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Pensioni

La riforma delle pensioni contribuisce a riequilibrare i conti nel breve periodo, ma soprattutto consente la sostenibilità della spesa per pensioni nel lungo periodo garantendo l’equità intergenerazionale. Sui coefficienti di trasformazione si poteva seguire l’esempio svedese. Resta aperto il nodo dei lavoratori esodati.

A pochi giorni dall’insediamento del governo Monti prende vita la riforma delle pensioni. E’ una importante riforma che va nella direzione di contenere la dinamica della  spesa pensionistica, in linea con gli impegni presi con l’Unione Europea. Le nuove regole contribuiscono a riequilibrare i conti pubblici nel breve periodo, ma soprattutto garantiscono la sostenibilità della spesa nel lungo periodo in un’ottica di equità intergenerazionale. Tuttavia le nuove regole fanno emergere il problema dei lavoratori “esodati” su cui tuttora si dibatte.

COSA È STATO FATTO

La riforma delle pensioni ha affrontato alcuni nodi cruciali del sistema pensionistico italiano, di cui offriamo un breve elenco non esaustivo.
1. Estensione del metodo contributivo pro-rata anche a coloro che andranno in pensione con il sistema retributivo, applicando il calcolo contributivo ai soli contributi versati dal 1° gennaio 2012, rivalutati annualmente con la media quinquennale del tasso di crescita del Pil nominale.
2. Pensione di vecchiaia ordinaria. Già a partire dal 1° gennaio 2012 l’età minima di pensionamento viene innalzata. Per tutte le categorie di lavoratori e per le lavoratrici del settore pubblico l’età minima viene elevata a 66 anni, in luogo di 65 anni.  Per le lavoratrici del settore privato l’età sale a 62 anni (invece di 60 anni) per il requisito della vecchiaia, o in alternativa 60 o 61 anni con il sistema delle quote (se gli anni di contributi sono sufficienti). Il requisito minimo sale a 63 anni + 6 mesi nel 2014, a 65 anni nel 2016, a 66 anni nel 2018. Analoghe modifiche valgono per le lavoratrici autonome.
3. Pensioni di anzianità. Dal 1° gennaio 2012 scompare il sistema delle quote che rimane in vigore solo per i lavoratori impiegati in attività usuranti. Alle pensioni di anzianità subentrano le pensioni «anticipate», basate sul solo requisito dell’anzianità contributiva (42 annni e 1 mese per gli uomini, 41 anni e un mese per le donne). Queste prevedono una penalizzazione sulla quota di pensione relativa ai contributi maturati fino al 31 dicembre 2011 e per la sola quota di pensione determinata con il metodo di calcolo retributivo (nel caso del sistema misto).  La penalizzazione è una correzione attuariale  che tiene conto della diversa longevità dei futuri pensionati (1).
E’ da notare che l’abolizione del sistema delle quote e le nuove regole di accesso alla pensione di vecchiaia  hanno di fatto bloccato molti lavoratori che avrebbero maturato i requisiti in breve tempo e che erano quindi  prossimi alla pensione. Sono previste tuttavia diverse deroghe per particolari categorie di lavoratori, particolarmente se molto vicini alla pensione o se lavoratori precoci.
4. Adeguamento dei coefficienti necessari a convertire il montante del sistema contributivo in rendita pensionistica (coefficienti di trasformazione)  all’aumento della speranza di vita.  Queste correzioni si applicheranno già dal 1° gennaio 2013 e varieranno gradualmente nel tempo, determinando una riduzione del 2-3 per cento delle pensioni erogate (sulla sola parte contributiva). Per contro, coloro che ritarderanno la pensione oltre i 65 anni potranno godere di importi di pensione più elevati (2). La revisione dei coefficienti di trasformazione è particolarmente rilevante nel contesto della riforma pensionistica per garantire un equilibrio del sistema pensionistico secondo il principio del metodo contributivo da applicarsi anche a coloro che andranno in pensione nei prossimi anni e non solo a regime.
5. Blocco parziale delle perequazioni all’inflazione. Per i soli anni 2012 e 2013 l’indicizzazione è garantita fino a tre volte il trattamento minimo Inps (circa 1.400 euro lordi mensili); per l’intero ammontare di importo superiore non viene applicata alcuna indicizzazione.

