne che nel caso delle pensioni sociali, la previdenza pubblica redistribuisce risorse all’interno del sistema (cioè a soggetti che hanno avuto un legame con il mondo del lavoro) e condizionando alla “prova dei mezzi”. In altri paesi, come nel Regno Unito, questa funzione redistributiva è ancora più marcata: il sistema pubblico offre la stessa pensione a tutti indipendentemente dai contributi versati, quindi “rimpiazza” una quota più alta del reddito da lavoro di chi ha ricevuto, durante la propria vita lavorativa, salari più bassi.
Insomma, il fallimento del mercato giustifica l’intervento pubblico e l’obbligatorietà del prelievo sul lavoro. Queste entrate vengono poi utilizzate per pagare pensioni a chi si ritira dalla vita lavorativa (o a chi sopravvive a un coniuge che non ha potuto beneficiare della pensione), operando redistribuzioni più o meno marcate. Le statistiche giustamente tengono conto dell’obbligatorietà del prelievo e del fatto che gli interventi redistributivi operati vanno, comunque, a vantaggio di persone che si ritirano dalla vita lavorativa (o dei loro coniugi). Quando esisterà nel nostro paese una rete di assistenza sociale che garantisca un reddito minimo anche a chi non ha mai contribuito al sistema pensionistico (ad esempio i giovani in cerca di prima occupazione), allora avrà senso non contabilizzare i costi di questo istituto nella previdenza. Fino ad allora può essere solo fuorviante.

Gli obbrobri

Anche a noi non piace l’idea delle finestre come vincolo.  Sarebbe un modo per introdurre, dalla finestra anche in senso letterale, nuove asimmetrie, nuove iniquità. Tuttavia per incentivare davvero l’allungamento della vita lavorativa non bastano i premi (anch’essi iniqui) a chi continua a lavorare: occorrono penalizzazioni per chi decide di ritirarsi dalla vita attiva prima del raggiungimento dell’età legale di pensionamento. Nella sua replica al nostro intervento, Scalfari accenna questa volta alla necessità di incentivare l’allungamento della vita lavorativa. Augurandoci che il confronto continui, speriamo che la prossima volta il nostro autorevole interlocutore sia ancora più esplicito nel riconoscere l’inutilità e l’iniquità dei premi previsti dalla legge delega oggi parcheggiata in Senato e nello spiegare che, applicare a tutti, fin da subito, il regime contributivo, significa introdurre penalizzazioni per chi si ritira dalla vita lavorativa prima di avere raggiunto i 65 anni di età.

 

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19 commenti

  1. Patrizia Fiorucci

    Ho letto e leggo con interesse gli articoli dedicati a questo argomento. Come già scrittovi settimane fa, in merito agli articoli di Agar Brugiavini, debbo ancora oggi sottolineare che anche gli ultimi articoli (17 luglio), tra cui quello del Prof. Franco Peracchi, non tengono in considerazione che molti di noi cinquantenni vorremmo restare al lavoro. Ma allora perché ne veniamo estromessi con mobbing, ristrutturazioni e quant’altro?
    Non rilevate una certa schizofrenia nella questione?

    Cordialità
    Patrizia

    • La redazione

      E’ vero che ci può essere un problema di domanda di lavoro per lavoratori con più di 50 anni di età. Questo va affrontato con strumenti ad-hoc, ammortizzatori sociali e costi di licenziamento che siano crescenti nella durata della vita lavorativa, onde scoraggiare il licenziamento di lavoratori anziani. In ogni caso, il fatto che si assista ad un allungamento della vita lavorativa non appena si introducono disincentivi o si irrigidiscono le condizioni d’accesso alle pensioni d’anzianità (come documentato da Franco Peracchi su http://www.lavoce.info) sembra mettere in luce che le determinanti sul lato dell’offerta di lavoro (la volontà o meno del lavoratore di andare in pensione) sono di gran lunga prevalenti.

