Bruno Trentin discute con Pietro Ichino di accordi separati, misurazione della rappresentatività dei sindacati e “modello tedesco” di disciplina dei licenziamenti.
Dopo la polemica a distanza che nei giorni scorsi ha visto contrapposti Bruno Trentin e Pietro Ichino, sulle pagine dell’Unità e poi su quelle del Corriere della Sera nella rubrica di Paolo Mieli, lavoce.info ha promosso una discussione fra i due “contendenti” su due questioni cruciali della politica del lavoro italiana. Ne riportiamo il contenuto essenziale.

Dialogo sul lavoro: Bruno Trentin a colloquio con Pietro Ichino

Pietro Ichino. Hai scritto a Paolo Mieli che non vedi l’ora di parlare con me di qualche cosa di diverso dall’articolo 18. Ti propongo di partire da un tema caro a Mieli, quello della “cornice” dei rapporti tra diversi, riferito al movimento sindacale. Non pensi che, in questa fase di grave frattura tra le confederazioni maggiori, si debba puntare a costruire una “cornice” in cui inserire il confronto tra posizioni anche fra loro inconciliabili, basata su di un meccanismo di misurazione della rappresentatività di ciascuno e sul riconoscimento del diritto della coalizione maggioritaria di negoziare con effetti estesi all’intera categoria?

Bruno Trentin*. Sono pienamente d’accordo. È quello che si è realizzato nel pubblico impiego, dove tra l’altro questa “cornice” ha sostanzialmente premiato il sindacalismo confederale. Nel settore privato questa scelta è stata compiuta, in linea di principio, da tutte le confederazioni e dalla Confindustria, con il protocollo Giugni del luglio 1993; ma poi non le si è data attuazione sul piano legislativo, non si è realizzato il meccanismo di votazione periodica nei luoghi di lavoro e rilevazione sistematica dei risultati indispensabile per consentire la soluzione della questione dell’efficacia generalizzata dei contratti collettivi.

P. I. Se ci fosse un meccanismo che consentisse di misurare e certificare periodicamente la rappresentatività dei sindacati, anche gli “accordi separati”, cioè i contratti collettivi stipulati da una parte soltanto dei sindacati, potrebbero non essere considerati più come una anomalia: dove il dissenso è insanabile, contratta chi rappresenta la maggioranza dei lavoratori nell’ambito della categoria. E alla prossima scadenza elettorale i lavoratori decideranno se confermare o no la fiducia alla coalizione maggioritaria. Se si crede nella libertà sindacale e quindi nel pluralismo sindacale, dobbiamo muovere in questa direzione.

B. T. È così, a meno che non si decida di passare ad altri sistemi, molto lontani dalla nostra tradizione sindacale, come quelli praticati nei Paesi anglosassoni. Quei sistemi, certo, presuppongono altre regole; ma pure lì delle regole ci sono, e anche di fonte legislativa.

P. I. La Uil è favorevole a un intervento legislativo che regoli la materia, anche in funzione dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi. La Cisl invece oggi rifiuta la prospettiva della misurazione della rappresentatività in riferimento alla generalità dei lavoratori, sostenendo che il sindacato risponde prioritariamente ai propri iscritti e che non si possono trasferire i meccanismi della democrazia parlamentare sul terreno delle relazioni sindacali.

B. T. Questa posizione della Cisl ha radici antiche e molto rispettabili. Ma occorre tener conto del fatto che nell’ordinamento italiano il contratto collettivo ha di fatto – ed è necessario che abbia, se non vogliamo cambiare radicalmente sistema – un campo di applicazione che va ben al di là del novero degli iscritti a questo o quel sindacato stipulante. Non si può negare a questa parte dei lavoratori, i cui interessi sono inevitabilmente coinvolti, la possibilità di influire sulle scelte negoziali.

P. I. Oggi la Cgil tende a soddisfare questa esigenza attraverso il referendum per la convalida dell’ipotesi di accordo raggiunta al tavolo delle trattative. La Cisl rifiuta questo metodo, denunciando il rischio che in questo modo si finisca con lo svalutare il rapporto associativo tra il sindacato e i suoi iscritti, privilegiando un consenso o dissenso effimero e volatile, facilmente influenzabile dagli umori assembleari del momento. Il sindacato – si dice – deve poter elaborare e perseguire strategie contrattuali di lungo respiro, implicanti talvolta anche scelte impopolari nell’immediato, i cui buoni frutti si vedranno nel medio e lungo termine.

