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La soglia dei 15 dipendenti e il 15 giugno

Domenica 15 giugno si può votare sul referendum che vuole estendere anche alle imprese fino a 15 dipendenti la reintegra in caso di licenziamento senza giusta causa.  Perchè le imprese più piccole vengono in genere (non solo in Italia) esentate da queste normative?  E cosa suggeriscono le più recenti ricerche economiche e statistiche sul cosiddetto “effetto di soglia”, vale a dire la crescita delle imprese,intorno alla soglia dei 15 dipendenti? Un contributo di Giuseppe Tattara si aggiunge ad altri interventi già apparsi su lavoce.info.

Non c’è effetto soglia, di Giuseppe Tattara (12-06-2003)

Nessuna evidenza empirica dimostra che le imprese italiane restano sotto i quindici dipendenti per evitare i vincoli ai licenziamenti previsti dall’articolo 18. Una sua eventuale abolizione, quindi, non garantisce né una crescita delle dimensioni delle aziende né un aumento dell’occupazione.

Non c’è effetto soglia

Giuseppe Tattara*

Alcuni giorni fa , nel corso di un dibattito televisivo, il direttore generale di Confindustria, Stefano Parisi, ha sostenuto che l’articolo18 costituisce un effetto soglia, un vincolo che fa sì che le imprese italiane si addensino sotto il limite stabilito dai quindici dipendenti, nel tentativo di non incorrere nelle limitazioni poste dallo Statuto dei lavoratori ai licenziamenti individuali e nei relativi costi. L’evidenza empirica a favore di questa tesi sarebbe forte e incontrovertibile.

Licenziamenti e effetto soglia

In Italia, il licenziamento di un lavoratore è legittimo quando avviene per giusta causa (ad esempio un comportamento scorretto del lavoratore) o per un giustificato motivo (inevitabile eccesso di manodopera). Altrimenti, l’articolo18 dà al lavoratore licenziato da un’impresa con più di quindici dipendenti il diritto a ritornare al suo posto di lavoro. In pratica, l’articolo18 tende a offrire ai lavoratori una tutela forte contro eventi sfortunati esterni al loro controllo.

Questa tutela non si applica alle piccole imprese, a mio parere, soprattutto perché la gestione del personale è diversa rispetto alle grandi. Nelle piccole aziende si vive ‘gomito a gomito’, sono cruciali le relazioni di stima e di fiducia tra imprenditore e dipendente. Il loro venir meno, a torto o a ragione, rende difficile, se non insostenibile, la continuazione del rapporto di lavoro anche se non necessariamente dà luogo a comportamenti che rientrino nella casistica contemplata dalla giusta causa.

Ma che cos’è poi l’effetto soglia ? Generalmente si intende un impedimento al fluire ‘naturale’ delle imprese tra diverse classi dimensionali. In questo caso, l’articolo18 agirebbe come una specie di tappo che creerebbe una distribuzione della struttura industriale anomala e poco efficiente, che, a sua volta, sfocerebbe in un effetto generale di contrazione occupazionale: le imprese che occupano poco meno di quindici dipendenti non crescerebbero per non incorrere nel regime di tutela sancito dall’articolo18.

Gianpaolo Galli, già direttore del Centro studi di Confindustria, in un suo articolo (“L’effetto soglia comprime l’occupazione”, Il Sole-24ore, 29.3.2003), individua quattro punti per spiegare tale effetto. 1. La maggior numerosità degli occupati nelle imprese riunite nella classe 10-15 dipendenti rispetto a quella delle imprese riunite nella classe successiva, (16-19 dipendenti). 2. La diffusione abnorme nel nostro Paese del lavoro autonomo come un tentativo di sfuggire alle rigidità istituzionali (di cui l’articolo 18 è parte notevole). 3. L’aumento del fenomeno dell’outsourcing a imprese minori. 4. La sostituzione di capitale a lavoro, la diffusione del lavoro nero e dei contratti atipici.

Quattro argomenti deboli

Sono a mio parere quattro argomenti deboli. Il fatto che gli addetti nella classe 16-19 siano meno numerosi di quelli nella classe 10-15, come il fatto che quelli nella classe 20-25 siano meno numerosi di quelli nella classe 16-19, nulla dice se non che è cambiata l’unità di riferimento. Una analisi seria richiede lo studio delle transizioni tra classi di imprese di diversa dimensione, cosa che si può fare ed è stata fatta sulla base dei dati della previdenza sociale.

