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Europa senza più alibi

Dopo il taglio dei tassi l’Europa non ha piu’ alibi per non crescere. E non puo’ continuare ad addossare agli Stati Uniti colpe che sono solo sue. Condannare la politica del dollaro debole è solo l’ultima versione dell’antiamericanismo nostrano. In realtà, i livelli dei cambi sono decisi dai mercati e i tagli alle imposte voluti da Bush favoriranno la crescita. Con buona pace dei keynesiani italiani.

È la più recente e creativa versione dell’antiamericanismo nostrano: dopo l’unilateralismo della guerra in Iraq, gli Stati Uniti vogliono uscire dalla “crisi” economica in modo altrettanto unilaterale e svalutano il dollaro anche per “punire” l’Europa, che sarebbe sull’orlo della deflazione a causa dell’euro forte. Alcuni avanzano addirittura previsioni catastrofiche, paragonando la crisi di oggi a quella del 1929.

Una tesi elegante, ma fantasiosa

È una tesi elegante, ma cosa c’è di vero? Praticamente nulla. A prescindere dal fatto che il presupposto unilateralismo americano in politica estera ha vinto (ma su questo si può discutere), la cosiddetta politica del dollaro debole è pura fantasia per due motivi.

Primo, il dollaro non è particolarmente debole rispetto all’euro. A suo tempo, la moneta europea ha debuttato a 1,17 sul dollaro, all’incirca il livello di oggi. Dovremmo pensare che i leader europei, nella loro infinita saggezza, abbiano introdotto l’euro a un livello sbagliato?

Secondo, sono i mercati che stabiliscono il livello dei cambi, non i governi. Come giustamente scriveva il Financial Times, opporsi alle tendenze del mercato dei cambi è come cercare di fermare un rinoceronte con una pistola ad acqua. Quando John Snow ha parlato di una politica del dollaro debole ha perso una buona occasione per tacere perché la “politica del tasso di cambio” semplicemente non esiste. Snow ha goffamente cercato di far credere che nulla gli sfugge e che può “scegliere” il livello del cambio. Quando il dollaro era più forte, l’omologo di Snow nell’Amministrazione Clinton, Larry Summers (oggi il presidente della mia università, l’Harvard University), sosteneva che il dollaro forte fa bene all’economia americana. Anche George W. Bush è tornato a parlare di dollaro forte, ma meno i politici dissertano di tasso di cambio, meglio è.

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L’unica cosa che l’Europa deve chiedere agli Stati Uniti è di non cadere in tentazioni protezionistiche. All’inizio del suo mandato, Bush ha fatto due mosse sbagliate in questa direzione, innalzando barriere doganali nel settore agricolo e in quello dell’acciaio. Per fortuna, il suo team economico è cambiato ed errori di questo tipo non dovrebbero ripetersi. In realtà, nonostante la retorica associata alla guerra, i rapporti economici e finanziari tra le due sponde dell’Atlantico rimangono eccellenti e crescono di intensità. È emblematico il fatto che una ditta francese rifornisse di vettovaglie le truppe americane in Iraq.

L’ossessione italiana

Ma allora perché questa ossessione nostrana sul tasso di cambio e sulla politica economica americana? Per due motivi.

Primo perché fa sempre comodo trovare un capro espiatorio. Fa comodo a imprenditori che non sanno far crescere la produttività (ma che sono sempre pronti a farsi salvare dal contribuente), a banche protette dalla concorrenza internazionale (altro che l’efficienza attribuita al sistema bancario dal Governatore della Banca d’Italia nelle sue “Considerazioni finali“), a sindacati che difendono solo gli insider e a mille corporazioni privilegiate perché immuni alle regole di mercato. Il tasso di cambio, Bush e l’immancabile Banca centrale europea sono un capro espiatorio per antonomasia.

Secondo, perché c’è una fetta consistente della cultura economica italiana (quella, per intenderci, che pensa che studiare economia sia fare l’esegesi della “Teoria generale” di John Maynard Keynes) che vede ancora l’economia di mercato come la fonte di molti mali e lo Stato come il grande salvatore, come ad esempio ha sostenuto Giorgio Lunghini in una recente trasmissione televisiva.

Al contrario, le riduzioni del carico fiscale stimolano l’economia. In Europa, la politica fiscale espansiva è sempre intesa ad aumentare le spese. Invece, come notava Robert Barro su Business Week, negli Stati Uniti i tagli alle imposte di Kennedy e Johnson nel 1963-64 favorirono una espansione interrotta solo dalla crisi petrolifera del 1973; ai tagli fiscali e alla deregolamentazione di Reagan nella prima metà degli anni Ottanta è seguita una espansione che ancora continua, a parte una breve recessione nel 1990-91.