B. T. Questa obiezione ha un fondamento; anch’io ho molte riserve sul ricorso al referendum come strumento normale di consultazione dei lavoratori e di convalida dei contratti. Ma non si può neppure cadere in una sorta di “illuminismo sindacale”, legittimando il sindacato a decidere per conto di tutti, sulla base di una presunzione di rappresentatività non verificata. Credo che su questo punto si possa trovare una soluzione, anche legislativa, che concilii entrambe le esigenze di cui abbiamo parlato. Del resto, sulla necessità di questa soluzione legislativa anche la Cisl ha concordato, firmando il protocollo del luglio 1993. Poi i sindacati, nell’esercizio della loro libertà nei luoghi di lavoro, ben possono -come abbiamo sperimentato in passato – creare delegazioni di lavoratori con cui consultarsi di volta in volta durante le negoziazioni nazionali, oppure attivare assemblee nelle quali le ipotesi di accordo vengano discusse analiticamente, e nelle quali si arrivi anche a un voto; così come possono in alcuni casi avvalersi del referendum; ma questo deve essere frutto di una scelta libera di ciascun sindacato, non una procedura decisionale o negoziale fissata per legge.

P. I. La conciliazione tra la posizione della Cgil e quella della Cisl potrebbe dunque essere questa: contratta per tutti solo la coalizione che, nell’ambito della categoria o dell’azienda, ha conseguito la maggioranza dei consensi nell’ultima consultazione. E, tra una consultazione e l’altra, ciascun sindacato o coalizione può scegliere le forme di rapporto con i lavoratori che preferisce, praticare il modello di democrazia sindacale che meglio corrisponde alla sua tradizione e al suo statuto.

B. T. Sono d’accordo; e credo che anche per la Cisl questa soluzione sia accettabile. Occorre lavorare per far maturare un consenso unitario su questo punto.

P. I. – L’insuccesso del disegno di legge Smuraglia su questa materia, nelle due passate legislature, è dovuto probabilmente al fatto che lì non veniva salvaguardato il rapporto organico tra il sindacato e i suoi rappresentanti in azienda: la rappresentanza sindacale costituiva un soggetto sindacale a sé stante, autonomo, creato per legge: un corpo estraneo rispetto al sistema delle relazioni industriali. Su questo punto credo che l’opposizione della Cisl non fosse ingiustificata. Ma vorrei sentire da te che cosa pensi di un’altra obiezione che ho sentito sollevare in alcuni dibattiti, negli ultimi tempi, contro la prospettiva di un intervento legislativo su questa materia, e questa volta dall’ala sinistra del movimento sindacale: la preoccupazione che una legge sulla rappresentanza sindacale possa costituire il primo passo sulla strada della limitazione alla sola coalizione maggioritaria della facoltà di proclamare lo sciopero, nei servizi pubblici.

B. T. Ricordo di avere percepito questa preoccupazione molto tempo fa, quando si discuteva della legge tedesca, che richiedeva una certa maggioranza per proclamare uno sciopero e, curiosamente, una maggioranza assai più esigua per stipulare validamente il contratto collettivo. Ma erano anni lontani, in cui si esaminava criticamente questa esperienza. Riproporre oggi quella preoccupazione mi parrebbe, francamente, un po’ retrogrado; e porterebbe a un paradossale rovesciamento di posizioni, con lo spostamento della Cgil sulla posizione della parte della Cisl che si oppone a una disciplina generale della rappresentanza sindacale.

P. I. Abbiamo quasi esaurito lo spazio che abbiamo a disposizione. Prima di salutarci, però, una domanda sulla questione della disciplina dei licenziamenti me la devi consentire: non pensi che nella primavera di un anno fa se la Cgil si fosse unita alla Cisl e alla Uil (che erano disponibili per questo) per proporre insieme una riforma modellata sulla legge tedesca, le tre confederazioni avrebbero potuto negoziare con il Governo da una posizione di forza e al tempo stesso assumere una posizione unitaria più forte e credibile contro il referendum di Bertinotti?