      Cordiali saluti
      Tito Boeri e Agar Brugiavini

  2. Franco Pischedda

    Come è noto, sulla retribuzione gravano contributi previdenziali, in parte a carico del lavoratore e in misura tre volte maggiore a carico del datore di lavoro, pari a circa il 33 per cento della retribuzione lorda e finalizzati alla costituzione della rendita di pensione. Da un calcolo molto semplice, risulta che cumulando il capitale formato da tali contributi per 40 anni, aumentato dell’interesse legale annuo pro rata pari al 5 per cento, si ottiene un importo sufficiente a garantire il pagamento di una rendita di pensione pari alla retribuzione per almeno 25 anni (in teoria, dai 60 fino agli 85 anni di vita).
    Tutto ciò se si procedesse effettivamente all’accumulo contributi versati da ciascun lavoratore.
    Invece, come è altrettanto noto, non esiste nel sistema previdenziale un reale accumulo di contributi che consenta il pagamento delle rendite pensionistiche nel momento in cui se ne consegue il diritto alla liquidazione. Pertanto, le pensioni gravano di fatto sul “fondo” costituito dai contributi obbligatori versati dai lavoratori e dai datori di lavoro.
    Ciò non cambia, tuttavia, i termini del diritto a pensione: i contributi obbligatori versati durante la vita lavorativa sarebbero teoricamente sufficienti alla copertura della pensione.
    Il problema è un altro. L’ammontare dei contributi obbligatori versati da circa 23 milioni di lavoratori non è sufficiente a coprire il fabbisogno per il pagamento di circa venti milioni di partite di pensione. Da qui un disavanzo di gestione. Ma attenzione: si tratta di un disavanzo gestionale del tutto fisiologico, in un sistema di welfare previdenziale, la cui logica ha poco a vedere con quella delle assicurazioni private.
    Per questo motivo, non è necessaria alcuna riforma del sistema pensionistico.
    Si tratta solo di stabilire le modalità di copertura di quello che si è detto un fisiologico disavanzo gestionale.
    La sola via praticabile in un sistema di welfare è attingere alla fiscalità generale.

    • La redazione

      Gentile Signor Pischedda
      ho seguito il suo ragionamento fino alla parte diciamo descrittiva di premessa. Su questa occorre fare delle precisazioni: un tasso del 5% annuo è molto elevato. Inoltre lei non ha solo “acquistato” una rendita vitalizia, ma una pensione vecchiaia-invalidità-superstiti, che vale di più. Inoltre le assicuro che al momento il costo di di un vitalizio, per quanto il mercato si stia sviluppando, è molto superiore al costo di una pensione pubblica, perché il sistema pubblico supera i noti problemi di antiselezione che affliggono questi mercati. Infine lei acquisisce anche una copertura contro l’eventualità che non arrivi a minimi pensionistici, che non sarà il suo caso, ma certamente ha un ruolo nel nostro sistema.

      Dopo sinceramente non capisco bene il senso del testo. Prima bisogna definire il “fisiologico”: i disavanzi mutano nel tempo e mutano da paese a paese (pur con sistemi simili). Ad esempio al momento alcuni paesi come gli USA si trovano in surplus e sono preoccupati che questo non diventi deficit. Quando i deficit sono elevati, come in Italia, e sistematici , date le previsioni sull’andamento demografico, non possiamo che intervenire con delle riforme.

      Mi sembra di capire che lei auspica un modello di “cittadinanza” dove non si distinguono tasse e contributi, ma facciamo attenzione: (1) sono molto costosi sia in termini di contributi/tasse sia in termini di gestione, come mostrano i paesi nordici e (2) la strategia intrapresa in Italia percorre la direzione opposta e si potrebbe creare un certo scompiglio nel ricominciare da zero.
      Ma può avere senso discuterne.