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Bush fa bene a ridurre le imposte: stimolerà la crescita. Si può discutere se i tagli fiscali del presidente americano siano troppo a favore dei ricchi e se vadano aggiustati per correggere questo aspetto, ma non ho alcuna riserva sul loro ammontare. La maggiore crescita, più un relativamente modesto taglio alle spese, eviterà che i deficit di bilancio si accumulino. La forte espansione degli anni Novanta ha rimesso il bilancio americano sulla buona strada. È comunque interessante notare come una parte dei commentatori in Europa critichi allo stesso tempo il Patto di stabilità, perché impedisce di aumentare i deficit in Europa, e Bush, perché fa crescere quello americano.

Insomma, perché l’antiamericanismo trionfi, l’economia americana “deve” fallire, ci “deve” essere una crisi dell’economia di mercato, deflazione e miseria generalizzata. Si dice che la speranza sia l’ultima a morire: gli antiamericani continuano a sperare, ma l’economia di mercato è viva e vegeta.

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  1. un lettore della voce.info

    Egregio Dott. Alesina,
    condivido la sua tesi iniziale sulla determinazione del tasso di cambio da parte dei mercati e non dei politici ma dissento sulla tesi finale del rapporto che intercorre tra teoria dei tagli fiscali ed economisti Keynesiani. Purtroppo, il più delle volte la teoria economica Keynesiana viene interpretata, erroneamente, in una teoria della spesa pubblica e non invece come dovrebbe: una teoria della domanda aggregata. Una tale visione, classica, della teoria Keynesiana, trova nei tagli fiscali una possibilità di incremento della domanda aggregata nella misura in cui, in presenza di una fase stagnante del ciclo della domanda, i tagli fiscali siano diretti alle persone con una maggiore propensione alla spesa e soprattutto siano elargiti al momento opportuno, ossia quando il ciclo è debole: esattamente l’opposto dei tagli fiscali decisi dall’amministrazione repubblicana.

    Cordialmente
    Un lettore della Voce.info

    • La redazione

      Caro lettore,
      grazie per i commenti. Io credo che i tagli fiscali servano non solo e non tanto per stimolare l’economia dal lato della domanda ma anche e soprattutto dal lato dell’offerta. L’ evidenza emprica sugli effetti della poltica fiscale dimostra come tagli alle imposte siano più effettivi di aumenti di spesa. Questi ultimi hanno anche effetti molto negativi sugli investimenti privati compromettendo la crescita di lungo periodo, un punto che a Keynes interessava poco visto che “nel lungo periodo saremo tutti morti”. Sul tagliare le tasse ai poveri o ai ricchi credo che il fattore determinante di questa scelta sia una di valutazione politica non di efficacia sulla domanda aggregata.

      Cordiali Saluti
      Alberto Alesina.

  2. Davide Tondani

    Il valore aggiunto della vostra newsletter è l’autorevolezza dei contenuti degli articoli, che non cedono alle lusinghe della politica, ma che analizzano, da destra o da sinistra, ma sempre con rigore, i vari temi affrontati. Devo dire che l’ultimo articolo di Alesina sul dollaro debole (10-06-2003) pecca in ciò. Le sue opinioni sono autorevoli e tali rimangono, lascia perplesso piuttosto il tono dell’articolo, che andrebbe bene forse per quotidiani come il Giornale o Libero, e non per una newsletter di economisti. Mi spiego. Primo, è la prima volta che vedo su questo sito una critica così piena di astio a un altro economista (Lunghini). Ognuno ha le sue idee, ma questa supponenza tipo “io ho ragione lui è uno sconfitto”, proprio non la digerisco. Se voglio questi commenti appunto compro Libero. Dire che i rapporti economici tra Europa e USA vanno bene può essere vero, ma spiegarlo con il fatto che le vettovaglie dei marines sono fornite da una ditta francese può fare colpo a Porta a Porta, non certo di fronte a lettori come quelli di Lavoce.info.
    Dire che l’unilateralismo americano ha vinto, oltre che azzardato (Alesina non è uno storico e i cicli storici si evolvono lungo decenni, non settimane) mi pare un giudizio un poco da “ultras”, non certo da studioso di fama quale Alesina è. Se poi la vittoria a cui Alesina si riferisce è quella bellica, ricorderei che quella vittoria si materializza nella perdita di vite umane. C’è poco da esaltarsi per questo, indipendentemente da eventuali giudizi sulla giustezza di questa guerra. E poi ci sono i soliti luoghi comuni sui sindacati, i keynesiani, etc. Non vado oltre per non essere troppo lungo. Sarebbe facile a questo punto controbattere rinfacciando al Prof. Alesina i grandi successi del libero mercato in Argentina, in Russia, nel Sud Est asiatico, e le grandi politiche del Washington Consensus. Ma proseguire sul suo registro vorrebbe dire trasformare una newsletter interessante e autorevole in un fogliaccio di bassa lega. Sottolineo la mia stima per il Prof. Alesina, che pur avendo opinioni diverse dalla mia rimane un economista serio e preparato, come dimostra la sua carriera. E’ anche per questo che desidererei leggere, da gente del suo calibro, serie teorie e analisi che le avvalorano, anzichè attacchi contro tutti…