Leggi anche:  Sulla riforma delle pensioni c'è una via di uscita *

COSA RESTA DA FARE E LE OCCASIONI MANCATE

1. la questione degli esodati.

Non c’è una definizione certa dei “lavoratori esodati” e non stupisce quindi che non sia praticabile una stima corretta del loro numero. Si parla in alcuni casi di lavoratori “esodati” e lavoratori “esondandi” perché, oltre a coloro che sono già usciti dal mercato del lavoro,  potenzialmente alcuni gruppi di lavoratori sono “a rischio”, specialmente se si allargano i criteri di inclusione. I lavoratori esodati sono coloro che prima del 4 dicembre 2011, hanno deciso di lasciare l’azienda anzitempo con la certezza di ricevere la pensione al massimo entro due anni. Per effetto della riforma, che necessariamente ha dovuto trovare applicazione in tempi molto rapidi, e in particolare per l’abolizione delle quote (ma anche per i nuovi requisiti per la pensione di vecchiaia) questi lavoratori si trovano senza occupazione e senza assegno pensionistico.
Il perdurare della crisi economica ha reso il problema particolarmente acuto perché ha fatto emergere una anomalia del nostro sistema di welfare: i  lavoratori in esubero, che un tempo sarebbero stati protetti dal sistema pensionistico anche in età relativamente giovani,  non si qualificano per la pensione perché non raggiungono il nuovo requisito minimo di età per il pensionamento di vecchiaia.
In assenza di una chiara definizione il numero di lavoratori esodati e esondandi deriva da stime: la spesa che dovrebbe derivare dal salvaguardare  i primi 130mila esodati ammonta a circa 9,2 miliardi di euro, necessari per coprire le pensioni per gli anni dal 2012 al 2020.
Il tentativo messo in atto da diverse forze politiche e sindacati di allargare la platea degli aventi diritto attenuando i criteri di selezione rischia di vanificare i capisaldi della riforma delle pensioni.
Per i lavoratori esodati o esodandi una soluzione è tuttora percorribile: rideterminare gli importi pensionistici applicando riduzioni attuariali, pari a circa il 2-3 per cento in meno per ogni anno precedente il raggiungimento della nuova età pensionabile. Al tempo stesso, dovrebbe essere chiesto ai datori di lavoro di versare i contributi sociali per questi lavoratori fino a quando questi maturano il diritto a una pensione piena.
Alla priorità di salvaguardare gli esodati vanno affiancate norme dirette ai datori di lavoro, volte a introdurre adeguati incentivi al mantenimento in azienda dei lavoratori con oltre 57 anni di età o, in alternativa, a favorire con opportuni incentivi o agevolazioni fiscali e contributive il loro reintegro in azienda, anche tramite forme alternative al contratto di lavoro dipendente.
Tali misure saranno più facilmente attuabili se il paese tornerà a crescere e se si realizzeranno piani di risanamento aziendale, assieme al completamento della riforma del mercato del lavoro.

2. la mancata flessibilità

Se da un lato le disposizioni sulla pensione di vecchiaia e la sostituzione delle pensioni di anzianità con le anticipate rispondono all’obiettivo desiderabile e necessario di innalzamento dell’età di pensionamento e rappresentano un importante risultato della riforma di novembre 2011, dall’altro occorre notare che il principio di flessibilità che ha caratterizzato la riforma Dini viene ridimensionato. Poiché tali modifiche sono avvenute in tempi rapidi, la riforma ha costretto molti lavoratori prossimi alla pensione (anche non esodati e non esodandi) a rivedere i propri piani con limitate possibilità di modulare l’uscita dal lavoro verso il pensionamento.  Quindi anche lavoratori che pure avrebbero accettato una decurtazione (ad esempio con criteri attuariali) della propria pensione pur di mantenere la flessibilità in uscita, si sono visti costretti a posticipare il pensionamento continuando a lavorare con mansioni e in ambienti non necessariamente ideali per alcune fasce di età (Boeri Brugiavini – Salviamo la riforma 9.10.2012).

