Il processo di liberalizzazione nel mercato dei prodotti indotto dall’euro e dal Mercato unico europeo si è inceppato in molti paesi non appena acquisito l’ingresso nella moneta unica. A farlo riavviare è stata la crisi, perché nei tempi bui aumenta il costo del non far niente.
RIFORME STRUTTURALI PRIMA E DOPO L’EURO
Per molti, “euro” è diventato sinonimo di crisi economica, bassi salari, tagli alla spesa pubblica, scarsa competitività. Solo pochi anni fa, i cittadini di molti paesi europei mostravano orgogliosi una valuta “pregiata” che per la prima volta spuntava dai loro portafogli. Oggi sembra essere arrivata addirittura la nostalgia delle lire, delle pesetas e delle dracme. Le elezioni europee ci diranno quanto diffuso è questo sentimento, cavalcato da molti movimenti e partiti politici.
Eppure, l’introduzione dell’euro ha portato diversi vantaggi economici ai paesi che l’hanno adottato. Uno degli aspetti meno conosciuti è probabilmente l’effetto che la moneta unica ha avuto nel processo di riforme strutturali in Europa.
L’adozione dell’euro nel 1999 e l’introduzione del Mercato unico europeo nel 1993 hanno coinciso con una forte accelerazione del processo di liberalizzazione nel mercato dei prodotti. Nei settori non manifatturieri, le liberalizzazioni hanno interessato soprattutto il mercato dell’energia (elettricità e gas) e delle telecomunicazioni (telefonia fissa e mobile e servizi postali). In alcuni paesi Ocse, soprattutto quelli anglosassoni, il processo di liberalizzazione era in atto già dalla fine degli anni Settanta. L’entrata nell’euro e nel Mercato unico ha coinciso con nuove riforme soprattutto nei paesi i cui mercati erano più fortemente regolamentati, come Italia, Portogallo, Austria, Germania e Olanda nell’area euro, ma anche la Danimarca. La figura in basso mostra il fenomeno di catching-up dei paesi inizialmente più regolamentati negli anni immediatamente successivi all’introduzione della moneta unica, ovvero dal 1999 al 2003.
Ma perché l’euro avrebbe incentivato, se non addirittura facilitato, le riforme strutturali nel mercato dei prodotti? L’adozione di una moneta unica, condivisa da diversi paesi, comporta ovviamente che ogni singolo paese perda la sovranità sulla politica monetaria, che diventa europea ed è decisa a Francoforte dalla Banca centrale europea. Per i singoli paesi non è più dunque possibile adottare la politica monetaria spesso seguita negli anni Ottanta e Novanta, finalizzata a svalutare la propria valuta (soprattutto nel caso della lira, della peseta e del franco francese) per ridurre il prezzo dei beni esportati e aiutare le imprese nazionali a essere più competitive sui mercati esteri. Con una politica monetaria europea unica, gli aumenti di competitività vanno ricercati nella maggiore produttività delle imprese.
Inoltre, l’esistenza di una moneta comune, soprattutto se accompagnata dall’apertura di uno spazio di libero commercio, come avvenuto con il Mercato unico europeo nel 1993, aumenta la trasparenza negli scambi e dunque la concorrenza internazionale. In questo nuovo scenario economico, la liberalizzazione dei mercati, soprattutto quella dei servizi alle aziende, come energia e comunicazioni, rappresenta una strada quasi obbligata per poter aumentare la competitività delle aziende domestiche.
PAESI RIMASTI A METÀ DEL GUADO
Queste dinamiche di aggiustamento si sono verificate negli anni immediatamente successivi all’adozione dell’euro, e in alcuni casi addirittura ancor prima dell’entrata nella moneta unica. Tra il 1993 e il 1998, ad esempio, Italia e Spagna sono state costrette a seguire una politica di forte moderazione salariale, che consentisse loro di soddisfare i criteri di Maastricht sull’inflazione. Appena acquisita l’entrata nell’euro, gran parte di questo sforzo si è affievolito, e anche nelle liberalizzazioni del mercato dei prodotti la spinta propulsiva si è presto ridotta.
Le regolamentazioni nel mercato del lavoro hanno invece resistito alle domanda di cambiamenti economici in parte sollecitate dalla moneta unica. Malgrado l’assenza di svalutazioni competitive e i più stringenti vincoli di bilancio, nessuna liberalizzazione ha riguardato i lavoratori a tempo indeterminato. E anche la massiccia liberalizzazione dei contratti a tempo determinato ha seguito un trend iniziato da almeno venti anni, che non può essere ricondotto all’entrata nell’euro.
L’adesione all’euro – e prima ancora al Mercato unico europeo – ha dunque fornito incentivi economici importanti per riformare. Ma non tutti i paesi sono stati capaci di rispondere o, almeno, molti si sono persi per strada, dopo un inizio promettente. Paradossalmente, ulteriori incentivi sono stati forniti dalla crisi economica che si è presentata nel 2007. Molti studi suggeriscono infatti che le crisi tendono a imporre le riforme strutturali perché il costo, anche politico, del non far niente aumenta. Nel mondo anglosassone è diventato famoso il nome “Tina” – acronimo per There-Is-No-Alternative. Irlanda, Grecia, Spagna e Italia hanno in effetti reagito alla crisi attraverso le riforme, soprattutto delle pensioni e, in misura minore, del mercato del lavoro.
Gli incentivi economici a riformare – in positivo e in negativo – dunque non sono mancati. Se oggi il bicchiere è mezzo vuoto, prima di accusare l’euro, i politici di molti paesi europei farebbero bene a farsi un serio esame di coscienza.
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