    • La redazione

      Caro lettore,
      grazie per la stima e mi spiace di averla delusa. Credo che se le idee espresse nell’ articolo fossero state piu’ vicine alle sue, non le avrebbe trovate dei luoghi comuni. Ad esempio il fatto che in Argentina o in Russia sia l’economia di mercato ad aver fallito, quello sì è un luogo comune. Per quanto riguarda i morti in Iraq, si è mai chiesto quanti morti avrebbe causato Saddam Hussein se fosse rimasto al potere? L’articolo non intendeva essere astioso ma sento molta passione per questi argomenti.

      Cordiali Saluti
      A.A.

  3. Giorgio Lunghini

    Cari amici della Voce,
    nella invettiva di Alberto Alesina, circa una Europa senza più alibi e circa la fetta della cultura economica italiana di cui farei parte, c’è una sola proposizione di rilievo analitico: “Bush fa bene a ridurre le imposte: stimolerà la crescita. Si può discutere se i tagli fiscali del presidente americano siano troppo a favore dei ricchi”. Guarda caso, questo è un tema centrale nella Teoria generale, su cui Alberto Alesina potrebbe esercitare la sua esegesi.
    Trovo invece ambigua la chiusa del suo scritto:”L’economia di mercato è viva e vegeta”. In italiano si può dire così sia di una pianta vigorosa e sana, sia di un paziente in coma.
    Saluti cordiali.
    Giorgio Lunghini

    • La redazione

      La mia non era una “invettiva” ma un articolo scritto con passione. Mi scuso se ho offeso Giorgio Lunghini che mi ha fatto molto piacere conoscere anche se abbiamo opinioni diverse. Per discutere se i tagli fiscali di Bush vadano corretti in questa o quella direzione non c’è bisogno di scomodare Keynes. I tagli fiscali servono soprattutto a stimolare l’economia dal lato dell’ offerta, un argomento di cui Keynes si e’ occupato relativamente poco. Se, come credo alluda Giorgio Lunghini, una maggiore redistribuzione del reddito faccia crescere di più l’economia, la Svezia dovrebbe crescere il triplo degli Stati Uniti. Una maggiore redistribuzione del reddito la si puo difendere senz’altro per motivi morali. Lasciamo stare però la domanda aggregata diciamo solo che piu uguaglianza e un obiettivo per se e basta, che va benissimo. Continuo a pensare che in Italia
      si parli troppo di Keynes (che reputo un grandissimo economista, ovviamente) e troppo poco di chi non la pensa come lui, da Milton Friedman, a Robert Lucas a Robert Barro.

      A.A.