Pietro Garibaldi e Lia Pacelli  sono intervenuti proponendo il risultato di uno studio condotto sui dati Inps in via di pubblicazione sul “Giornale degli Economisti”. Questo studio conclude rilevando come possibili effetti attribuibili all’effetto soglia siano comunque quantitativamente piccoli e coinvolgano pochi lavoratori. Io stesso, con la collaborazione di Fabio Occari, sempre sui dati Inps, ho analizzato nel dettaglio le transizioni dimensionali di numerose imprese venete per una decina di anni (Tattara). Nessun effetto soglia si può dedurre dall’analisi delle diverse migliaia di casi analizzati in merito a una supposta difficoltà delle transizioni delle imprese verso classi dimensionali superiori, quando si superi la soglia dei fatidici 15 dipendenti. Sulla struttura dimensionale delle imprese venete e sulla scarsa evidenza empirica di un effetto soglia si era già soffermato Bruno Anastasia. (1)

 Nei dati veneti nessun effetto soglia si può dedurre dalle migliaia di casi analizzati in merito a una supposta difficoltà delle transizioni delle imprese verso classi dimensionali superiori, quando si superi la soglia dei fatidici 15 dipendenti.

I lavoratori autonomi sono in Italia numerosi in modo abnorme? Ma lo erano ancor di più prima che venisse introdotto l’articolo 18. Anzi, il loro numero, che nasconde attività arretrate e marginali ancora presenti nel nostro Paese, si è andato costantemente riducendo nel tempo, non è aumentato. Certo, ora ci sono più forme di lavoro precario, ma sono collegabili direttamente alla esistenza dell’articolo 18? Non credo. L’outsourcing non è una caratteristica del sistema produttivo italiano, né sembra possibile far discendere dall’articolo 18 l’alto livello del rapporto capitale/addetto delle imprese italiane o l’esistenza del lavoro nero o dei contratti atipici. I vantaggi di queste soluzioni (dall’outsourcing nei Paesi dell’Est al lavoro nero) sono così elevati che le imprese vi ricorrerebbero indipendentemente dall’articolo 18, come insegna l’esperienza statunitense dove questi due fenomeni hanno grande rilevanza e dove il mercato del lavoro è estremamente libero, senza vincoli di sorta.

Articolo 18 e dimensioni delle aziende

Non vi è dubbio che le ridotte dimensioni delle imprese italiane costituiscano un problema. Ma questo non riguarda tanto la quota delle imprese che si addensano nella classe 10-15 dipendenti rispetto a quelle che si addensano nella classe 16-19, quanto la carenza delle grandi imprese da un lato, e la forte presenza di imprese ‘familiari’, dall’altro: è tutt’altra cosa e richiede una analisi differente.

Ancora. Procedere con una modifica normativa per ridurre gli oneri derivanti dal licenziamento può indubbiamente essere una strada saggia e giustificata (si veda ad esempio la proposta di legge di Franco Debenedetti ). Ma non è l’articolo 18 la causa della scarsa crescita dell’occupazione in Italia o della ridotta dimensione delle nostre imprese.

Qualunque sia la nostra opinione sull’articolo 18 e sulla sua funzione nel mercato del lavoro, è certo che le argomentazioni sollevate da Confindustria non aiutano a instradare la discussione nel giusto binario. È vero che si sono fatte troppe discussioni ideologiche su questo tema e le opinioni devono invece essere basate su fatti e su analisi rigorose. È però doveroso dire che non esiste alcuna evidenza empirica seria che sostenga la tesi che le imprese italiane si addensano nelle classe sotto i 15 dipendenti e che non transitano alla classe successiva a causa dei vincoli posti dall’articolo18. Né esiste alcun dato fattuale a sostegno dell’ipotesi che l’abolizione dell’articolo18 si possa tradurre in un aumento dell’occupazione attraverso la crescita delle dimensioni delle imprese, l’emersione del lavoro nero, la stabilizzazione del lavoro atipico o altre fantasie di questo genere.

(1) Anastasia B. (1999), “I vantaggi competitivi della piccola impresa nell’utilizzo del fattore lavoro: formazione, costi, obblighi e norme” in “La questione dimensionale nell’industria Italiana” a cura di F. Traù, Bologna, Il Mulino.