B. T. No: non sarebbe stato comunque evitato il problema del referendum di Bertinotti, che è stato promosso con fini politici evidenti, senza alcun riferimento ai contenuti del rapporto di lavoro. E a quel punto era troppo tardi anche per evitare l’iniziativa della Confindustria e del Governo contro l’articolo 18.

P. I. Ma su quella linea il movimento sindacale avrebbe potuto evitare di spaccarsi; e, unito, avrebbe avuto anche una forza negoziale assai maggiore nei confronti del Governo.

B. T. Chi lo sa? Io credo che a quel punto una iniziativa di quel genere non avrebbe scongiurato nulla di quello che è avvenuto e sta avvenendo; perché si sarebbe collocata in una situazione in cui la sola distinzione che contava era tra chi era pro e chi era contro l’articolo 18.  Ritengo probabile che il Governo non l’avrebbe accettata. Quell’iniziativa è venuta troppo tardi; ed è stata in qualche modo compromessa dalle proposte che l’hanno preceduta. Sì, penso in particolare proprio alla prima proposta, ben più radicale, avanzata da te e presentata in Parlamento da Franco Debenedetti nel 1997. Io non ho alcuna obiezione ideologica nei confronti della soluzione tedesca; ma parliamone in un altro contesto politico, stabilendo una netta separazione rispetto al discorso degli ultimi anni. Deve essere ben chiara la differenza tra il modello tedesco e quella tua prima proposta, che prevedeva l’indennizzo automatico, convertibile in parte dal lavoratore in “preavviso lungo”, come scelta liberatoria anche nei confronti di un pronunciamento giudiziale e come unica tutela contro il licenziamento per motivi economici. Potremo riparlarne, del modello tedesco, ma non ora: solo in un diverso contesto politico, dopo che saranno state archiviate le proposte oggi sul tappeto e lo scontro in atto su di esse.

* Segretario generale della CGIL dal 1988 al giugno del 1994

Rappresentanze sindacali e licenziamenti: un glossario, a cura di Pietro Ichino

Breve glossario di temi, proposte e leggi richiamate e discusse da Pietro Ichino e Bruno Trentin nel loro dialogo su accordi separati, misurazione della rappresentatività dei sindacati e modello tedesco di disciplina dei licenziamenti

Protocollo Giugni 23 luglio 1993. Nel capitolo “assetti contrattuali” del Protocollo del luglio 1993 (sottoscritto da Cgil, Cisl, Uil e numerose altre organizzazioni sindacali, con Confindustria e altre associazioni imprenditoriali, nonché con il Governo, e tuttora in vigore), sotto il paragrafo “rappresentanze sindacali”, alla lettera f si legge: “le parti auspicano un intervento legislativo finalizzato, tra l’altro, a una generalizzazione dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi aziendali che siano espressione della maggioranza dei lavoratori, nonché alla eliminazione delle norme legislative in contrasto con tali principi. Il Governo si impegna ad emanare un apposito provvedimento legislativo inteso a garantire l’efficacia erga omnes nei settori produttivi dove essa appaia necessaria al fine di normalizzare le condizioni concorrenziali delle azienda”.

Campo di applicazione del contratto collettivo. L’articolo 39 della Costituzione italiana prevede un meccanismo di registrazione delle associazioni sindacali presso il ministero del Lavoro e stabilisce che “I sindacati registrati (…) possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. Nell’inutile attesa – che si protrae ormai da 55 anni – dell’attuazione o modifica di questa disposizione costituzionale, i giudici del lavoro generalmente adottano i contratti collettivi come parametri per la determinazione della “giusta retribuzione” anche per i lavoratori non iscritti ai sindacati stipulanti, così attribuendo indirettamente ai contratti stessi quella efficacia erga omnes che altrimenti, sulla base del diritto civile comune, essi non avrebbero.