  3. davide colombo

    Dalla lettura combinata degli articoli di Boeri-Brugiavini e Sartor sulle pensioni non mi ritrovo su di un riferimento: la variazione stimata di produttività. Nel primo scritto, a confutazione delle tesi di Gallino, si parla di un aumento dell’1% nell’ultimo decennio; nel secondo si parla invece di un aumento del’1,5% (fonte citata è l’Istat) credo su base annua. Potreste farmi uscire dal dubbio? Grazie, evviva lavoce.info

    • La redazione

      Semplicemente il dato di Boeri-Brugiavini si riferisce al decennio trascorso, mentre quella offerta da Sartor altro non è che un’ipotesi relativa al futuro, nel lungo periodo. Non ci sono, dunque, contraddizioni.
      Cordiali saluti,
      Tito Boeri e Agar Brugiavini

  4. paolo podda

    Prof. Boeri,la seguo sempre con molto interesse ogni volta che mi è possibile…Tuttavia non posso non segnalarle,sebbene immagini che l’abbia già letto,il bellissimo libro di Gallino di cui cito il titolo nell’oggetto.Non le pare che l’approccio da matematico puro al problema pensioni,così come a quello flessibilità,finisca col cadere nella stessa trappola in cui è caduto,per esempio,Fazio appunto nel libro di Gallino dove vengono smontati uno per uno i sermoni degli economisti???Il tutto,sia chiaro, lo dico da 27enne, e da amante di quella bellissima scienza sociale che è l’economia.

    • La redazione

      Grazie per il riferimento bibliografico. Raccogliendo il suo invito, commenteremo presto il libro di Gallino sul sito. Magari chiedendo a un non-economista di leggerlo. Altrimenti sarebbe una difesa di categoria.

      Cordiali saluti

      Tito Boeri

  5. Davide Cantoni

    Evidentemente noi economisti non ci rendiamo particolarmente simpatici quando tentiamo un approccio razionale – ebbenesì, matematico – a certi problemi su cui chiunque, per fortuna, ha un’opinione: altrettanto simpatici quanto chi al Bar Sport ci volesse dimostrare in maniera matematica chi convocare in Nazionale.
    Ma, d’altro canto, mi sorprende davvero come certi argomenti (economici!), nella fattispecie di Luciano Gallino, non provochino un moto di sollevazione da parte di chi ci riflette un attimo – sì, da economista. Gallino scrive che la produttività entro il 2050 sarà raddoppiata, e dunque: “I due lavoratori di domani non faranno quindi più fatica dei quattro di oggi a sopportare l’ onere di pagare la pensione a un anziano.” Non ci vuole un dottorato in economia per immaginare che, con la produttività raddoppiata anche i salarî reali saranno raddoppiati: Prodotto marginale del lavoro = salario reale. Ora: I lavoratori che andranno in pensione nel 2050 vorranno una pensione più o meno a livello dei salarî reali del 2050 oppure preferiranno il livello odierno?

    Come prima risposta, mi viene in mente un articolo di Paul Krugman, in tutt’altro contesto: “Imagine that a mad scientist went back to 1950 and offered to transport the median family to the wondrous world of the 1990s, and to place them, say, at the twenty-fifth percentile level. The twenty-fifth percentile level of 1996 is a clear material improvement over the median of 1950. Would they accept this offer? Almost surely not – because in 1950 they were middle class, while in 1996 they would be poor, even if they lived better in material terms. People don’t just care about their absolute material level – they care abouth their level compared with others’.

  6. Alberto Angeli

    il mio commento vuole essere una semplice rilfessione senza pretese di “economista” o professionista dell’informazione, questa: è veramente equo e giusto ( nel senso di giustizia)
    considerare chi lavora un numero o un’equazione matematica? Vi invito a pensare a chi lavora per oltre 30 anni in fonderia, in miniera, in una corsia di ospedale, nelle cave, nei trasporti, nelle cartiere.E trascuro volutamente altre e più gravose situazioni di lavoro.
    Considerate che questi “numeri matematici” fanno il proprio ingresso sul lavoro a 15 anni ( spesso anche molto prima) quando la fortuna li assiste! ovviamente. Come conciliare l’aridità del tecnico o del politico di facile inclinazione a colpire gli interessi degli altri, con lo stato fisico e spicologico di chi ha lavorato 30-37 anni in quelle condizioni, che non sono gran che cambiate se non nel più intenso sfruttamento mediante tecnologie studiate per lo scopo. Cosa può significare 53 o 57 anni anni in quelle condizioni, alle quali neppure la scienza demografica, economica o quella relativa allo studio sulle aspettative di vita può porre rimedio. Essere politico, manager, professionista di ” grido”, insomma uomo di cultura e studioso ma introdotto nel benesse che tale status comporta, dovrebbe porre un problema di coscienza e capire che non si può fare “macelleria sociale” alla Tremonti per non ritrovarsi con nuovi “lumi”, ma questa volta promossi dalla reazione di chi è stanco di pagare per i potenti e per i benestanti. I soldi si possono trovare in altro modo, riducendo la ricchezza di coloro che sono parte di quella filiale di benessere sociale che si scandalizzano per il cinquantenne che vuole andare in pensione. Quando il Paese è in crisi deve pagare soprattutto chi ha goduto i benefici maggiori del passato ed in modo sostanzioso. Anzi, ritengo che il sistema pensionistico non solo deve rimanere quello attuale ma se provvedimenti devono essere presi siano per aumentare le pensioni più indietro con gli anni, che ormai sono “mangiate” dall’inflazione di questi anni. Tutto il resto appartiene alla tesi conosciutissima: “facciamo tutti dei sacrifici per salvare il sistema” usando come criterio la media di ” Trilussa”. Chi ha lavorato per la ricchezza vera del Paese non più più dare nulla, ora deve raccogliere.