*Professore ordinario di Politica economica all’Universita’ di Venezia, esperto di economia del lavoro, economia dei distretti e dell’innovazione tecnologica e di storia economica.

 

 

Referendum: il quesito mancante, di Tito Boeri (23-01-2003 )

Il referendum sull’estensione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori alle imprese con meno di 15 dipendenti accende il confronto politico, fa discutere i sindacati e i giuristi e conquista sempre più spazio sulla carta stampata. Non sembra proprio possibile in questo paese dimenticarsi dell’articolo 18! Eppure, nonostante i fiumi di inchiostro sparsi e i molti verba volati sul tema, nessuno sembra porsi un quesito fondamentale: perché esiste una soglia nell’applicazione di questa norma dello Statuto dei Lavoratori? Perché le piccole imprese vengono escluse dal regime della cosiddetta “tutela reale”, lasciando liberi i datori di lavoro in queste unità produttive di optare fra risarcimento e reintegrazione nel caso di licenziamento ingiustificato? E’ una domanda importante anche per capire il sostegno che il fronte del sì potrà raccogliere tra i lavoratori direttamente coinvolti.

Ne abbiamo già trattato su questo sito, (si veda Bertola-Garibaldi) ma vale la pena di tornare sull’argomento.

Tre spiegazioni possibili

Perché allora la soglia? Sgombriamo subito il campo dalla risposta più ovvia. Non si tratta della solita anomalia italiana. Soglie di questo tipo esistono anche in altri paesi con regimi di protezione dell’impiego fortemente restrittivi. Le soglie variano — 11 addetti in Francia, 4 in Germania, 25 in Spagna – come pure le normative da cui si escludono le imprese più piccole. In genere, ma non sempre, più restrittiva la norma generale, più alta la soglia, dunque più grandi le imprese che vengono escluse dalla normativa.

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Tre le ragioni economiche che si possono dare per la presenza di queste soglie.

Primo, le imprese più piccole hanno maggiori difficoltà di quelle più grandi ad accedere al mercato dei capitali, il che implica che più difficilmente riescono ad assicurarsi contro eventi avversi e a trasferire questa assicurazione ai propri dipendenti. I regimi di protezione dell’impiego hanno proprio la funzione di trasferire assicurazione dalle imprese ai lavoratori. Dato che non esiste copertura completa contro il rischio di perdere il lavoro, saranno le imprese a farsi carico, almeno in parte, di questa funzione assicurativa. Ma quando l’impresa è piccola questo trasferimento di copertura può avere luogo molto meno.

Secondo, le imprese più piccole non hanno un mercato del lavoro interno sufficientemente ampio cui ricorrere nel “riciclare” personale divenuto esuberante in alcune attività per spostarlo verso impieghi più produttivi. Tra l’altro questo spostamento interno all’azienda può comportare costi di riqualificazione che l’impresa minore è meno attrezzata a sostenere.

Terzo, i regimi di protezione dell’impiego riducono un potenziale vantaggio competitivo delle piccole organizzazioni rispetto a quelle più grandi, vale a dire la possibilità di meglio monitorare l’impegno dei propri lavoratori, di prevenire comportamenti opportunistici agitando lo spauracchio dei licenziamenti disciplinari. Regimi restrittivi sui licenziamenti economici finiscono inevitabilmente per rendere più difficili anche i licenziamenti disciplinari e a che serve poter meglio controllare l’impegno profuso dai dipendenti quando non si può sanzionare in modo efficace chi non collabora allo sforzo produttivo?

Cambiata nel corso del tempo?

Se queste sono le cause delle soglie, utile interrogarsi sulla loro mutata funzione nel corso del tempo, dato che le normative che le hanno introdotte risalgono anche a 20-30 anni fa. I mercati dei capitali si sono ampliati in molti paesi europei, tra cui il nostro. Questo permette anche all’impresa minore di assicurarsi più efficacemente, abbassando la soglia ottimale. Le nuove tecnologie produttive sembrano, inoltre, avere ridotto il grado di parcellizzazione delle mansioni produttive: sempre più richiesti i lavoratori in grado di essere polifunzionali. Anche questo abbassa la soglia perché costa di meno riqualificare il personale in azienda. Più difficile il giudizio sulla terza causa, perché poco è dato sapere sull’evoluzione delle tecniche di monitoraggio dell’impegno produttivo dei lavoratori. Il fatto che se ne parli poco e che molte grandi aziende in cui si svolge contrattazione decentrata ricorrano a schemi di incentivazione alla produttività fa pensare che le asimmetrie fra grandi e piccole imprese in quanto a capacità di controllare l’impegno dei lavoratori non si siano ridotte. Questo non sposta la soglia ottimale, né verso l’alto, né verso il basso.