  4. Stefano Lucarelli

    Il prof. Alesina crede che la riflessione di Keynes sia tutta rivolta al breve periodo e dimentica il capitolo conclusivo della General Theory, che tratta proprio del lungo periodo (come l’esegesi del prof Lunghini svela: occorre rileggere la General Theory, occorre leggerla tutta dall’inizio alla fine, si scoprirà che in essa c’è un filo conduttorre forte che parla proprio dei giorni nostri). E’ impressionante che i difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo siano oggi gli stessi che Lord Keynes denunciava nel 1936: “l’incapacità a provvedere una occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito”.Che cosa si dovrebbe fare, e si potrebbe fare, se davvero si condivide il giudizio che la disoccupazione e l’ineguaglianza sono dei mali da guarire? Scrive Keynes:
    1 Nelle condizioni contemporanee l’aumento della ricchezza, lungi dal dipendere dall’astinenza dei ricchi, come in generale si suppone, è probabilmente ostacolato da questa. Viene quindi a cadere una delle principali giustificazioni sociali della grande disuguaglianza delle ricchezze. […] Per mio conto, ritengo che vi siano giustificazioni sociali e psicologiche per rilevanti disuguaglianze dei redditi e delle ricchezze, ma non per disparità tanto grandi quanto quelle oggi esistenti. Vi sono pregevoli attività umane che richiedono il movente del guadagno e l’ambiente del possesso privato della ricchezza affinché possano esplicarsi completamente. Inoltre, l’esistenza di possibilità di guadagni monetari e di ricchezza privata può istradare entro canali relativamente innocui pericolose tendenze umane, le quali, se non potessero venir soddisfatte in tal modo, cercherebbero uno sbocco in crudeltà, nel perseguimento sfrenato del potere e dell’autorità personale e in altre forme di autopotenziamento. E’ meglio che un uomo eserciti la sua tirannia sul proprio conto in banca che sui suoi concittadini. […] Ma per stimolare queste attività e per soddisfare queste tendenze non è necessario che le poste del gioco siano tanto alte quanto adesso. Poste assai inferiori serviranno ugualmente bene, non appena i giocatori vi si saranno abituati. Però non deve confondersi il compito di tramutare la natura umana col compito di trattare la natura umana medesima. Sebbene nella repubblica ideale sarebbe insegnato, ispirato o consigliato agli uomini di non interessarsi affatto alle poste del gioco, può essere pur tuttavia saggia e prudente condotta di governo consentire che la partita si giochi, sia pure sottoponendola a norme e limitazioni, fino a quando la media degli uomini, o anche soltanto una sezione rilevante della collettività, sia di fatto dedita tenacemente alla passione del guadagno monetario.
    2 Ora, sebbene questo stato di cose sarebbe affatto compatibile con un certo grado di individualismo, esso significherebbe tuttavia l’eutanasia del rentier e di conseguenza l’eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale. Oggi l’interesse non rappresenta il compenso di alcun sacrificio genuino, come non lo rappresenta la rendita della terra. […] Potremmo dunque mirare in pratica (non essendovi nulla di tutto ciò che sia irraggiungibile) a un aumento del volume di capitale finché questo non fosse più scarso, cosicché l’investitore senza funzioni non riceva più un premio gratuito: e a un progetto di imposizione diretta tale da permettere che l’intelligenza e la determinazione e l’abilità del finanziere, dell’imprenditore et hoc genus omne (i quali certamente amano tanto il loro mestiere che il loro lavoro potrebbe ottenersi a molto minor prezzo che attualmente) siano imbrigliate al servizio della collettività, con una ricompensa a condizioni ragionevoli.
    3 Lo Stato dovrà esercitare un’influenza direttiva circa la propensione a consumare, in parte mediante il suo schema di imposizione fiscale, in parte fissando il saggio di interesse e in parte, forse, in altri modi. Per di più, sembra improbabile che l’influenza della politica bancaria sul saggio di interesse sarà sufficiente da sé sola a determinare un ritmo ottimo di investimento. Ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento si dimostrerà l’unico mezzo per consentire di avvicinarci all’occupazione piena; sebbene ciò non escluda necessariamente ogni sorta di espedienti e di compromessi coi quali la pubblica autorità collabori con la privata iniziativa. […] Non è la proprietà degli strumenti di produzione che è importante che lo Stato si assuma. Se lo Stato è in grado di determinare l’ammontare complessivo dei mezzi dedicati ad aumentare gli strumenti di produzione e il saggio base di remunerazione per coloro che li possiedono esso avrà compiuto tutto quanto è necessario. Inoltre la necessarie misure di socializzazione possono essere introdotte gradualmente e senza apportare una soluzione di continuità nelle tradizioni generali della società.”
    Definendo la disoccupazione e l’ineguaglianza come fenomeni “naturali”, i problemi che Keynes cerca di risolvere vengono soppressi. E’ emblematico che questa soppressione sia proprio la condizione sufficiente a giustificare le manovre di politica economica che la presidenza Bush sta realizzando.
    E’ anche significativo che nei corsi di economia politica di primo, secondo, ed ennesimo livello scompaia ogni riferimento al problema distributivo a favore di una teoria della crescita su cui si potrebbe lecitamente dubitare rileggendo Keynes, Sraffa e i classici. Proprio quegli autori che scompaiono dai sacri testi su cui studiano i miei amici oggi impegnati a formarsi nelle prestigiose università statunitensi, le quali sembrano emanare un antieuropeismo preoccupante.

    Un cordiale saluto
    Stefano Lucarelli

    • La redazione

      Grazie per il commento. Non è vero che il “problema distributivo” scompaia dai corsi di economia. Anzi: se lei sfoglia gli ultrimi anni delle riviste accademiche di economia americane ed europee trovera’ moltissimo su distribuzione del
      reddito, conflitto o coerenza tra redistribuzione e crescita etc. Pensare che solo Keynes e Sraffa si siano occupati di distribuzione del reddito non e’ assolutamente vero.

  5. Hans Moser

    Questi archivi on-line sono una benedizione per lo storico e, forse, una maledizione, per gli autori. Leggo l´ articolo del Prof. Alesina, che usa come argomento l´ unilateralismo vincente di Bush: 3 anni dopo la presa di Bagdad lo si ripeterebbe?
    Un esempio per l´Europa la crescita americana sempre piu´ indotta dalle spese militari?
    Bello, invece, l´ affondo sulla Banca d´Italia, si sente gia´ il vento caldo dell´ estate 2005, il bacio in fronte, il quartierino e i suoi furbetti, e, einsamer Gipfel, il fare il f. col c. degli altri.

    Grazie, Prof.

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