    Ringrazio per l’ospitalità, quale assiduo lettore della Voce confido nella pubblicazione.

    • La redazione

      Il suo commento lascia aperta una questione non banale: chi dovrebbe pagare per tutto questo?

  7. Serio Coccia

    Gentile redazione,
    tempo fa ho letto l’analisi di Boeri e Brugiavini sulle pensioni di
    anzianità, e vorrei fare presente che non sono d’accordo per i seguenti motivi:
    1° lavoro da circa 38 anni e credo di averne diritto in quanto già penalizzato dalla riforma Dini
    2° prima di toccare le pensioni di anzianità sarebbe più giusto come ha detto il ministro Maroni, eliminare i privilegi del pubblico impiego, le false invalidità ed alleggerire le maxi pensioni.
    Per quanto riguarda le persone che sistematicamente parlano di pensioni, esse non fanno altro che alimentare la voglia di uscita dal lavoro. Sono d’accordo su quanto dichiarato tempo fa da Siro Lombardini riguardo a ciò che comportebbe allungare l’età pensionabile: l’aziende si ritroverebbero sui posti di lavoro degli anziani privi di stimoli, mentre i giovani che potrebbero portare delle innovazioni rimarrebbero fuori ad aspettare.
    La mia proposta è la seguente: sotto 1000 euro nessuna quota, disincentivo dell’1% per 1000 euro, del 2% per 2000 euro del 3% per 3000 euro e così via. Credo che questo possa essere chiamato fondo di solidarietà per il futuro Inps in quanto riguarderebbe il mantenimente delle pensioni gia in essere e le future.
    Un cordiale saluto
    Sergio Coccia

    • La redazione

      Gentile Signor Coccia
      purtroppo non siamo in grado di valutare la sua situazione individuale (occorre un consulente del lavoro), ma ad una prima lettura non vediamo come lei possa essere interessato dalla Dini avendo più di 18 anni di contributi al 1996. Ripetiamo, occorrerebbe vedere in dettaglio il caso e non è il nostro mestiere.
      Siamo d’accordo di rimuovere tutti i privilegi, ma bisogna fare attenzione che alcuni non siano belle frasi che svicolano i problemi (la caccia all’evasore e e alle false invalidità sono le solite che si tirano fuori in questi casi). Da un lato gli accertamenti per evazione si concludono quasi sempre con la vittoria dell’accertato sulla PA e dall’altro ormai le nuove invalidità pesano per una minima parte sul totale dei trattamenti, mentre le vecchie invalidità si vanno tramutando in prestazioni di vecchiaia). Comunque se è questione di equità fino all’ultimo individuo siamo d’accordo.
      Anche le maxi-pensioni non pesano poi così tanto sul bilancio dell’INPS, e sulle pensioni in essere sinceramente trovo giuridicamente difficile intervenire in maniera così mirata (perchè solo quelli sopra a una certa cifra? chi definisce la “maxi” e la medium?). Prevediamo molti ricorsi.
      Mi dispiace ma dati alla mano coloro che sono veramente penalizzati dalle riforme sono i giovani. Capiamo la sua reazione, ma si rende ben conto che la sua reazione potrebbe essere a catena: anche quelli che hanno contribuito 37 anni, 36 anni, ….anche un solo anno possiedono diritti acquisiti.
      Quindi meglio trattare tutti i pensionandi nello stesso modo: che esce prima prende meno e chi esce più tardi prende di più.
      come economisti crediamo nostro dovere spiegare i fatti, crediamo anche che gli individui non prendano decisioni così alla leggera su quando uscire dal mondo del lavoro. Per le sue osservazioni riguardanti quanto affermato da Siro Lombardini la preghiamo di leggere la nostra risposta a Scalfari sulla “leggenda dei posti fissi”.
      La sua proposta è una soluzione una tantum che continua a non renderci credibili con i partners europei.
      E’ chiaro che la propria pensione è una risorsa importante, ma bisogna che sia garantita a tutti quelli a cui è stata promessa e anche per un bel numero di anni futuri.
      Cordiali Saluti

