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Il lato oscuro dell’Unione bancaria

L’Unione bancaria ha aspetti senz’altro positivi. Ma introduce anche rigidità nella valutazione dello stato di salute delle banche e nel meccanismo di risoluzione delle crisi. Il problema è il mancato riconoscimento che moneta, banche e sovranità fiscale sono dipendenti gli uni dagli altri. 

LE RIGIDITÀ DEL SISTEMA

Con l’Unione bancaria si sono certamente raggiunti alcuni obiettivi importanti. Da un punto di vista strategico, si è data maggiore trasparenza e uniformità alla vigilanza e ai meccanismi di risoluzione delle crisi bancarie europee. Inoltre, per la prima volta, si è creata una forma, ancorché limitata, di mutualità fiscale, con imposte prelevate dal settore bancario e dedicate alla creazione di un fondo comune da utilizzare in caso di crisi. Infine, si è allontanato il rischio che il “regolatore” venga catturato dal “regolato”, ovvero che le autorità di vigilanza competano fra loro riducendo i presidi al contenimento dei rischi. Da un punto di vista tattico, dovrebbe terminare l’incertezza sulla qualità degli asset nelle banche dei diversi paesi e sull’adeguatezza del loro capitale consentendo una ripresa del funzionamento dei mercati interbancari e, forse, degli impieghi alle imprese.
Accanto a questi aspetti positivi, l’Unione bancaria ha introdotto rigidità nella valutazione dello stato di salute delle banche e nel meccanismo di risoluzione delle crisi. Le rigidità sono purtroppo necessarie quando si trasferiscono poteri a organismi tecnocratici sovranazionali, senza legittimità politica e sovranità fiscale. Ma rinunciare alla “discrezionalità” in favore delle “regole” per affrontare dinamiche caotiche (come possono essere le crisi bancarie) e valutare attività alquanto disomogenee può rappresentare un errore fatale, soprattutto in un contesto istituzionale come quello europeo.
Ad esempio, quando non è ancora chiaro se un’istituzione finanziaria può superare le difficoltà in alcuni casi è meglio portare tutto subito alla luce del sole. In altri casi, forse è preferibile rallentare la disclosure e concedere tempo al management e agli azionisti per trovare soluzioni alternative. D’altro canto, la banca, soprattutto se di grosse dimensioni, non è uno stabilimento industriale la cui funzione di produzione è stimabile ingegneristicamente. Nell’attività creditizia esiste una componente strutturale di incertezza e di rischiosità che non può essere perfettamente quantificata (si veda il fallimento clamoroso dei sofisticati modelli di Var nel 2008). Nel determinare il grado di deterioramento dell’attivo e la valenza sistemica di un istituto creditizio entrano anche le valutazioni soggettive e la “cultura” dell’istituzione che vigila. È chiaro che quanto maggiore è la discrezionalità tanto maggiore è il rischio di collusione, clientelismo, inefficienza. Tuttavia, quanto più una autorità di controllo non è in grado di gestire in maniera discrezionale le situazioni di crisi, tanto maggiore è il rischio di causare una endemica instabilità o, all’opposto, di spingere il sistema bancario verso politiche creditizie troppo prudenziali. In entrambi i casi, il risultato è la riduzione del potenziale di crescita del sistema economico.
La domanda che bisogna porsi è quindi se una struttura “tecnocratica” come la Bce sia in grado di gestire le sfumature. La rigidità con la quale si sta svolgendo l’asset quality review, così come le difficoltà che la Banca centrale europea ha nell’utilizzare gli strumenti di politica monetaria non convenzionale, non lascia presagire bene. Difficile immaginare cosa potrà accadere quando si arriverà a decisioni più “politiche” come quelle che potrebbero derivare dal riconoscimento, in sede di attività vigilanza, della necessità di correttivi strutturali nel sistema di governance di interi comparti bancari, come le landesbank tedesche o le popolari italiane. Per non parlare di problematiche a cavallo tra la vigilanza, la regolamentazione e la salvaguardia della stabilità finanziaria come quelle legate al too big to fail, che potrebbero emergere in caso di una grande banca in difficoltà o di progetti di fusione o di sistemi bancari troppo grandi rispetto al Pil dei paesi in cui sono domiciliati.