Quindi se dovesse vincere il sì?

In conclusione, la soglia esiste non solo per farci litigare. Ha una funzione importante. Come si vede dal grafico qui sotto (basato su domande retrospettive delle Indagini sulle Forze di Lavoro), le imprese posizionate appena al di sotto o al di sopra della soglia assumono meno lavoratori delle altre. Rimuovere la soglia con il colpo di spugna referendario potrebbe portare alla distruzione di molti posti di lavoro. Un’altra possibilità è che, se dovesse vincere il sì, la normativa non venga comunque applicata alle imprese più piccole, rendendole esenti de facto se non de jure. Molte piccole imprese passerebbero al sommerso; altre assumerebbero con formule diverse (co.co.co, associazioni in partecipazione o quant’altro).

Ma può vincere il sì?

Sono circa 9 milioni e mezzo i lavoratori dipendenti in imprese con meno di 15 addetti. Hanno una maggiore probabilità di perdere il lavoro dei loro omologhi in imprese più grandi perché più giovani, meno istruiti e perché le piccole imprese sono sovrarappresentate al Sud. Per queste persone il referendum non sarà come andare a votare alle elezioni politiche, una scelta di schieramento, di bandiera, ma una decisione densa di implicazioni importanti per il proprio futuro.

I lavoratori dell’impresa minore possono oggi legittimamente aspirare a tutele meno marcatamente inferiori a quelle offerte nelle grandi imprese. E continuano ad essere discriminati nell’accesso agli ammortizzatori sociali (non hanno diritto al circuito Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria — indennità di mobilità). Ignorare queste domande sarebbe un grave errore di miopia politica. E questo governo che, per riconoscimento dello stesso Presidente del Consiglio, ha sottovalutato le dimensioni del fronte coalizzatosi nei primi 7 mesi del 2002 contro la mini-riforma dell’articolo 18, non può permettersi nuovi errori in proposito. Anche se per tattica politica si vuole a tutti i costi andare al referendum e “rosolare l’opposizione”, la maggioranza in questi mesi dovrebbe porsi il problema di varare quanto prima una riforma degli ammortizzatori sociali che ne estenda la copertura all’impresa minore e pensare ad aumentare l’entità dei risarcimenti monetari in caso di licenziamento illegittimo, come previsto dalla proposta di legge pubblicata sul sito www.lavoce.info. L’impresa minore è oggi, più che in passato, in condizione di fornire assicurazioni di questo tipo ai propri dipendenti.

E se evitassimo il referendum?

Meglio ancora, forse, evitare un referendum dall’esito incerto, che certo non rasserenerà un clima di relazioni industriali già molto agitato e che potrà rallentare il processo di riforma del mercato del lavoro anche qualora il quorum non venisse nuovamente raggiunto. Basta guardare alla nostra storia recente per accorgersene. Il referendum del maggio 2000 è stato un macigno sulla strada delle riforme. Meglio, allora, sfruttare questa occasione per far passare, possibilmente con il concorso dell’opposizione, una riforma che introduca tutele vere perché realistiche e applicabili a tutti i lavoratori.

Dall’ideologia ai fatti. Le anomalie nel comportamento delle imprese intorno alla soglia dei 15 dipendenti, di Pietro Garibaldi e Lia Pacelli (13-01-2003)

Nella primavera del 2002, il tentativo di modificare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ha generato uno dei più drammatici periodi di conflitto sociale degli ultimi dieci anni. La soglia dei quindici dipendenti era diventata una specie di linea Maginot. Tutte le parti sociali, Governo Confindustria e sindacati, volevano modificare il livello occupazionale al di là del quale un lavoratore licenziato senza giusta causa ha il diritto ad essere reintegrato sul proprio posto di lavoro. (vedi Bertola e Garibaldi). Ma il dibattito della primavera del 2002 era molto ideologico, con rarissimi tentativi di legare le argomentazioni dell’una o dell’altra parte a ciò che effettivamente suggeriscono i dati. Oggi si può e si deve passare dall’ideologia ai fatti.