  8. Patrizia Fiorucci

    Sempre interessante leggere i vostri articoli e le risposte, qualche volta mi sembra proprio che certi problemi vengano presi con sufficienza, oppure ci si sforza di ignorarli. Mi spiego. La vostra risposta al sig. Coccia, dove, per assurdo, indicate che anche 1 anno di contributi è 1 diritto acquisito, mi sembra troppo semplicistica.
    Dunque, parliamo di persone che hanno iniziato a lavorare con certe regole, che si trovano nel guado del ”cambiamento delle regole”, quando risulta praticamente impossibile trovare un lavoro. Vorrei che consideraste almeno una volta non solo che è ancora al lavoro, ma chi non ha piu’ lavoro e che deve aspettare 3-5-10 anni per la pensione.
    Mi piacerebbe vedere degli elaborati ponderosi su come pagare l’affitto e fare la spesa in questo caso.
    grazie.

    • La redazione

      Cara Signora Fiorucci,
      e’ ovvio che da un punto di vista sostanziale occorre fare dei distinguo, ma tecnicamente un lavoratore entra nel “patto intergenerazionale” non appena inizia a pagare i contributi. Il meccanismo è questo. A seconda della legislazione vigente il lavoratore maturerà diritti per la pensione di anzianità a età più o meno giovani, e su queste differenze occorre riflettere: perché ai più giovani possiamo cambiare le regole e ai meno giovani no? (noti che al momento lo spartiacque è molto netto).
      Sono d’accordo che non possiamo cambiare le regole per chi andrà in pensione il prossimo anno: occorre gradualità per adattarsi ai cambiamenti. Ma i vari governi hanno avuto moltissimo tempo per adottare questa gradualità e nello stesso tempo fissare dei paletti, invece la scelta è stata quella di mantenere i diritti acquisiti di tutti quelli entrati nel mercato del lavoro prima di una certa data e non degli altri. Si poteva (si può ancora ma il margine è ridotto) distribuire il carico equamente.

      Il problema di non trovare lavoro dopo una certa età è certamente un problema di cui un welfare state serio deve occuparsi, ma questo non ha a che vedere con le pensioni. E’ proprio lì l’errore: le pensioni hanno agito per anni da ammortizzatori sociali con distorsioni varie sia del sistema pensionistico che del mercato del lavoro. Occorrono dei sussidi di disoccupazione o ammortizzatori sociali che permettano di fare la spesa e pagare l’affitto nel caso uno perda il lavoro.
      In ogni caso io non credo che si debba impedire di andare in pensione prima dell’età normale di pensionamento, semplicemente mi sembra equo che il pensionando sia disposto ad avere una pensione ridotta rispetto a chi, nelle stesse condizioni, continua a lavorare e a pagare contributi al sistema stesso.
      Tito Boeri e Agar Brugiavini