Inoltre, alcuni rilevanti sgravi contributivi concessi dalla legge sono condizionati all’applicazione integrale del contratto collettivo nazionale della categoria alla quale l’impresa appartiene. E l’articolo 36 dello Statuto dei lavoratori del 1970 subordina alla stessa condizione la possibilità per qualsiasi azienda di ottenere appalti pubblici, contributi o benefici pubblici di qualsiasi genere. Con queste norme, l’estensione erga omnes dell’efficacia dei contratti collettivi è stata sostanzialmente conseguita, ma in forma non corrispondente a quanto previsto dalla Costituzione. La questione torna di grande attualità nel momento in cui alcuni rilevanti accordi e contratti collettivi nazionali vengono stipulati soltanto da Cisl e Uil, nel dissenso della Cgil: possono anche questi accordi e contratti “separati” essere assunti come parametro del “giusto trattamento” dovuto al lavoratore, senza una verifica della rappresentatività maggioritaria delle associazioni sindacali stipulanti?

Disegno di legge Smuraglia sulle rappresentanze sindacali. Il 3 maggio 1995 il Senato ha approvato in prima lettura un disegno di legge per l’istituzione e disciplina delle “rappresentanze sindacali unitarie”, che prese il nome dal presidente della commissione Lavoro Carlo Smuraglia, risultante dall’unificazione di sette disegni presentati nell’XI e nella XII legislatura, dei quali uno di iniziativa popolare patrocinato dalla Cgil e uno di iniziativa governativa. Le rappresentanze sindacali unitarie, secondo quel disegno di legge, avrebbero dovuto essere elette dai lavoratori nei luoghi di lavoro con cadenza triennale e con meccanismo elettorale rigorosamente proporzionalista, senza alcun vincolo di mandato per i rappresentanti eletti. In questo modo si recideva ogni rapporto organico tra l’associazione sindacale e il rappresentante, con conseguente espropriazione parziale delle organizzazioni sindacali delle prerogative e dei diritti attribuiti loro in azienda dallo Statuto del 1970, prerogative e diritti che venivano per la maggior parte attribuiti a un soggetto diverso, istituzionalmente indipendente. Per questo motivo la Cisl e la Confindustria denunciarono il rischio della nascita di un sistema di comitati di base creato per legge; qualcuno parlò a questo proposito di una “quarta confederazione sindacale” costituita dall’insieme delle nuove Rsu.

Effettivamente, quelle che nel disegno di legge venivano chiamate “rappresentanze sindacali” non erano organi “sindacali” in senso proprio: non erano, cioè, organi dell’associazione sindacale esterna: esse, traendo la propria investitura soltanto dal basso, per mezzo dell’elezione, erano destinate a rispondere soltanto ai propri elettori. Per questo aspetto, il disegno di legge Smuraglia avrebbe avuto l’effetto di un rovesciamento netto della scelta operata dal legislatore del 1970: al modello delineato nell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, che privilegia il rapporto organico tra l’associazione e la rappresentanza aziendale configurando la seconda come organo periferico della prima assoggettato alla sua disciplina statutaria e lasciando la prima pienamente libera nella scelta delle modalità di organizzazione della seconda, si sarebbe sostituito un modello che privilegiava l’investitura dei rappresentanti dal basso; il modello, cioè, nel quale i lavoratori sono rappresentati in azienda direttamente da un organo eletto a suffragio universale, prima e più che dalle rispettive associazioni sindacali.

A temperamento di questo effetto, i sostenitori del disegno di legge Smuraglia avvertirono la necessità di inserirvi, in seconda lettura alla Camera dei Deputati, una norma che prevedeva l'”affiancamento” delle associazioni sindacali territoriali alle “rappresentanze unitarie” aziendali nella contrattazione collettiva d’impresa. Senonché, soprattutto a causa dell’opposizione di Cisl e Confindustria, il disegno di legge non giunse al termine del suo iter parlamentare. Esso non è stato ripresentato nella legislatura attuale.

Legge tedesca sui licenziamenti. In Germania la legge affida al giudice, se questi ritiene che il licenziamento sia ingiustificato, di determinare caso per caso se condannare l’impresa a reintegrare il lavoratore, oppure soltanto a pagargli un indennizzo (che può arrivare al massimo a 18 mensilità dell’ultima retribuzione), tenendo conto di tutte le circostanze e in particolare del comportamento delle parti prima e dopo il licenziamento, nonché anche ovviamente delle dimensioni dell’azienda. Questo regime si applica a tutte le aziende dai 5 dipendenti in su.