Gli effetti dell’articolo18

Alcuni studiosi hanno recentemente utilizzato le basi dei dati INPS disponibili presso il LABORatorio Riccardo Revelli di Torino per analizzare quantitativamente gli effetti dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori sul comportamento delle imprese attorno alla soglia dei 15 dipendenti. Comportamento definito dalle decisioni di aumentare o diminuire la forza lavoro impiegata. La ricerca sostiene che il comportamento delle imprese intorno a tale soglia è statisticamente anomalo, e che tali anomalie appaiano significative e robuste dal punto di vista statistico. Tuttavia, le anomalie rilevabili appaiono quantitativamente piccole. Queste sono le conclusioni. Ma prima di entrare nei dettagli, è bene fare alcune premesse e alcune considerazioni.

La teoria economica suggerisce che esistono imprese “dissuase a crescere“: sono quelle imprese che scelgono di vivere permanentemente sotto la soglia dei 15 dipendenti, in modo da evitare l’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Inoltre, quando un’impresa è “dissuasa a crescere”, il suo livello occupazionale medio è inferiore al livello occupazionale che la stessa impresa raggiungerebbe qualora l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori non si applicasse. L’analisi economica suggerisce anche che un’impresa “dissuasa a crescere” dovrebbe caratterizzarsi per due anomalie nel comportamento occupazionale intorno alla soglia dei 15 addetti.

Dovrebbe avere una maggiore riluttanza a cambiare il proprio livello occupazionale una volta raggiunti i 15 dipendenti, rispetto alle altre imprese.

Dovrebbe avere una tendenza a rispondere in maniera asimmetrica a cambiamenti di domanda, con una tendenza a diminuire l’occupazione in conseguenza di una diminuzione di domanda e, in contrasto, una tendenza a non variare l’occupazione in risposta ad aumenti di domanda.

Difficile individuare le imprese “dissuase a crescere”

Esistono nella realtà le imprese “dissuase a crescere”? Quanto potrebbe modificarsi il loro comportamento rispetto ad una situazione ipotetica in cui l’art. 18 non fosse applicato? Passare dalla teoria all’evidenza empirica non è un esercizio banale. Uno dei motivi per cui il dibattito intorno agli effetti della soglia dei 15 dipendenti è stato molto ideologico e poco scientifico è il fatto che individuare le imprese “dissuase a crescere” è un esercizio statistico-econometrico molto complicato. I motivi della difficoltà sono vari.

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Si deve ricordare che esistono diverse istituzioni del mercato del lavoro che si applicano sopra la soglia dei 15 dipendenti. Il diritto dei lavoratori a istituire le Rappresentanze Sindacali Aziendali, i vincoli a rispettare alcuni standard di sicurezza sul lavoro, gli obblighi ad assumere lavoratori disabili e svantaggiati, la legislazione sui licenziamenti collettivi, sono tutte istituzioni che si applicano soltanto alle imprese che hanno superato i 15 dipendenti. Conseguentemente, è difficile identificare esattamente quali anomalie comportamentali siano effettivamente dovute all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori piuttosto che alle istituzioni sopra elencate.

Inoltre, non è neanche immediato stabilire esattamente quando un’impresa abbia effettivamente superato la soglia dei 15 addetti. Questo per due motivi.

L’articolo 18 si riferisce agli stabilimenti, mentre i dati disponibili normalmente si riferiscono alle imprese. Anche se è vero che la stragrande maggioranza delle imprese piccole è costituita da un solo stabilimento, questa discrepanza è una possibile fonte di problemi di misurazione.

Non tutti i lavoratori presenti in azienda in un dato mese devono essere considerati tali ai fini dell’applicazione dell’articolo 18. I lavoratori interinali, i collaboratori coordinati e continuativi (COCOCO), i familiari del datore di lavoro e i lavoratori temporanei (sotto i nove mesi) non devono essere contati, mentre i lavoratori part-time devono essere contanti in proporzione al tempo effettivamente trascorso in azienda. Questo suggerisce che le imprese possono raggiungere i fatidici 16 dipendenti senza essere sottoposte allo Statuto dei Lavoratori, perché stanno utilizzando lavoratori coperti da contratti non rilevanti ai fini dell’applicazione dello Statuto. Ma le stesse imprese possono anche intraprendere comportamenti più sofisticati e meno leciti per eludere l’applicazione dell’articolo 18. Invece di assumere 16 dipendenti, un’impresa può creare due entità distinte di 8 dipendenti, o può invece assumere in nero il sedicesimo lavoratore. Questi comportamenti elusivi, leciti e meno leciti, non sono rilevabili con le basi dati attualmente disponibili.

