Le cattive notizie per l’economia italiana continuano a susseguirsi in questo difficile 2012, tanto da rinviare ormai all’anno prossimo ogni speranza di ripresa. Le ricadute sociali sono assai gravi: la caduta del Pil non sarà pesante come nel 2009, ma arriva nel quinto anno di crisi internazionale, la contrazione dei consumi delle famiglie dimostra con chiarezza che in questo periodo di tempo si sono erosi i risparmi che costituivano uno dei nostri punti di tenuta. I dati sugli immobili, sui mutui, sulla morosità delle utenze, sul significativo aumento di vendite di biciclette, persino quelli sui divorzi (che rallentano) vanno tutti nella stessa direzione, compongono un quadro fosco dove la punta dell’iceberg è costituita dalla disoccupazione giovanile.
Molto interessante quindi lo scambio di opinioni tra Raffaele Tangorra e Linda Laura Sabbadini su questo sito all’inizio di settembre, sulla efficacia  dei dati ufficiali sulla povertà (relativa e assoluta) in Italia.
Ci sono problemi tecnici di limitatezza del campione statistico, di un sua insufficiente rotazione e di una sottostima degli immigrati: tutti problemi di cui l’Istat è consapevole e sui quali si sta intervenendo.
Alcuni hanno fatto osservare che l’indicatore della povertà relativa è in realtà un sismografo della disuguaglianza, e va considerato in quanto tale. Non è una spiegazione molto convincente: accettare acriticamente quella lunga linea piatta che da oltre un decennio non si discosta più di tanto dall’11 per cento, significa infatti accettare che nel lungo periodo intercorso le distanze tra ricchi e poveri in Italia non si sono modificate. Possibile?

IL DISAGIO DEGLI STRANIERI

Quando si parla di povertà assoluta, la questione degli immigrati non è affatto secondaria.
Sappiamo che i due milioni di lavoratori stranieri, mediamente guadagnano circa un terzo in meno degli italiani. Ricerche sul campo della Fondazione Leone Moressa di Mestre hanno dimostrato che nel 2010 più del 40 per cento delle famiglie straniere vive al di sotto della soglia di povertà, contro il 12,6 per cento delle famiglie italiane. Per pervenire a questi risultati si è fatto ricorso alle informazioni messe a disposizione della Banca d’Italia relative all’Indagine sui bilanci delle famiglie. L’approccio utilizzato per il calcolo della povertà attraverso l’analisi dei redditi differisce da quello impiegato dall’Istat, che parte invece dai livelli di consumo delle famiglie. Purtroppo, l’Istituto di statistica non mette a disposizione le informazioni relative alla cittadinanza dei componenti familiari, per cui risulta impossibile poter fare un confronto tra famiglie straniere e italiane partendo “dall’approccio consumi”. Quindi, solo partendo dall’analisi dei dati Banca d’Italia (che invece fornisce questa importante informazione) si è tentato di fare delle considerazioni in merito al comportamento economico delle famiglie straniere: ad esempio, si scopre come la propensione al risparmio sia quasi nulla, che il reddito familiare sia la metà di quello delle famiglie italiane, che l’84 per cento dei redditi deriva da lavoro dipendente, che il 27 per cento del reddito familiare viene speso per il pagamento dell’affitto dal momento che oltre il 70 per cento delle famiglie prende in locazione abitazioni in aree soprattutto periferiche e che il 33 per cento dei nuclei familiari vive in situazione di sovraffollamento.
Informazioni utili, ma non sufficienti, per delineare un quadro di forte disuguaglianza che pone le famiglie straniere in situazioni di grave disagio economico e di conseguenza sociale.
Considerando allora che nel decennio trascorso gli immigrati sono passati da 1,5 milioni a 4,5 milioni (l’incertezza del dato censuario c’era anche nel 2001), come mai l’indice di povertà assoluta non ne ha risentito significativamente? Possibile?
Sul primo versante, ampie ricerche storiche come quelle di Giovanni Vecchi (ad esempio “In ricchezza e povertà”), di Maurizio Franzini (“Ricchi e poveri”) e uno studio più recente di Mario Pianta (“Nove su dieci”), utilizzando fonti diverse, convergono nel dimostrare che la forbice della disuguaglianza si sta allargando, soprattutto a svantaggio dei lavoratori dipendenti.
Sul secondo versante, è utile un confronto con le statistiche americane su povertà e disuguaglianza, che sono chiare nel mostrare l’importanza degli immigrati.
Lo stato più ricco, il Connecticut, e quello più povero, il Mississippi, sono vicini nel ranking della disuguaglianza, perché abbastanza omogenei al loro interno. Ma gli stati più diseguali sono tutti a forte pressione migratoria: Arizona, Texas, New York e New Jersey.
Gli immigrati sono poveri anche in stati molto prosperi.
L’indice di Gini mostra i valori più alti (forte concentrazione della ricchezza) in stati come California, Texas, Florida e New York. I conti tornano.