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PROBLEMATICHE DA BAIL-IN

Prendiamo proprio il caso di una banca in difficoltà e vediamo subito come un principio sacrosanto come quello del bail-in, elemento connotativo della nuova normativa sulla risoluzione delle crisi bancarie, possa trasformarsi in un boomerang, se codificato in regole che non lascino spazio alla discrezionalità. È sacrosanto far pagare agli azionisti le colpe di un fallimento. Ma questo accade già oggi. Forse, ci possono essere stati ritardi nel riconoscere lo stato di default di un istituto, ma tutti i salvataggi bancari degli ultimi anni, che hanno reso necessarie iniezioni di capitale sia pubblico che privato, hanno comportato perdite ingentissime per gli azionisti. E in alcuni casi anche i detentori di debito subordinato (si veda il caso di SNS Bank) non se la sono passata meglio degli azionisti.
Con le nuove regole europee di risoluzioni delle crisi, andando in ordine di seniority, oltre al sacrificio degli azionisti e dei detentori di debito subordinato, è previsto che a pagare siano anche i detentori di debito senior e i depositi non assicurati (sopra i 100mila euro). Il bail-in dovrebbe proseguire fino al raggiungimento dell’8 per cento del bilancio della banca. Solo a quel punto possono intervenire fondi “pubblici”, attingendo in prima istanza al fondo europeo di risoluzioni delle crisi. In questo modo, tutti i creditori, salvo i piccoli depositanti, vengono responsabilizzati circa lo stato di salute della banca, giacché l’onere del salvataggio si sposta dal taxpayer agli azionisti e creditori.
Esistono parecchie obiezioni tecniche a questo meccanismo. Si potrebbe ad esempio discutere sulla correttezza di penalizzare i piccoli obbligazionisti che hanno acquistato 5mila euro di un’obbligazione della propria banca rispetto a salvare chi ha 99.999 euro sul conto corrente. Ancora più rilevante osservare come la regola del bail-in progressivo che appare ragionevole in un contesto “statico”, lo è decisamente meno in un contesto “dinamico”. Come nel più classico modello di bank run, quando si diffonderà la percezione, giusta o sbagliata che sia, di una banca in difficoltà, tutti coloro che hanno depositi superiori ai 100mila euro (altre banche, investitori istituzionali, aziende e privati) fuggiranno rapidamente, facendo precipitare la crisi. In assenza di un prestatore di ultima istanza libero da condizionamenti, legati ad esempio alla natura “fiscale” dell’acquisto di titoli di Stato, sarebbe difficilissimo bloccare il meccanismo delle aspettative auto-realizzanti, anche perché aumenta il rischio di contagio sulle istituzioni che hanno depositi consistenti o detengono grandi quantità di obbligazioni bancarie, come le assicurazioni e i fondi pensione.
Nella direttiva sono previste clausole per evitare di ottemperare alle regole del bail-in al fine di “garantire la continuità delle principali funzioni della banca” o “evitare il contagio generalizzato.” Clausole che andranno interpretate, che saranno oggetto di discussioni accese tra i circa cento decision maker europei coinvolti nel processo di risoluzione della crisi e che rischiano di generare montagne di ricorsi. In uno scenario di crisi potenzialmente sistemica, tra l’altro, la dimensione del common resolution fund (55 miliardi di euro) appare del tutto inadeguata. La sua dotazione è sicuramente sufficiente per affrontare il rischio idiosincratico posto da una singola istituzione creditizia europea (se si applica la regola del bail-in anche ai depositi), ma non è assolutamente adeguata per gestire una crisi potenzialmente sistemica.
In conclusione, il non riconoscere che moneta, banche e sovranità fiscale sono dipendenti gli uni dagli altri porta a disegnare un sistema dinamicamente instabile. L’Europa sembra essere costretta ad avvicinarsi al nocciolo del problema come in una cipolla, grattando via strato dopo strato. Dove, il nocciolo rimane l’Unione politica e la conseguente cessione della sovranità fiscale. Per grattare via il prossimo strato avremo probabilmente bisogno di un’altra crisi e l’Unione bancaria, per come è strutturata, non potrà fare nulla per evitarla.

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Qualche dubbia verità sull’Europa

  1. L’unione bancaria raggiunta è solo un danno per l’Europa, la vera unione bancaria deve avere un fondo di solidarietà e deve garantire tutti i depositi, qui invece abbiamo le regole tedesche e la garanzie dei singoli stati.

  2. Si plaude a che l’unione bancaria faccia scendere l’ammontare degli attivi bancari, sempre più crisi.
    Il nostro sistema bancario non aveva titoli tossici come quello tedesco o francese ma ha dovuto subire le regole dell’unione come gli altri, sono questi i vantaggi delle regole europee? Oppure sono i vantaggi concessi alle banche tedesche per potere penetrare i mercati europei, congelando di fatto il credito alle banche dei paesi meridionali?

  3. La Bce supervisore? Ma se non è stata capace di gestire una politica monetaria decente in Europa, ora le viene assegnato il compito di vigilare sulle banche, siamo arrivati alla frutta. Anche Visco riconosce nel rapporto annuale che l’obiettivo della stabilizzazione dei prezzi da parte della Bce non è perseguito. Cosa fa la Bce? Annuncia dei provvedimenti il 5/6. Aspettiamo, ma se essi sono delle semplici cartolarizzazioni, si rileverà l’ennesimo fallimento dopo quello degli Ltro sterilizzati. Il mercato ha bisogno di liquidità e cosa fa la Bce? Sterilizza i pochi interventi che ne permettevano un incremento. Mi vergogno che il governatore della Bce sia un italiano, oramai tutti hanno capito cosa si deve fare neon che lui: al festival dell’economia a Trento anche Marchionne ha criticato la politica monetaria della Bce. Mi auguro che Renzi faccia ragionare Draghi, che non sta svolgendo il compito per il quale viene pagato (art. 282 del trattato: inflazione al 2% e sostenimento delle politiche economiche della Ue), sta facendo il contrario: deflazione e annullamento delle politiche economiche della Ue. Per tali ragioni sono critico nell’unione bancaria: sarebbe stata una bella cosa ma con delle teste pensanti e non vuote.

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