“Anomalie comportamentali”

Nonostante queste difficoltà, è comunque possibile utilizzare le basi dati dell’INPS per cercare di individuare eventuali anomalie comportamentali riferibili alle imprese “dissuase a crescere”. Utilizzando la base dati di imprese e lavoratori disponibile presso il LABORatorio Riccardo Revelli di Torino, si ottiene un campione di circa mille imprese che operano intorno alla soglia dei 15 dipendenti, relativo agli anni 1986-1996. Analizzando il comportamento di queste imprese alla luce di quanto suggerito dalla teoria economica, in confronto a un “comportamento di base” – cioè a quel comportamento che si dovrebbe ottenere statisticamente qualora non esistesse alcuna anomalia nella condotta delle imprese intorno alla soglia – si raggiungono due risultati.

– La probabilità che un’impresa di 15 dipendenti non cambi il proprio livello di occupazione aumenta di 1.5-2 punti percentuali rispetto al “modello statistico di base”. In altre parole, se non esistesse alcuna anomalia statistica, un’impresa di 15 addetti dovrebbe avere il 20% di probabilità di non cambiare il proprio livello occupazionale in un anno. In realtà, tale probabilità è di circa 22 punti percentuali.

La differenza tra la probabilità di crescere e di decrescere intorno alla soglia è inferiore di circa 1.5 punti percentuali rispetto al “modello statistico di base” che prevede una differenza nulla. Le imprese intorno alla soglia di 15 dipendenti paiono avere un comportamento più asimmetrico (è più probabile che riducano l’occupazione rispetto ad aumentarla), in linea con quanto previsto dall’analisi economica. Si noti che questi due risultati sono abbastanza robusti, nel senso che rimangono tali anche quando si modificano alcune delle ipotesi usate per stimare il “modello statistico di base”.

Tuttavia, la dimensione stimata dell’anomalia comportamentale delle imprese attorno alla soglia dei 15 dipendenti appare quantitativamente piccola. Inoltre, il tutto coinvolge un numero di posizioni lavorative certamente non elevato, rispetto al totale dell’occupazione alle dipendenze di imprese private (oltre 9 milioni di persone), dal momento che i lavoratori occupati in imprese di 15 dipendenti sono circa 130 000.

Lo studio a cui ci riferiamo certamente non costituisce un punto di arrivo e certamente non mette la parola fine al dibattito sull’opportunità di modificare la soglia di applicazione dell’articolo 18. Ma i risultati qui riassunti rappresentano un utile punto di partenza, che ci si augura possa essere migliorato con ulteriori e rigorosi studi in futuro.

Perché una soglia a 15 dipendenti per l’applicazione dell’Art. 18?, di Giuseppe Bertola e Pietro Garibaldi (11-07-2002)

Sulla soglia a 15 dipendenti per l’applicazione dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori si registrano prese di posizione molto decise. Praticamente tutti la vogliono eliminare: taluni perchè sostengono che l’attuale normativa rappresenti un tappo insormontabile per la crescita delle piccole imprese; altri perché considerano l’art. 18 un diritto inalienabile, e vorrebbero estenderne l’applicazione anche ai dipendenti delle imprese più piccole e ai Co.Co.Co. Difficile orientarsi in questa situazione.

In Italia, il licenziamento di un lavoratore è legittimo quando sussiste giusta causa (comportamento scorretto del lavoratore) o giustificato motivo (inevitabile eccesso di manodopera). Altrimenti, l’art.18 dà al lavoratore licenziato di un’ impresa con più di 15 dipendenti il diritto a ritornare sul posto di lavoro. In pratica, l’art.18 tende ad offire ai lavoratori una tutela fortissima contro eventi sfortunati esterni al loro controllo. Fornire ai dipendenti un servizio di questo tipo implica un costo per le imprese, che risultano di conseguenza contrarie alla sua applicazione. Un beneficio per i lavoratori ed un costo per le imprese. Come si può fare?