Leggi anche:  Le iniquità del metodo contributivo

3. i coefficienti di trasformazione

Se da un lato era assolutamente necessario intervenire sull’adeguamento dei coefficienti di trasformazione per agganciarli alla accresciuta longevità, dall’altro si poteva una volta per tutte definire un meccanismo automatico simile al sistema svedese. L’idea è quella di assegnare a ciascuna coorte di nascita coefficienti specifici e “fissati” al raggiungimento dell’età pensionabile di vecchiaia. Pertanto, ogni coorte possiede coefficienti propri che tengono conto della dinamica della longevità e dell’andamento economico.
Il sistema dei coefficienti di trasformazione è iniquo tra le generazioni e all’interno della stessa generazione perché dipendono dall’anno di pensionamento e non anche dall’anno di nascita. Nel sistema svedese viene garantita equità intragenerazionale, perché lavoratori della stessa coorte di nascita vengono remunerati con lo stesso coefficiente basato sulla longevità, e si raggiunge anche una equità intergenerazionale perché ogni generazione vede il proprio montante attualizzato in funzione della propria longevità e della propria durata del pensionamento (Sandro Gronchi, 22.12.2011).

 

4. i fondi pensione

La riforma delle pensioni intende rafforzare il ruolo dei tre pilastri del sistema pensionistico, quello pubblico con la prestazione erogata dall’Inps, quello privato dei fondi pensione, e quello individuale costituito dal risparmio personale, aprendo all’ipotesi di trasferire una quota di contribuzione attualmente destinata al sistema pubblico alla previdenza complementare.  Tuttavia sembrano ancora insufficienti le misure tese a rafforzare la previdenza complementare. Inoltre è ancora carente l’informazione fornita ai lavoratori sui possibili vantaggi e svantaggi di questa forma di assicurazione previdenziale.

(1) Vedi Sandro Gronchi, “Cosa fare delle pensioni di anzianità”, www.lavoce.info del 15.11.2011 e Tito Boeri e Agar Brugiavini, “Non per cassa ma per equità”, www.lavoce.info del 9.11.2011.
(2) Sono stati individuati 130mila lavoratori esodati con il decreto interministeriale di giugno (65mila) e con la legge sulla spending review dello scorso agosto (55mila); i rimanenti 10mila discendono dall’applicazione della “finestra mobile” che ha posticipato il pensionamento di dodici mesi dalla data di effettiva maturazione del diritto. Dalla ricognizione di ottobre è emerso che alla platea degli esodati del biennio 2013-2014 si aggiungono ulteriori 8.977 lavoratori e secondo le stime saranno perciò necessari altri 440 milioni di euro per il biennio in questione: la copertura finanziaria è in fase di definizione in sede legislativa.

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  1. Piero Atzori

    Gli studi degli economisti possono anche essere puntuali e precisi sulla base dei dati a loro disposizione, ma questi dati sono difettosi e carenti. Sappiamo che se è possibile per i magistrati giungere in servizio fino alla bella età di 78 anni, con ritmi di
    lavoro inversamente proporzionali agli stipendi, per altri non è possibile
    reggere a più di 65 anni. Per gli insegnanti, ad esempio, non è possibile tener
    testa alle classi e dare il meglio di se stessi fino a più di 62-65 anni, a
    seconda del loro personale stato di salute. Lo dice l’esperienza e il buon senso. Con il costringere gli insegnanti a insegnare quando non se la sentono più né fisicamente né
    spiritualmente si fa danno a loro, agli alunni, alla scuola, alla società.

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