Servono centri di eccellenza con più ricercatori e più giovani, finanziati attraverso un sistema di distribuzione dei fondi pubblici sul modello inglese. E il riconoscimento della distinzione tra research e teaching universities. Evitando le relazioni troppo strette con lindustria che impediscono lesplorazione di opportunità radicalmente nuove. Se laccademia fa bene il suo mestiere, sono le imprese stesse che si preoccupano di costruire con i ricercatori legami proficui per entrambi. Queste note vogliono suggerire, in maniera inevitabilmente telegrafica, alcuni elementi per una diagnosi sullo stato della ricerca pubblica, di quella privata e della relazione tra le due. La diagnosi È comunemente accettato che la ricerca pubblica è sottofinanziata e notevolmente sottodimensionata rispetto ai maggiori Paesi occidentali, se consideriamo la percentuale di ricercatori sul totale della popolazione. Più variegato è il quadro della produttività scientifica, misurata, per esempio, in termini di pubblicazioni o citazioni internazionali pro-capite: la media è un po’ al di sotto di quella europea, ma esiste un’alta differenziazione tra aree disciplinari con alcune punte di eccellenza (per ingegneria e fisica, soprattutto). Se possibile, il sistema della ricerca industriale privata è ancora più disastrato di quello pubblico, con una tendenza alla degradazione che ha caratterizzato almeno gli ultimi venti anni (vedi anche l’articolo di Faini). In breve, le cause sono associate alla quasi totale scomparsa del “cuore oligopolistico” dell’industria italiana, da sempre debole e malato, ma ora inesistente. La fine di Montedison, Olivetti, Italtel e, sì, anche delle partecipazioni statali, ha avuto come conseguenza anche la chiusura dei pochi laboratori di ricerca degni di questo nome. Allo stesso tempo, la specializzazione produttiva si è spostata verso settori in maggioranza a bassa intensità di ricerca, dove l’attività innovativa è caratterizzata soprattutto dall’acquisizione di nuovi componenti e nuovi macchinari, innovazioni organizzative o, al massimo, da variazioni incrementali di design. Che fare? Detto questo, quali sarebbero le cose da fare (e quelle da non fare)? Per ragioni di spazio, mi concentrerò solo sulla ricerca pubblica. Per migliorare la condizione della ricerca in Italia, condizione preliminare, necessaria seppur non sufficiente, è incrementare massicciamente e in fretta il numero dei nuovi, e giovani, ricercatori. È esattamente l’opposto di ciò che avviene adesso: la Finanziaria in vigore impedisce persino le chiamate di nuovi docenti, mentre l’età media dei ricercatori ovviamente aumenta, e le promozioni interne dilagano nella logica di “chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori”, indipendentemente da ogni merito. Su questo punto, sono in disaccordo con Francesco Giavazzi che recentemente (e provocatoriamente?) ha sostenuto ben vengano i tagli di bilancio al sistema della ricerca pubblica se aiutano a selezionare tra “bravi” e “mediocri”: una migliore allocazione dei fondi attualmente disponibili sarebbe più che sufficiente a dare risorse a chi le merita. Un’idea ampiamente condivisibile, ma anche un pio desiderio. È ovviamente molto più facile dare zero per cento di aumento di risorse ai mediocri e un incremento del dieci per cento ai bravi, piuttosto che mantenere un budget inalterato o ridotto e redistribuirlo selettivamente. Davvero si può pensare che di fronte a tagli di bilancio sarebbero premiati i migliori? È ugualmente ovvio che i giovani più bravi non restano nel sistema pubblico italiano senza un mix ragionevole tra stipendi e meccanismi promozionali: le remunerazioni sono vergognose, e la riforma dello stato giuridico suggerisce una ulteriore precarizzazione delle carriere e l’ulteriore “feudalizzazione” delle promozioni. Perché poi stupirsi della “fuga dei cervelli”? Peraltro, occorre riconoscere che l’università italiana, così come è fatta, è per lo più inadatta a fare ricerca di alto livello, anche in presenza di abbondanti risorse. Per due ragioni complementari. Primo, la funzione dell’università si sta sempre più trasformando, nel bene e nel male, in una sorta di istituto professionale di alto livello. Secondo, una buona parte dei docenti universitari non sa fare ricerca. L’esempio da seguire Allora, che fare? Una possibile soluzione è scorporare la ricerca dall’università. È sostanzialmente la strada francese e tedesca, con il Cnrs e gli istituti Max Planck. Personalmente, non la ritengo la soluzione migliore perché la separazione della ricerca dalla didattica post-graduate è dannosa per entrambe. E in ogni caso, non mi sembra la direzione presa dal Governo, a giudicare dal quasi smantellamento del Cnr. L’altra soluzione è più “americana” e implica il riconoscimento della distinzione tra “research university” e l’equivalente delle “teaching universities” o “land-grant collages” degli Usa. In parte, una distinzione simile nei fatti esiste già anche in Italia, ma ipocritamente ci si rifiuta di riconoscerla e di incentivarla al fine di raggiungere sufficiente massa critica di ricercatori in un numero relativamente limitato di istituzioni. L’elemento cruciale è la determinazione di quali sono le istituzioni di ricerca di “eccellenza”. Ovviamente, non basta definirsi tali, né si può fare affidamento sui “bollini ministeriali” o su criteri quali quelli del rapporto Censis sull’università. Un sistema ragionevole, a mio avviso, è quello inglese, nel quale la valutazione da parte di autorità scientifiche internazionali in ogni singolo campo individua le istituzioni, che per cinque anni riceveranno fondi ben al di sopra del minimo assegnato a tutti gli altri istituti che operano nella stessa area di ricerca. Con questo sistema, a regime, sarebbe possibile abolire anche i concorsi nazionali perché chi vuole i ricercatori mediocri, li può tranquillamente chiamare, semplicemente non avrà poi trasferimenti pubblici al di sopra del minimo. I legami da evitare Infine, alcune cose da evitare. Si sente sempre più parlare della necessità di “aumentare i legami tra università e industria”, di “radicare l’università nel territorio”, et similia. Credo che tali incitamenti vadano nella direzione sbagliata. Certo, è importante che le università “locali”, grossomodo l’equivalente dei land-grant colleges americani, operino in stretta collaborazione con le realtà produttive del territorio. Ma ciò non è altrettanto vero per le research universities, che devono fare bene il loro mestiere, ovvero ricerca pura e applicata sulla frontiera internazionale, con proporzioni tra le due che dipendono essenzialmente dalla natura delle varie discipline. È abbastanza ovvio che l’ingegneria sia più “applicata” e più vicina all’industria che non la matematica o la fisica, ma è un’enorme sciocchezza pretendere che anche queste ultime vadano in giro a trovarsi sponsor industriali. Al contrario, sono convinto che relazioni troppo strette tra università e industria danneggiano l’industria perché riducono l’esplorazione di quelle opportunità radicalmente nuove che emergono solo dalla ricerca fondamentale (si pensi solo all’impatto nel lungo periodo della scoperta dell’effetto transistor o della doppia elica del Dna). Certamente, fanno molto male alla ricerca, che tende a diventare di breve periodo e “consulenziale”, e all’ethos dei ricercatori, costretti a improvvisarsi faccendieri e venditori del nulla. Se l’università fa bene il suo mestiere, sono le imprese stesse che si preoccupano di costruire con i ricercatori legami rispettosi e proficui per entrambi (come dimostrano anche in Italia alcuni casi importanti, a partire dall’istituzione da cui provengo).
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