Una soluzione potrebbe essere quella di creare un mercato finanziario ed assicurativo che tuteli i lavoratori, e lasciare agli individui il compito di comprare tale servizio sul mercato. Ma nessuna società assicurativa accetterebbe un contratto in cui il lavoratore occupato paga un premio mentre lavora, e l’assicurazione paga un bel gruzzolo quando il lavoratore perde il posto. Il lavoratore, una volta assicurato, non avrebbe più la stessa motivazione sul lavoro e i datori di lavoro licenzierebbero a cuor leggero – tanto paga l’assicurazione — che ovviamente andrebbe in perdita. In questa situazione, può essere giustificato un intervento coercitivo del legislatore, nello spirito di quanto stabilito dallo Statuto dei Lavoratori.

Ma allora perché si devono esentare le imprese più piccole dall’offrire questo servizio? Come tutte le regole, l’art. 18 comporta dei costi e dei benefici, ed è chiaro che gli uni e gli altri dipendono anche dalla dimensione aziendale. Le imprese più grandi possono essere in grado di offrire la tutela ai lavoratori a costi ragionevoli, in virtù dei loro frequenti contatti con le banche e dell’ampio accesso ai mercati finanziari. Ma le imprese più piccole, milioni delle quali a gestione familiare, hanno grandi difficoltà ad accedere al prestito bancario, e non hanno alcuna possibilità di entrare in borsa. Quando i mercati finanziari hanno queste caratteristiche, il legislatore può avere ottimi motivi per esentare le piccole imprese dall’obbligo di fornire ai lavoratori questa protezione. Se così non fosse, si rischierebbe di introdurre una norma i cui costi più che compensano i relativi benefici.

Il legislatore italiano nel 1970 ha deciso di fissare il limite di applicazione dell’art. 18 a 15 dipendenti. Certo 15 dipendenti non è un numero magico, esattamente come non è sempre vero che a 18 anni si raggiunge la piena maturità, mentre a 17 anni ed undici mesi si è legalmente immaturi: ci sono certamente imprese grandi per le quali il rispetto dell’art. 18 implica costi complessivi superiori ai benefici sociali, e ci saranno pure imprese piccole ben integrate nei mercati finanziari le cui spalle potrebbero sopportare lacciuoli ben più stringenti dell’art.18. Ma la legge deve essere chiara, non può valere caso per caso. E come la maggiore età è passata da 21 a 18 anni, così pure la soglia di applicazione dell’art.18 potrà, un giorno, essere ridotta. Ma perché tale riduzione sia appropriata è necessario che le imprese più piccole abbiano maggiore accesso ai mercati finanziari, mentre un migliore accesso dei lavoratori a strumenti finanziari potrebbe accompagnarsi ad un rilassamento delle tutele sul mercato del lavoro. Difficile dire se l’Italia sia pronta all’uno o all’altro cambiamento. Ma per modificare l’art. 18 si devono considerare onestamente sia i costi che i benefici e le prese di posizione di chi vede solo i costi o solo i benefici generano solo confusione.

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sommario 10giugno 2003

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  1. Cesare

    E’ vero, l’articolo ha centrato l’obbiettivo. Il problema della aziende che hanno problemi di assunzioni, non è l’Art.18, (Biagi non ha mai detto o scritto, nel libro bianco, che l’art.18 doveva essere tolto o modificato, se lo avesse fatto avrebbe dimostrato incompetenza, e non era il suo caso…) nè condivido Parisi e Galli di Confindustria che parlano solo per puri interessi di parte senza alcun rispetto verso i lavoratori.
    Io sono un imprenditore e a mio parere gli industriali, con la complicità del Governo, vogliono, cosa che non condivido, solo poter licenziare chi non dimostra lealtà per il lavoro da svolgere. Tuttavia il sindacato dovrebbe salvaguardare anche l’impresa, da queste mele marce che rovinano anche tutte le altre sane. Altro obbiettivo è, con la scusa art.18, dividere i Sindacati. Fatto ciò, cosa rimane in mano ai sindacati, per dimosttrare ai lavoratori che li stanno tutelando? Nulla o poco più. Gli industriali, vogliono potere licenziare per qualsiasi motivo senza rendere conto a nessuno. Per me questo significa non avere rispetto per chi gli consente di ottenere una vita agiata. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca.

    Saluti
    Cesare

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