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I POVERI PERSISTENTI

Nel nostro paese, finora, è mancato un chiaro riscontro empirico dell’influenza del fenomeno migratorio sui livelli di povertà e sull’allargamento delle disuguaglianze.
Eppure le cose stanno proprio così.
Probabilmente gli indicatori tradizionali di povertà relativa e assoluta nel nostro paese, da soli, non sono più sufficienti a fotografare la realtà, soprattutto nel contesto europeo.
Occorrono nuovi strumenti che in parte si stanno già utilizzando: il Quaderno della ricerca sociale n. 17 “Povertà ed esclusione sociale: l’Italia nel contesto comunitario. Anno 2012”, elaborato dal ministero del Welfare, evidenzia nuovi dati per il 2010, riferiti ai redditi del 2009, anno in cui la crisi ha cominciato a manifestarsi. Lo studio analizza il rischio di povertà ed esclusione dei paesi europei alla luce del nuovo indicatore comunitario, definito nell’ambito degli obiettivi della Strategia Europa 2020. In realtà, si tratta della combinazione di tre diversi indicatori: a quello tradizionale di rischio di povertà relativa si aggiungono infatti l’indicatore di deprivazione materiale (non potersi permettere determinati beni durevoli come il telefono, la tv a colori, di consumare un pasto di carne o pesce ogni due giorni, fare una vacanza, pagare un mutuo eccetera) e di esclusione dal mercato del lavoro.
Ne scaturisce un nuovo indicatore di “povertà persistente” misurato con gli stessi criteri in tutta l’Unione Europea, cioè la percentuale di popolazione a rischio di povertà, che lo era anche in almeno due dei tre anni precedenti.
Questi “poveri persistenti” erano nel 2010 10,3 milioni, il 70 per cento dei 14,7 milioni di italiani a rischio di povertà. Quindi il 13 per cento della popolazione italiana rientra in questa categoria, e siamo superati solo dalla Grecia (15,4 per cento). Anche il numero delle persone a rischio di povertà ed esclusione sociale, secondo la nuova misurazione, risulta infatti estremamente elevato: 14,7 per cento, pari al 24,5 per cento della popolazione italiana.
Non limitandosi a redditi e consumi, la nuova misurazione risulta più equilibrata e le difficoltà dell’Europa mediterranea più evidenti: Cipro, Portogallo, Spagna, Italia e Grecia occupano infatti le ultime posizioni.
Sarà importante in futuro riuscire a focalizzare gli approfondimenti sulle grandi categorie di poveri: anziani, donne e giovani (soprattutto per quanto riguarda il tasso di disoccupazione) e immigrati.
Se si disponesse di dati significativi anche a livello regionale si potrebbe verificare l’incidenza dell’immigrazione sulla povertà nelle Regioni settentrionali. È utile sottolineare che nelle province di Trento e Bolzano, che stanno sperimentando forme di reddito minimo di inserimento, gli immigrati risultano essere rispettivamente il 35 e il 55 per cento dei beneficiari. Facile immaginare conseguenze politiche.
È infine auspicabile che la normativa sul nuovo Isee sia dotata di un robusto apparato informativo, per poter supportare analisi e conseguenti scelte politiche.

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* Valeria Benvenuti è ricercatrice della Fondazione Leone Moressa; Andrea Stuppini è rappresentante delle Regioni nel Comitato tecnico nazionale sull’immigrazione.

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