Su di un progetto di legge ispirato al modello tedesco, elaborato da Pietro Ichino, nell’aprile 2002 avevano manifestato il proprio consenso i segretari generali della Cisl, Savino Pezzotta, e della Uil, Luigi Angeletti, i quali sarebbero stati disposti a promuovere in proposito un’iniziativa unitaria nei confronti del Governo, se la Cgil fosse stata disponibile. In seguito il progetto di legge – che prevede un limite massimo di indennizzo differenziato a seconda delle dimensioni dell’azienda, fino a un limite assoluto di 36 mensilità – è stato fatto proprio dalla Uil e presentato in Parlamento da un gruppo di parlamentari dell’area dei liberal diessini, della Margherita e dello Sdi.

Se fosse stata emanata in tempo utile, una legge di questo genere avrebbe avuto l’effetto di evitare il referendum del 15 giugno, poiché con la riduzione della soglia a 5 dipendenti sarebbe stato sostanzialmente eliminato il “doppio regime” della disciplina dei licenziamenti contro il quale il quesito referendario è diretto.

Il disegno di legge Debenedetti. Nel 1997 il senatore Franco Debenedetti ha presentato un disegno di legge per la riforma della disciplina dei licenziamenti, ispirato alla proposta contenuta nel libro di Pietro Ichino Il lavoro e il mercato (Mondadori, 1996); lo ha poi ripresentato nella XIV legislatura. Il Ddl conserva la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro soltanto per il caso di licenziamento discriminatorio o di rappresaglia. Quanto al caso del licenziamento di natura non disciplinare (cioè non motivato con una colpa del lavoratore), il disegno di legge prevede che il datore di lavoro debba accollarsi in ogni caso un indennizzo rilevante, tanto maggiore quanto maggiore è l’anzianità di servizio del lavoratore, fino a un massimo di 36 mensilità dell’ultima retribuzione, lasciando al lavoratore stesso la facoltà di convertire a sua scelta una parte di questo indennizzo nella prosecuzione del rapporto con la normale retribuzione fino al periodo massimo di un anno. In questo modo il disegno di legge si propone di escludere che il lavoratore possa essere messo fuori dall’azienda senza sua colpa da un giorno all’altro o da un mese all’altro: si consente al lavoratore di cercare con calma un nuovo lavoro dalla posizione di occupato e non di disoccupato; e soprattutto lo si incentiva a cercarlo attivamente, perché più presto lo troverà, maggiore sarà l’indennizzo residuo che potrà intascare.

L’idea di fondo sulla quale si basa questo progetto è quella del cosiddetto “filtro automatico” delle scelte dell’imprenditore: una volta escluso che il licenziamento abbia natura discriminatoria o di rappresaglia (e i giudici del lavoro – sostengono i fautori di questa scelta – sono capacissimi di accertarlo efficacemente, anche sulla base di presunzioni semplici), se l’imprenditore è disposto ad accollarsi il costo di quel cospicuo indennizzo, ciò costituisce la prova migliore del fatto che, effettivamente, dalla prosecuzione del rapporto egli si attende una perdita maggiore.

Il disegno di legge Debenedetti prevede che questo regime si applichi, sia pure con le opportune modulazioni dell’entità dell’indennizzo, in tutte le imprese e anche ai rapporti di collaborazione autonoma coordinata e continuativa (c.d. lavoratori “parasubordinati” o co.co.co). Esso delinea pertanto una forma di protezione suscettibile di essere estesa a tutti i circa diciassette milioni di lavoratori italiani operanti in condizioni di sostanziale dipendenza da un datore di lavoro o committente; una forma di protezione suscettibile, altresì, di costituire strumento per il riassorbimento nell’area del rapporto di lavoro a tempo indeterminato di gran parte dei rapporti di lavoro a termine o comunque precari (poiché la predeterminazione certa del costo del recesso in forma di indennizzo, e la convertibilità dell’indennizzo in preavviso di recesso, consente di restringere notevolmente l’area dei contratti a termine e delle altre forme di lavoro precario).

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