  9. Franco Pischedda

    Nel mio precedente intervento sulla riforma del sistema pensionistico avevo dato per scontato che vi fosse uno squilibrio gestionale tra spesa pensionistica e ammontare dei contributi obbligatori versati dai lavoratori e datori di lavoro. Non si potevano giustificare altrimenti le pressanti sollecitazioni riguardo alla riforma strutturale non solo da parte di vari nostri economisti del lavoro, ma di autorevoli esponenti della Comunità Europea. E su tale presupposto avevo espresso l’opinione che a coprire il disavanzo si potesse provvedere con la fiscalità generale, e che non vi fosse alcun bisogno di riforme cosiddette strutturali.
    Apprendo ora che neanche “la voce.info” conosce i dati gestionali previdenziali, avendo l’Inps risposto che si tratta di dati indisponibili, e quindi sostanzialmente “secretati”.
    Per fortuna Luciano Gallino sembra saperne di più. In una delle voci del “dizionario minimo” sul sistema pensionistico (la Repubblica, 2 settembre 2003) dice che il disavanzo del sistema pensionistico è una “grandezza economica per ora inesistente. Infatti, tolti gli oneri assistenziali che lo Stato ha accollato all’INPS, le entrate costituite dai contributi di lavoratori e aziende pareggiano le uscite in forma di pensioni”. Pertanto, Luciano Gallino ascrive con ironia l’urgenza della riforma ai seguenti fattori: “invecchiamento della popolazione, necessità di accrescere la competitività delle imprese, pressioni delle organizzazioni internazionali, intenzione del governo di migliorare il bilancio dello Stato a spese del sistema pensionistico pubblico”.
    Se dopo anni di accanite discussioni su questa materia lo stato degli studi e conoscenze si attesta su questi livelli, si può concludere che forse la situazione è grave, ma non è seria.
    Vorrei conoscere il vostro parere.
    Distinti saluti.
    Franco Pischedda.

    • La redazione

      Purtroppo i dati di cui lamentiamo l’assenza e l’indisponibilità dell’Inps a concederne l’accesso non sono quelli relativi al bilancio dell’Inps, bensì informazioni sul grado di copertura delle pensioni di anzianità, storie lavorative, etc… Si tratta di informazioni utili per simulare gli effetti di divewrse riforme. Il deficit dell’Inps è purtroppo evidente. Come pure la sua tendenza ad aumentare quando la generazione dei
      babyboomers andrà in pensione.

      Cordiali saluti

  10. Franco Pischedda

    In data 10.09.03, avevo inviato alcune considerazioni sui problemi connessi al mantenimento al lavoro delle persone vicine ai 60 anni di età.
    In conclusione, mi ero permesso di dire, un intervento serio in materia di pensioni di anzianità deve contemperare le esigenze del bilancio pubblico con quelle del datore di lavoro e del cittadino-lavoratore, e deve essere affrontato oltre che sotto il profilo assai importante del risparmio pensionistico, come necessità di affrontare in termini diversi un tema di politica imprenditoriale e del lavoro, ossia il tema del mantenimento al lavoro del lavoratore anziano, fino al raggiungimento dell’età stabilita per la pensione di vecchiaia (che, se venissero create favorevoli condizioni, potrebbe anche essere più elevata). Occorrerebbe, quindi, modificare la struttura dell’impresa in modo da offrire ai lavoratori anziani modalità di collaborazione meno impegnative (soprattutto sotto il profilo degli orari di lavoro, delle prestazioni e della responsabilità esterna). Il lavoratore anziano a questo punto non sentirebbe più la spinta impellente a liberarsi da un fardello insopportabile, continuerebbe a contribuire alle esigenze del sistema produttivo, e sentendosi ancora socialmente attivo attenderebbe con maggiore serenità l’età del pensionamento di vecchiaia.
    Non chiedevo la pubblicazione dell’intervento, ma, trattandosi della questione chiave della riforma pensionistica, sarebbe stato interessante leggere cosa ne pensa al riguardo la voce.info. (…)

    • La redazione

      Scusi se non abbiamo a tempo debito dato risalto al suo commento che, in effetti, coglie un tema molto importante. Comunque non è del tutto vero che lavoce.info non ne abbia parlato. L’intervento di Pietro Garibaldi svolge anche questo tipo di considerazioni. Su cui cercheremo di ritornare. Cordiali saluti.

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